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giovedì 26 novembre 2015

Confidead - Rise

#PER CHI AMA: Hardcore/Punk/Metalcore, Pro-Pain, Madball
I finlandesi Confidead esordiscono con 'Rise', album dalle grafiche old school tattoo e dalla musica da loro chiamata “Mudlake Hardcore”, la quale altro non è che del classico hardcore punk in stile newyorkese. Le composizioni qui contenute risultano di primo acchito, pressoché identiche l'una all'altra e per questo rischiano talvolta di farci cadere nella noia: la voce è costantemente urlata con cori armonizzati, riff granitici e un ritmo assai elevato, le dinamiche quasi del tutto inesistenti. A tratti, i Confidead ricordano i Disfear, per quelle veloci melodie, le quali suonano anche piacevoli e ben inserite nel contesto dell'album, come nel caso di “Strength to Prevail” e “Fuck You All”, o alcuni feroci d-beats voluti principalmente all'inizio delle tracce, come si può ascoltare in “Song for the Dead” e “Face First”. Dopo numerosi ascolti però, il disco fatica ancora a crescere, e uscire dall'anonimato di un genere che se non ha detto tutto poco ci manca; alla fine ciò che rimane è solo qualche sporadico ricordo a livello lirico, dal dubbio contenuto intellettuale. Tuttavia la produzione patinata punta tutto su una compressione totale che enfatizza gli stop'n'go e l'impulso ritmico, che contribuisce a conferire un minimo interesse al disco. Alla fine, questo debutto per il quintetto di Järvenpää altro non è che una prima prova che dimostra che per il momento, i bad boys finnici hanno appreso bene la lezione e l'hanno replicato perfettamente le band capostipite del genere. Non c'è nulla di sbagliato in 'Rise', né fuori posto, se non una palese difficoltà nel far trasparire una ben definita personalità, che in un prossimo album, auspico possa emergere ben più forte. Avanti, ma con più coraggio. (Kent)

(Kuri Records - 2015)
Voto: 60

mercoledì 25 novembre 2015

Навь/ Deathmoor – De Morte Peccati ad Mortem

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Un bel titolo in latino per accomunare in uno split cd, due interessanti realtà estreme provenienti dalla Russia, in un album uscito nel 2014 per la S.N.D. Production. Le prime tre tracce di 'De Morte Peccati ad Mortem' sono affidate agli Навь, illustre quanto veterana black metal band, attiva addirittura dal 1996 con una numerosa serie lavori alle spalle, che propone un metal oscuro ed estremo, pieno di carica ed energia, non per forza di cose spinto all'eccesso verso le tenebre ma con una vena di puro metallo freddo, tagliente e filtrante che affila le sue armi nella tecnica e in una velocità di esecuzione fatta da riff travolgenti di matrice thrash mittle-europea, e da un sound definito, ricercato e violento al punto giusto, dosato e ben calibrato. Nota speciale per il secondo brano dal titolo "Незримое прикосновение к бездне и смерти" che merita veramente un ascolto più prolungato e attento. Le successive due lunghe tracce chiudono lo split cd, presentando un'altra longeva e attivissima band russa denominata Deathmoor. Attivi sin dal 1999 con ben quattro full length alle spalle (di cui l'ultimo 'Actus Sacrophagia Mortem' in uscita fra qualche giorno), il quartetto di Stavropol ci mostra come lo stesso genere possa avere tante sfumature diverse al suo interno. I Deathmoor suonano un black violento e veloce che spinge le proprie ambizioni verso l'avanguardia di casa Bethlehem, Behexen o Dødheimsgard, aumentando il lato più psichedelico e noise delle dilatate composizioni, ed esponendo, con ottimi risultati, un suono ostico, estremo, teatrale e drammatico. Due tracce di sicuro effetto ma "В потоках сентябрьских ливней", la prima, offre un biglietto da visita non indifferente. Avvolto in una grafica particolare ed insolita, artisticamente ben curata e dal gusto vagamente indie, questo split cd può soddisfare le aspettative di un pubblico esigente e ricercatore di nuovi confini sonori estremi. Due band che si confermano in ottima forma! L'ascolto è consigliato! (Bob Stoner)

(S.N.D. Production - 2014)
Voto: 70

lunedì 23 novembre 2015

Foret d'Orient - Venetia

#PER CHI AMA: Black/Death Mediterraneo, Janvs
Venezia: oggi forse la città più famosa al mondo, in passato simbolo di raffinatezza nel XVIII secolo, città assoluta padrona dei mari ai tempi delle Repubbliche Marinare. Oggi Venezia viene celebrata dai Foret d'Orient, figli orgogliosi di quella leggendaria terra di Dogi, abili marinai, grandi artisti e commercianti. 'Venetia' è il titolo appunto del full length di debutto del quartetto di amici che abbiamo già avuto modo di conoscere con il loro EP, 'Essedvm' e anche dal vivo in una intervista radiofonica. I Foret d'Orient tornano con un sound un po' rinnovato rispetto agli esordi. Levatisi di torno l'aura magica che ricordava i Nihili Locus, oggi, con una maggior consapevolezza nei propri mezzi, il quartetto veneto propone sette tracce che probabilmente appariranno di primo acchito, meno ricercate che in passato, ove il sound era ancorato a un black atmosferico a tratti barocco. Ascoltando "A Reitia", la traccia dedicata a una divinità venerata dagli antichi Veneti, ci troviamo di fronte un sound più secco, che potrebbe richiamare gli Janvs o gli Spite Extreme Wing, anche se a differenza delle band di Matteo Barelli, la componente mediterranea qui si conferma assai presente nella matrice musicale dei nostri, grazie alla presenza dell'arpa di Sonia Dainese, che riesce a dare alla musica dell'ensemble veneziano più ampio respiro, grazie alle sue suggestive orchestrazioni. "Dal Mare alla Terra" ha un selvaggio attacco black su cui si stagliano le mastodontiche e cavernose vocals di Roberto Catto che esaltano, ovviamente, la grandezza della Repubblica di San Marco. La ritmica è convulsa, largo spazio viene lasciato al basso di Marco Barolo e al drumming funambolico di Emiliano Rigon. Pregevole l'assolo di Marino De Angeli, che non è invece un membro ufficiale della band, pur avendo suonato tutte le chitarre sul disco. Con "Lepanto", i nostri celebrano la battaglia navale omonima che vide opposte le flotte dell'impero Ottomano a quelle Cristiane (costituite da spagnoli, veneziani, genovesi e forze dello Stato Pontificio). La song è una descrizione, ovviamente in italiano (come tutto il disco d'altro canto), di quelle ore di violenza in cui il Leone di Venezia si distinse per la forza delle sue galee che diedero la vittoria alla coalizione cristiana. La musica sembra seguire la descrizione di quegli eventi in un saliscendi emozionale tra ruggiti di chitarra, arpeggi e delicati tocchi di pianoforte. "Sogno de Vis" è una splendida song che vede la presenza di una forte componente sinfonico barocca al suo interno, ove sembra di essere d'improvviso immersi in suoni del '700 con tanto di spinetta e archi. La traccia narra poi le vicende dell'isola di Lissa, che faceva parte della Repubblica di Venezia ma dopo la Seconda Guerra Mondiale, venne invece inglobata nella Jugoslavia. "Dominio da Mar" è dirompente nella sua serratissima ritmica ammorbidita da delicati tocchi di arpa e da uno splendido break centrale in cui compare come guest vocalist, l'epico e "arcturiano" Luca Grandinetti dei Fearbringer (in realtà presente in 4 tracce su 7). La band si muove qui (e negli altri pezzi) in frequenti cambi ritmici assai tecnici, di cui vorrei sottolineare ancora una volta l'importanza affidata al basso metallico di Marco. Il gran finale è una splendida sorpresa, affidata com'è ad "Adagio in Sol Minore", un pezzo famosissimo del compositore veneziano Tomaso Albinoni (noto per essere stata colonna sonora di film, o la base di in un vecchio brano di Mina, musica per cartoni animati o videogames). Il risultato, qui riarrangiato da Antarktica con le parti di arpa suonate dalla brava Sonia, è semplicemente da applausi, da pelle d'oca. Insomma 'Venetia' è un inno all'immenso patrimonio culturale di Venezia, alle sue tradizioni e al suo popolo che si sente (giustamente) fiero delle proprie origini. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

domenica 22 novembre 2015

Wovoka - Saros

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Cult of Luna, Neurosis
È un vero peccato constatare che molto spesso in Italia non viene dato risalto a certe band dell'underground che meriterebbero invece tutta la vostra attenzione. Ecco, i los angeliani Wovoka sono una di quelle band da tenere sott'occhio, per cui un ascolto è il minimo pegno da pagare per non lasciarvi sfuggire una band dalle potenzialità assai interessanti. Certo non saremo al cospetto di una proposta cosi innovativa, però considerato che i nostri vengono da Los Angeles, città che non è certo la culla del post metal, converrete con me che i Wovoka alla fine ne escono parecchio fortificati nella loro immagine. 'Saros' è un disco infatti di post-qualcosa, se non era ancora abbastanza chiaro, che se fosse stato concepito qualche centinaio di miglia più a nord di L.A., si sarebbe gridato al miracolo per la nascita di un'altra band geniale partorita nella baia di San Francisco. E invece i nostri quattro cavalieri dell'apocalisse se ne fottono di tutto e tutti, rilasciano queste sette tracce che partendo da "Chosen" fino alla conclusiva "Eclipse", sapranno tenere alta la tensione di chi ascolta. L'opening track impressiona per la robustezza del suo riffing nonchè per il catarroso screaming dei suoi vocalist. Poi l'incedere lento e profondo fa il resto, con le chitarre che disegnano una linea melodica convincente, su cui si stagliano i vocioni del duo formato da Eric e Cody, mentre le (loro stesse) chitarre giocano a creare atmosfere plumbee e catastrofiche, degne dei migliori Neurosis. Fighi, devo ammetterlo. Ma anche parecchio malinconici e forse proprio in questo risiede la godibilità e accessibilità a 'Saros'. "Lament" ne è la dimostrazione: una triste linea melodica in sottofondo con chorus annesso e poi ecco smarcarsi un approccio sonoro che affonda le proprie radici nel post rock e nel modo di interpretare il genere da parte dei Cult of Luna. Nel break centrale i nostri divengono ancor più goduriosi, sfoderado accanto a riffoni tipicamente sludge, tenebrose aperture atmosferiche. Un urlo disumano mette a soqquadro l'inizio di "The Sight", song che vorrei ricordare più che altro per le sue minacciose atmosfere nella parte centrale e per un lungo epilogo ambient/noise. "Trials" apre con un ipnotico giro di chitarre e sopra di nuovo l'urlo disperato di uno dei due frontman. Il sound, estremamente ritmato, diventa man mano più claustrofobico inabissandosi in uno sludge contorto e catartico, che vive di forti rallentamenti alternati a delle crushing chitarre davvero schiacciasassi. "Sleep Eater" mette in mostra un mastodontico riffone iniziale, a cavallo tra stoner e post metal, poi un riffing quasi marziale, cede la scena alle abrasive voci del combo californiano. Interessante dopo il break ambient centrale, la comparsa di vocals pulite in sottofondo che aumentano il mio grado di interesse per un album già di per sé buono. Con "Prayer", i Wovoka si spingono oltre, in territori più sperimentali, con uno strumentale ambient minimal noise, che ci conduce alla conclusiva "Eclipse". Siamo cosi arrivati all'ultima traccia di questo 'Saros', una song che sfiora i 14 minuti di durata, e con una manciata di minuti iniziali affidati a quella che è una chitarra ma somiglia di più al ronzare del battito d'ali di una fastidiosa zanzara. La band poi torna a sprofondare nell'abisso di uno sludge parecchio melmoso, quasi al confine con il funeral, segno tangibile che i nostri si trovano a proprio agio anche a sguazzare nel fango più putrido. La song trova poi una propria strada e prosegue sui binari del post/sludge di matrice svedese, con un sound di impatto, ma sempre emozionale, prima di un catacombale e nefasto epilogo di totale assenza di luce. Los Angeles 2015: il sole si è oscurato per colpa dei Wovoka. (Francesco Scarci)

(Battleground Records - 2015)
Voto: 80

Omertà - Crown of Seven

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Alternative, Motorpsycho, Karma to Burn
Gli Omertà, a dispetto del significato del loro moniker nella lingua italiana, sanno come fare rumore, vogliono farsi sentire, deliziare le orecchie di chi ascolta e mostrare le loro grandi doti musicali. Gli Omertà, sebbene il nome latino, arrivano da Riga capitale della Lettonia, sono giovani e nel 2015 hanno fatto uscire un album tutto da ascoltare. 'Crown of Seven' è un disco interamente strumentale e consta, ovviamente, di sette brani funambolici guidati da un chitarrista (Renars Lazda) pieno di risorse e capacità da vendere. La chitarra è l'assoluta protagonista in ogni brano, lanciandosi in spericolate acrobazie sonore che prendono spunto dallo stoner dei Karma to Burn, da certo metal stile ultimi Megadeth, e da strutture noise rock alla Steve Albini, con una matrice dura ma inevitabilmente magnetica e cinematica. Il suono, potente ed equilibrato, è ben supportato dalla sezione ritmica che vede in Eduard Bekeris al basso ed Einars Latisevs alla batteria, gli altri due elementi che completano il trio, e si muove possente tra le mille influenze della band, tra echi di moderno blues alla Firebird e cavalcate stoner, assoli sparsi ovunque, alta velocità di esecuzione e una propensione per brani lunghi con evoluzioni in senso progressivo e pesantezza alla maniera dei già citati Karma to Burn, con un che, a livello di tiro, comparabile ai Black Tusk, immaginandoli senza parti cantate. Proprio l'assenza di parti cantate confina gli Omertà in territori in cui si trovano band appetibili solo da intenditori e da chi è alla ricerca di ascolti impegnativi. Detto questo potrei aggiungere che l'album, anche se godibilissimo all'ascolto, risulta per la tanta tecnica esposta, assai sofisticato e necessita di vari passaggi per essere apprezzato a fondo. Fin dalle prime battute del disco si nota comunque, a livello compositivo, una buona dose di personalità, ma va ascoltato attentamente. Prodotto in maniera praticamente perfetta, il sound saltella qua e là tra metal, noise e stoner rock, con una miriade di riff granitici, moderni ed intelligenti, una strana dose adrenalinica di post rock e, dopo averli visti live su youtube (andateveli a cercare), mi rendo conto che dentro la musica degli Omertà si nascondono tracce di una band leggendaria che spesso si tende a dimenticare, i Motorpsycho (quelli di 'Feedtime in Demon Box', per intenderci). Questa band, dall'approccio metal molto easy e alternativo, merita molto rispetto e il loro 'Crown of Seven' è alla fine un'ottima medicina per curare la mia costante voglia di musica nuova. Da non perdere! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 80

sabato 21 novembre 2015

Agony Divine - March of the Divine

#FOR FANS OF: Thrash/Death, Vader
While it may not be the most enjoyable variation on the style, this decent enough mixture of Death Metal and rocking, punk-ish Thrash is certainly enough to make for an entertaining diversion if necessary. The simplistic tone of the material here is quite apparent, usually relying on two or three rousing mid-tempo riffs with a lot of sprawling Grunge-sounding sections that just sound like directionless masses of chords and rhythms without really doing a whole lot to really align itself one way or another into either genre with plenty of consistent marks here as there’s a lot more alternative work throughout here with these sprawling, noisy sections and far more insistent use of clean vocals than either genre readily accompanies. The riffing is simple Death Metal-styled rhythms and patterns played at mid-tempo Thrash-like force while offering up sprawling sections that don’t really seem connected either way around which makes for a disjointed work here with these thrashy rhythms and hard-charging riffs being quite enjoyable only for the slower, plodding efforts to really make no sense and seem somewhat out-of-place here. Though nothing is really a detriment in itself, it’s really more the jarring way they come in that makes this somewhat stand-out, and against the simplistic nature of the rest of the material is really what makes it stick. Otherwise there’s a somewhat decent effort here. Intro ‘Heaven's Hive’ is a nice little bit of cheerful singing and apocalyptic war-noises coming together to lead into ‘False Hope’ taking a raging riff with plenty of intense tremolo rhythms thrashing into the rather charging mid-tempo section which offers plenty of furious leads and dynamic rhythms that carries on throughout here for an impressive opener. The title track gets a droning intro with a stuttering start/stop rhythm that carries a rocking punkish feel to the loose rhythms and near spoken vocals that follow along a series of bland riff-work before kicking back into full throttle rhythms into the later half which is much more enjoyable than what came before. ‘Streets of Terror’ goes charging through a much more energetic pace with some punk-ish thrashing rhythms and a dynamic bit of drum-blasts that are fine enough for the diversionary riffing to again crop up that sounds quite out-of-place on the more thrashing material elsewhere here. The blaring blasts of ‘No Forgiveness’ turn into a raucous thrashy mixture which is quite adept at holding the other elements at bay with the rather furious tempo kept up throughout here as the tempo shifts are off-set with the hard-charging riffs and pounding drumming that makes this one of the most consistent and enjoyable efforts. ‘Denial’ brings some intensity as well with a wieldy intro that delves into a solid mid-tempo crunch that manages to stay within the same pretty consistent approach elsewhere and doesn’t really stand out all that much from the others here. ‘Manipulation’ offers some impressive tremolo rhythms and rocking tempos bringing along some thoroughly rousing energy along the way with the most explosive riff and plenty of pounding drumming that makes for another fine highlight here. ‘Stained With Grief’ brings a rather mid-tempo choppy rhythms that settles out into another raucous series of rhythms that’s continued throughout here quite nicely with the additional running time here allowing this one to get more enjoyable as it carries on. ‘Wither’ offers a rather tired mid-tempo chug throughout the simplistic series of mid-range sprawling riffs that keep the charging riff-work confined to the second half with a sense of blandness that doesn’t overcome the first half which keeps this one down significantly. The ‘Bonus’ song here is a thoroughly confusing sing-a-long chant that doesn’t seem the slightest bit interesting on a Death Metal record and there’s little about it that’s appealing, leaving for a bad taste overall. While this isn’t the greatest first impression made as this is just too flawed to be much better than this decent-enough tag it has, there’s certainly room for improvement here. (Don Anelli)

giovedì 19 novembre 2015

Below a Silent Sky - Corrosion

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Long Distance Calling
Quando cerchi un posto su Google Maps, e le foto del luogo ritraggono per lo piú fabbriche e condomini, occasionalmente qualche distesa di alberi ordinati e ricoperti di neve, probabilmente quel luogo non è il posto piú divertente del mondo. Ilmenau, posizionata piú o meno nel centro esatto della Germania, e ugualmente lontana da ogni grande città, si cinfigura un po’ cosí. E se sei un ragazzo, ad Ilmenau, una delle opzioni che hai per movimentare le tue giornate, è sicuramente quella di chiuderti in una cantina, provare ad alzare il volume degli amplificatori e vedere l’effetto che fa. I Below a Silent Sky sono quattro giovanotti che pubblicano il loro esordio in totale autoproduzione, dal semplice titolo, 'Corrosion', un prodotto che si presenta bene nell’elegante digipack dall’immaginario vagamente fantasy. Il contenuto poi è un post metal strumentale che, pur non brillando per originalità, è suonato con passione e sincerità. Si sente che i quattro ci credono e in queste sei tracce c’è tanta voglia di fare per cui riesce a passare anche una discreta dose di emotività, dettata peraltro da momenti atmosferici e fughe post rock, anche se sinceramente non si puó dire che le loro evoluzioni si facciano ricordare per qualcosa di cosi particolare. Pur ristagnando all’interno di un genere ormai ben codificato e ricco di clichè, in questi brani ci sono buoni spunti (pezzi come “Sulfur”, o le due parti di “The Flood”), una discreta dose di potenza e una capacità compositiva mai banale. Se non altro si evita il rischio della noia dovuta a una certa prolissità (legata alle durate medio lunghe delle song), ma c’è ancora parecchia strada da fare, e forse è necessario fare un po’ di chiarezza su quale sia la direzione da intraprendere, e accelerare con decisione in quella direzione, qualunque essa sia. Sarà sicuramente meglio che rimanere intrappolati in un guado che non porta da nessuna parte e che inoltre è decisamente già troppo affollato. (Mauro Catena)

Halter - For the Abandoned

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge
Dire che il doom e i suoi derivati sono musiche tra le più costruttive e vitali tra i sottogeneri del metal mi sembra superfluo, ancor più quando mi ritrovo una band che milita tra le fila della MFL (Moscow Funeral League) di cui, visto la natura indipendente ed estremista, nutro una particolare venerazione e ammirazione. Gli Halter sono attivi dal 2009, arrivano da Yaroslavl e suonano funeral doom metal con una verve innata e una particolarità specifica, la dote di saperlo suonare con uno stile a metà strada tra innovazione e tradizione, slegandosi dai soliti canoni del genere in questione. La band russa, che peraltro abbiamo già avuto modo di recensire in occasione del precedente 'Omnipresence of Rat Race', si conferma carica di una certa suggestione magica, cupa, tetra, romantica e ancestrale, cosi come lo erano un tempo i Candlemass, presentando testi fortemente malinconici e drammatici, cantati da una voce gutturale evocativa, magnetica come quella dei Cathedral di 'In Memorium'. Il quintetto poi sfodera un carisma gotico di scuola Paradise lost epoca 'Gothic', applicando cadenze rallentate e sofisticate a la My Dying Bride (evidenziabili in "First Snow"), e introducendo con naturalezza elementi di classic metal (immaginate il sound degli In Solitude oppure il metal nordico dei Grand Magus, ma a rallentatore) che rendono l'ascolto più fruibile. Una cosa che ho apprezzato parecchio di questo gruppo, è il fatto che non rinunci mai ad un'attitudine rock sanguigna, a quel tocco in più che li eleva allo status di fuoriclasse del genere. Un'altra arma importante è la capacità di esplorare terreni diversi come nel caso della splendida, lunghissima e conclusiva "Ode to the Abandoned", che ci porge un intro carico di melodia guidato dal piano e un assolo che sembra invece rubato ad un classico brano hard rock degli anni settanta per calore ed armonia, soluzioni sonore originali e calibrate, interessanti ed intelligenti, inaspettate di scuola Ahab. Gli Halter con due full length e un EP all'attivo, sanno veramente come comporre e produrre un album degno di nota con suoni moderni, ricercati, avvolgenti e il passo lento, disarmante, che marchia a fuoco le sei tracce di questo 'For the Abandoned'. Un artwork di copertina poi bello ed originale, inaspettato come il suono della band, completa saggiamente la release dei nostri. Un album che sta al di sopra della media, carico di pathos e che stranamente non fa della lentezza la sua unica arma vincente, un lavoro che mostra mille altre sfaccettature per sottolineare un'appartenenza radicata alla musica del destino. Un disco da riascoltare più volte e farsi stupire sempre di più da una manciata di brani che lasceranno il segno, diversi, difficili da rinchiudere nel solo genere funeral, pieni di carisma e urticanti al punto giusto, insomma gli Halter sono una band da portarsi anche nell'oltretomba! (Bob Stoner)

lunedì 16 novembre 2015

Newspaperflyhunting – Iceberg Soul

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Di solito, dopo aver ascoltato un disco e prima di scriverne, cerco in rete altre recensioni, un po’ per capire come il lavoro è stato accolto in giro e un po’ anche per sincerarmi di non aver preso una grossa cantonata e dare magari un ascolto piú attento. In questo caso la navigazione mi ha lasciato con piú dubbi che altro, tanto sono distanti i giudizi espressi su questo lavoro, spaziando dal sincero entusiasmo alla piú totale freddezza. Per quanto mi riguarda, la verità è da cercarsi, una volta di piú, nel mezzo. 'Iceberg Soul' è il secondo lavoro sulla lunga distanza per questo quintetto polacco dedito a quello che loro stessi definiscono un progressive-post-space rock dalle tinte dark e malinconiche, sognanti ed atmosferiche. In effetti si tratta di una proposta piuttosto peculiare e originale, rimanendo piuttosto sospesa tra rarefazioni e improvvise impennate distorsive, dilatazioni e ruggiti, non priva di suggestioni ma nemmeno di difetti. I brani, mediamente lunghi, sono caratterizzati da una struttura ondivaga, spesso giocata sull’alternanza tra voci maschili e femminili, sempre piuttosto delicate ed evocative, e dalla contrapposizione tra calma e tempesta, con le chitarre ora impegnate a ricamare arpeggi tanto quanto ad erigere muri. Ottimo il lavoro delle chitarre quando lasciate libere di improvvisare con uno stile immaginifico che richiama il Neil Young elettrico, come nella delicata “Stop Flying”, sferzata anche da un bel basso distorto. Piú che il prog propriamente detto, qui si respira spesso un’aria vicina a certo Canterbury Sound o ai King Crimson piú sognanti, con chitarre tutt’altro che gentili come protagoniste assolute, come se nei Caravan fossero innestate le sei corde dei Thin White Rope (ascoltare “Lighthouse” per credere). Altre volte, quando a cantare è la bassista Gosia Sutula, ci si avvicina ad atmosfere dream pop/shoegaze davvero intriganti (come in”Looking Through the Glass”). Si diceva dei difetti. Due in particolare, a mio avviso, che possono disturbare o meno, ma sui quali si può migliorare per il futuro: la registrazione un po’ piatta e fredda che non rende un gran servizio alla voce e non esalta le dinamiche - che pure sembrerebbero essere la componente principale del suono della band – ed una pronuncia inglese sicuramente rivedibile, da parte dei diversi vocalist che si avvicendano al microfono. A parte questo, 'Iceberg Soul' vive e si nutre delle sue contrapposizioni interne, sintomo di una dualità che rappresenta il vero punto di forza dell’album. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70