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lunedì 16 giugno 2014

Lorelei - Угрюмые Волны Студеного Моря

#PER CHI AMA: Death/Doom/Gothic, primi Theatre of Tragedy 
Russia ormai è diventato sinonimo di death doom: ne sono l'ennesima conferma questi cinque ragazzi di Mosca, a nome Lorelei, che ci propinano un classico sound oscuro dalle doppie vocals, growl e soprano femminile, che mi hanno ricordato non poco i primi Theatre of Tragedy (non a caso "Lorelei" è anche una song della band norvegese). La musica poco si discosta dai dettami del genere; ciò che ha catalizzato la mia attenzione è stato l'inserimento di alcune parti recitate in italiano. Le ritroviamo ad esempio in "Холод безмолвного зимнего леса...", in cui largo spazio viene concesso alla brava cantante Ksenia Mikhaylova, mentre le ritmiche eseguono il loro compitino egregiamente, disegnando malinconiche melodie che sicuramente piaceranno a chi segue il genere e al contempo annoieranno chi invece è ormai saturo dell'ennesima proposta di questo tipo. Le song si lasciano tutte ascoltare ma la musica dei nostri non apporta rilevanti novità: niente male il pesante growling di Evander Sinque (vocalist dei Who Dies in Siberian Slush e guest star in questa release), cosi come pure le tastiere di Marina Ignatovich che con le sue atmosfere, rende il tutto estremamente più accessibile. Tuttavia, l'album continua ad avere un che di già sentito forse perché quella dei Lorelei è una proposta che andava molto di moda a metà anni '90, ma anche perché dà sfoggio di tutti i cliché che il genere impone. Mi fa piacere l'ispirazione che i nostri traggono dai classici nostrani, con un intermezzo dal titolo "La Vita Fugge e non s'Arresta un'ora", che si rifà ad un famoso sonetto del Petrarca. Poi, c'è poco altro da segnalare in questo 'Угрюмые Волны Студеного Моря', lavoro che segna l'ancora acerbo esordio di questi giovani ragazzi. (Francesco Scarci) 

(BadMoodMan Music - 2013) 
Voto: 60 

domenica 15 giugno 2014

Arbor - Echoes Over Oceans

#PER CHI AMA: Progressive black metal, Agalloch, Wolves in the Throne Room
'Echoes Over Oceans' esce nel 2014 in puro stile DIY (con uno splendido digipack peraltro) dalle mani dell'attivissimo trio americano degli Arbor, di base a Milwaukee (WI); il lavoro rappresenta il secondo album della band che segue l'ottimo debutto del 2012, già recensito su queste stesse pagine. Geniale commistione tra onirico, evocativo black metal stile Agalloch e Wolves in the Throne Room con fughe post rock, prog e shoegaze, atmosfere surreali spaccate da sfuriate cerebrali di violento, liberatorio evoluto black dalla forte ispirazione naturalistica. Il progressive di matrice seventies emerge in maniera evidente, con echi dei Rush ma anche di cose più complesse e classiche come quelle proposte da Yes e Hatfield and the North ma anche da influenze più moderne alla Ulver e quelle atmosfere sospese del gioiellino 'The Marriage of Heaven and Hell', senza però la pesante componente elettronica industriale, ma tutto portato in una struttura sonora sofisticata e curatissima, dalla forte componente melodica, da assaporare senza indugi e tutta d'un fiato. Un doppio album con otto brani (le migliori del lotto a nostro avviso sono "The Foliate Head" e "Archways") dalle atmosfere variegate, con costruzioni intense ed evocative. Quasi novanta minuti di musica da ascoltare attentamente, immergendosi in tutte le sue sfumature, dalle aperture drone/atmospheric dark, alle classiche e cristalline composizioni progressive, ricche di ariose melodie e dalle chitarre lussureggianti, fino alle veloci cavalcate black cariche d'infinito. Il lavoro alla fine è di buonissima qualità, pur rimanendo nell'autoproduzione di stampo fedele al black metal più sotterraneo e oltranzista, dove tutto si sente alla perfezione: voci, chitarre e batteria sono ottime e anche se i due cd sono di notevole durata, alla fine non ci si annoia mai durante il suo ascolto, tante sono le variazioni sul tema portate dal trio statunitense, nelle medio lunghe composizioni musicali. Lavoro appetibile, artwork notevole anche se poco comprensibili sono i titoli nel retro. Lasciatevi stregare, ne vale la pena! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Firtan - Niedergang

#PER CHI AMA: Epic Black, Bathory, Windir 
Primo full lenght per i teutonici Firtan dal titolo 'Niedergang' (Declino), che rivela al mondo sommerso una nuova entusiasmante band che farà breccia tra i seguaci del black atmosferico. Otto tracce più intro per il combo di Lörrach, piccola cittadina nel sud della Germania. L'album si dischiude con l'acida "Angst", song nevrotica (soprattutto a livello vocale) che alterna sprazzi di eleganti atmosfere con sfuriate black a la Windir. Pagan, black, ambient e post sono solo alcuni degli ingredienti che costituiscono e caratterizzano il terzetto germanico che vede in alcune aperture al limite del sinfonico altri suoi punti di forza. La durata quasi mai eccessiva dei pezzi (fatto salvo per i nove minuti abbondanti della title track e gli otto minuti di "Huckup") contribuisce a rendere le melodie più facilmente memorizzabili. Le keys, posizionate come arrangiamento inizialmente solo in secondo piano (ma più avanti si riveleranno la vera colonna portante dei pezzi), conferiscono un'aura sinistra all'intero lavoro. "Hypnos & Thanatos" è uno splendido pezzo che si muove tra epiche cavalcate, interludi ambient e urla disumane. L'immagine che mi si configura davanti agli occhi è quella di pascoli verdi su sinuose colline, su cui si stagliano però minacciose nubi basse, cariche di pioggia. La lunga e già citata title track ha un che dei primi Alcest nel suo effluvio sonoro: arpeggi malinconici, lo screaming disperato di Phillip Thienger, il marziale incedere delle ritmiche e quel magniloquente suono delle tastiere, che devo ammettere aver catalizzato quasi interamente la mia attenzione, rendono alla fine la release dei nostri di più facile approccio anche per chi non mastica quotidianamente questo genere di sonorità. Fatto un piccolo sforzo iniziale, vi ritroverete coinvolti in eroiche battaglie, in cui le spade brandite volgono al cielo. "Zwischen Wahn und Sinn" è una song morbosa e cupa, in cui predomina la componente sinfonica, mentre la successiva "Seelenfänger" si propone con un mood decadente nella sua introduzione, guerresco e corale nella parte centrale, in cui nuovamente sono le tastiere ad assurgere ormai al ruolo di protagoniste indiscusse del lavoro. La forza brutale del black riesce a trovar sfogo in una breve tempesta sonora, prima che le acque possano trovare la loro tranquillità. Tranquillità che viene spezzata dalla furia dilagante di "Wogen der Trauer", la traccia più brutale del lotto, in cui ad emergere fortissimamente nelle sue ritmiche pagane, sono nuovamente i Windir. Passando oltre la breve e strumentale "Oneiros", arriviamo alla conclusiva e tragica "Huckup": bucolico l'inizio affidato all'acustica, prima che la componente elettrica subentri inneggiando alla guerra. Se solo accanto alle screaming vocals ci fossimo trovati anche una componente vocale declamata o pulita, forse oggi starei parlando di capolavoro. Per ora mi accontento di un signor album che farà la gioia di coloro che trovano giovamento nell'ascolto dei Bathory più epici, degli Agalloch o dei più volte citati Windir. Firtan, un nuovo nome da inserire nel vostro sempre più folto taccuino, ma credo ne valga davvero la pena. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 75 

giovedì 12 giugno 2014

Megattera – Origo

#PER CHI AMA: Elettronica, Industrial, Ministry
I Megattera (a proposito, bellissimo nome), ultima sensazione dell’elettronica romana, sono un duo composto da Matteo e Gianni, con un passato da musicisti “tradizionali” in ambito post rock. Armati di campionatori, drum machine e sequencer, i due riescono a districarsi egregiamente tra atmosfere sintetiche ora piú rarefatte, ora “sporcate” da clangori industrial, sviluppando un discorso fatto di suggestioni apocalittiche e scenari post industriali, ricco di intuizioni spesso sorprendenti. La costruzione di questi 6 brani segue sovente un canovaccio simile: i due procedono per stratificazione, deponendo sopra un beat iniziale scarno (e scarnificato) nuovi layer sonori, che ben presto rivelano un disegno dalla complessità via via crescente, senza perdere mai di vista l’identità del brano, anzi valorizzadolo con orchestrazioni metalliche e soluzioni interessanti e mai banali. Si parte con le scansioni marziali di "Nebula", dove le orchestrazioni vengono scosse da sferzate cyber-punk. I pezzi fluiscono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, ed ecco quindi che "La Lunga Attesa" che mantiene fede al suo nome, creando una tensione sospesa e trattenuta, si trasfigura repentinamente nei ritmi parossistici da tempesta elettromagentica di "La fine del Perdono". "Vorago" è sicuramente tra gli episodi migliori dell’album, con la sua sottile inquietudine instillata da un beat simil trip-hop, e un poetico break di chitarra elettrica arpeggiata prima di un finale maestoso e liturgico. I brani dall’incedere lento e compassato sono quelli che si fanno preferire in una scaletta che non ha comunque momenti di cedimento, anche in una "IO/RE" sporcata di dubstep e quasi danzereccia (nell’accezione che Trent Reznor darebbe a questo termine). La lunga, conclusiva "Grande Inverno", forse ispirata alla saga di 'Game of Thrones', si staglia minacciosa all’orizzonte alternando raffiche di elettronica gelida a intermezzi chitarristici dal sapore post che scaldano piú di un ciocco crepitante nel camino in una notte di neve. In definitiva si tratta quindi di un disco decisamente interessante, forse un po’ ostico al primo ascolto, ma in grado di regalare tante soddisfazioni all’ascoltatore, e di insinuarsi sotto pelle come un germe mutante difficile da debellare. Ottimo lavoro! (Mauro Catena)

(Killrpool Records - 2014)
Voto: 75

Aeons Confer – Symphonies of Saturnus

#PER CHI AMA: Progressive Death Dark, Augury, Anaal Nathrakh, Wintersun
Il sestetto di Amburgo ci coglie di sorpresa e ci lascia esterrefatti con un primo album pazzesco dove la forma epico oscura degli Anaal Nathrakh, la lucida e classica rigidità teatrale dei Wintersun, la potenza tecnica degli Augury e la variante sinfonica monumentale degli Empyrion riescono a sfociare tutte assieme in un unico album dai mille volti. La tecnica sopraffina e le più che incoraggianti e ricercatissime strutture di metal sinfonico si incontrano nel cammino di un death metal violento e glaciale, dalla doppia cassa devastante e dal suono al limite dell'industriale. Rumori, cori, elettronica minimale, tastiere mastodontiche, chitarre killer, tanto moderno metal (ascoltate "ESP" o "Aeonized") e un vocalist degno di tale nome sia nel growl che nel pulito. Numerose ed inaspettate aperture melodiche con forte ispirazione ad un freddo, oscuro e potente metal proiettato nel futuro, conferiscono un'impronta progressiva e concettuale all'intero lavoro. Questo è un disco spaventosamente pieno di idee, ragionate a lungo (9 anni di gestazione dal precedente EP!), suonato a dovere e carico di nitroglicerina pronta ad esplodere; un continuo intersecarsi di riff e umori contrastanti inghiottiti da un cantato magistrale. Tutto calza a pennello e niente scalfisce l'intero ascolto dei quattordici brani disseminati nei circa settantotto minuti dell'album. Tutto è legato come in un lungo concept da una colata di lava incandescente: velocità, melodia, drammaticità, teatralità e potenza al di fuori della norma. Ci fa rabbrividire di gioia pensare a quale sforzo creativo questa band teutonica si sia sottomessa e a quale apice sia approdata. Immaginate 'Timmo Tolkki's Avalon' in una forma oscura e oppressiva; visualizzate nella vostra mente una specie di musical in chiave death metal e avrete un'idea di ciò che vi aspetta. Aggiungete poi tanta tecnica, una bella dose di violenza, un suono professionale, un modus operandi e una scrittura musicale da dieci e lode privo di cadute, che non annoia, e che riesce a rivitalizzarsi ad ogni ascolto. Considerando che il tutto non è di facile approccio, rimarchiamo a gran voce che questo è un signor album! Fast and modern symphonic dark metal ritroviamo scritto sulla presentazione del cd... e nulla potrebbe descrivere meglio questo loro stupendo primo full lenght! Una band da non perdere di vista pronta per il grande passo! Gioiellino da avere! (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 90

martedì 10 giugno 2014

Cauldron Black Ram - Stalagmire

#FOR FANS OF: Black/Death Metal, Doom/Sludge, StarGazer, Crowbar
Never one to follow a strict releasing schedule, this third release from the Australian Black/Death Metal act comes four years after their last release, itself six years after the preceeding offering so there’s clearly no need to put out music constantly from the band with an output like that. Certainly, though, that relaxed pace has certainly caused a more relaxed vibe to enter their music for this band’s output is decidedly plain and quite sluggish, as the album rarely manages to make a lasting impact with its chosen style of primal Death Metal, Doom and Black Metal while laced with dashes of Sludge for what is a wildly inventive mix but one which doesn’t always make for entertaining listening. The slow, droning Doom tempos are mixed with brazen, heavy Sludge-like riffing patterns recorded with a level of slime and fuzz that incorporates the occasional fast-paced Death Metal section against a hoarse, demonic rasp that brings the Black-ness into focus, but overall this conglomerate of influences manages to come up with a hodge-podge of discordant sounds and off-kilter passages that make for a scattershot and disorganized-sounding album that doesn’t know to keep itself in line for the track as it has to go off into its own little world almost as if distracted by something else in the room. That the production is so weak and bland certainly does this no favors, rendering the guitars into a pile of mush that further offers their Sludge listing while making riffs bleed into each other with so much distortion going on as to make it nearly impossible to determine the actual melody being played. As well, the drums are just merely pounding percussion notes playing the background and really don’t do much of anything to distinguish themselves while the blaring, muddy bass-lines throughout make for a rather sloppy mess that it can’t really recover from. There’s no bite at all to the music and when mixed with generally boring and disorganized music as this it really makes the whole effort hard to get into. This isn’t all the fault of the songs, as intro "Fork Through Pitch" signals their intentions immediately with plodding riff-work, stagnant paces and churning, slow-broiled rhythms at odds with each other as the thrashier sections clash wildly with the sluggish tempos, awful production and decidedly obvious lack-of-life within the arrangements, clearly gives a noticeable warning. "Maw" is slightly better with a tight riffing set and some spirited sections, but again the lousy production, plodding rhythms and generally heavy-handed forcing of the different elements into a whole makes for a rather troublesome outing. "Discarded Death" is a bit better as it focuses more on low-slung Death Metal riffing and a generally faster vibe that comes off as one of the faster tracks on the album and stands out because of that. The album’s worst track, "A Litany of Sailor’s Sins," is just too slow and plodding to offer anything substantial here with a lame central riff, no speed or even heaviness until the later half, which is generally too little too late to matter with this one. This plodding, generally uneven pace is repeated throughout "From Whence the Old Skull Came," the rumbling bass failing to make the bland, plodding riffs stand up against the uninteresting drums and makes this one undoubtedly disposable. "Bats" tends to focus itself a little better with some fine mid-tempo riffing and a generally enjoyable pace, while the fine instrumental "Cabin Fever" certainly offers up some interesting up-tempo riffs and sections that actually comes across as one of the better tracks without the vocals to hold it back and lets the band rip away with abandon. "The Devil’s Trotter" does get things back on track with the bouncy rhythms and actually fun tempo throughout, but tends to wander around too much with the eerie vocal chants and go-nowhere final half that really makes it hard to finish off strongly, which certainly aligns itself with the plodding closer "Speliogenesis," as the extended vocal chanting, plodding riff-work and generally numbing riffing throughout manages to end on a feeling of euphoria at not enduring anymore as the final up-tempo notes sign off once and for all at the general lack of interest it has in sustaining that pace. The credit for mixing the genres is certainly commended, but the fact that it’s so weak and disorganized as this is certainly troubling. (Don Anelli)

(20 Buck Spin - 2014)
Score: 40

Mosca nella Palude - Ultrafuck

#PER CHI AMA: Crossover, Korn, Faith No More, System of a Down
Nonostante il roboante lancio della loro cartella stampa (”i Faith no More che vanno a fare una passeggiata nella giungla con Beastie Boys e John Zorn e tornano sconvolti...”) lasci presagire qualcosa di diverso – e forse un tantino piú originale – i binari su cui si muove il trio toscano in questo esordio, sembrerebbe essere piuttosto il buon vecchio crossover anni '90 a stelle e strisce: brani brevi e perlopiú schizofrenici, schegge impazzite che riprendono il discorso portato avanti anni fa da Korn e System of a Down, senza inventare nulla di nuovo ma non senza una buona personalità, tanta energia e in definitiva una notevole credibilità. I Mosca nella Palude sembra si prendano poco sul serio, per via di un’ironia di fondo che ben si esemplifica nei titoli dei brani ("Madafuga", "Fac Alabama", "Beastie Toys", tra gli altri) e in un’attitudine giocosa che, ad un ascolto distratto, potrebbe portare a bollarli come niente piú che dei simpatici cazzoni. Cosa che sarebbe molto sbagliata, dato che i tre ci sanno indubbiamente fare. L’opener "Madafuga" è la piú pattoniana della scaletta, con quel chorus che sembra venire direttamente da 'King for a Day'. "Rex Idiotorum" introduce percussioni tribali che caratterizzeranno un po’ tutto l’album e contrappone ad una prima parte tutta convulsioni, una seconda potente e melodica. Se qualche episodio forse non è ancora perfettamente a fuoco, prediligendo l’effetto sorpresa a tutti i costi a discapito della costruzione del brano ("Revolution"), altrove i tre dimostrano di avere molte cose da dire, come nel tribalismo schizoide di "Aaayeee" o nelle sorprendenti chitarre sguaiate di "Afghan", oppure ancora nella splendida, conclusiva, "Smith Wesson", riminescente di certe atmosfere a la System of a Down. A spezzare la tensione epilettica dell’album ci pensano un paio di brani acustici molto interessanti, come il paludoso blues "Fac Alabama" o l’inafferrabile "Marzo" che disegna paesaggi e melodie cari ai Porno for Pyros di Perry Farrell. Rimane da dire della voce versatile e camaleontica di Giovanni Belcari, mente del progetto, il cui timbro ricorda in piú di un passaggio quello di Billy Corgan. Lavoro in definitiva interessante, estremamente energico e ricco di entusiasmo. Attesi alla prova dal vivo e a nuovi sviluppi futuri. (Mauro Catena)

(Santa Valvola Records - 2013)
Voto: 70

Dormant Ordeal – It Rains, It Pours

#PER CHI AMA: Death Metal, Meshuggah, Exhumed
I Dormant Ordeal sono una band polacca di notevole caratura tecnica che sapientemente coniuga il suono sanguigno e reale, stile ultimi Sepultura, con influenze estreme a la Meshuggah, Exhumed e Mostrosity. L'album si distingue per la freschezza di esecuzione e un'abile fluidità nella scrittura dei brani, che lo rende veramente appetibile. L'ascolto è naturale, i suoni ben calibrati e ricercati per mediare tra i fans troppo esigenti dei Meshuggah e quelli più esplosivi di band come gli Exhumed, contemplando anche quel tocco di sano classicismo che tutt'ora Sepultura o Napalm Death, con tanto orgoglio a distanza di anni, si portano a presso (ovviamente il riferimento sta nell'alta qualità della proposta musicale intrinseca di 'It Rains, It Pours'). Artwork di copertina di elevata e raffinata bellezza, lontano dagli stereotipi del genere che potrebbe richiamare il malinconico mondo dei Katatonia; dodici brani in quarantadue minuti di musica d'alto livello. Death metal il loro, compresso ed efficace, con tutte le carte in regola per entrare nelle grazie degli amanti del genere; la band costruisce brani memorabili, violenti ed estremamente fruibili, carichi d'energia con estratti cyber-futuristi degni della suddetta mitica band svedese ma senza calcare troppo la mano sul tecnicismo fine a se stesso, anzi relegando la tecnica al servizio della buona riuscita del brano. Tutti i pezzi interagiscono tra loro creando insieme una trama che dona all'intero lavoro una solida omogeneità. Il sound si rivela caldo, avvolgente, saturo e claustrofobico quanto basta, sorprendentemente additivato con uno stile “diretto”, tanto “orecchiabile” quanto ricercato e potente, di ottima fattura con richiami deathcore cari agli Agoraphobic Nosebleed, con una batteria magistrale e ritmiche veloci mozzafiato, un cantato in perfetta sintonia e un'equalizzazione dei suoni che mette tutti e tutto al posto giusto (il doppio gancio, "The Sinless", "Your Mother – Slave", ne sono un buon esempio). Alla fine soddisfatti e triturati, siamo in grado di emettere un verdetto finale...se cercate una seria risposta underground al mainstream omologato, questo è il disco che fa per voi! (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 80