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domenica 9 ottobre 2022

Orob - Aube Noir

#PER CHI AMA: Prog Black Sperimentale
Passati completamente inosservati al nostro paese (follia pura), i francesi Orob hanno gettato il guanto ai mostri sacri Deathspell Omega e Blut Aus Nord nel maligno mondo del black dissonante e sperimentale. Il quintetto originario dell'Occitania, ha rilasciato infatti a fine 2021 questo 'Aube Noir', album di debutto sulla lunga distanza, a distanza di ben otto e dieci anni dai precedenti EP, 'Into the Room of Perpetual Echoes' e 'Departure', rispettivamente. C'è da dire però che le song qui incluse sono state scritte tra il 2014 e il 2016. Comunque l'ensemble transalpino ci propone quasi un'ora di musica, attraverso un percorso di nove mefistofeliche tracce che si aprono con il black doom di "Spektraal", una song che, emulando il proprio titolo, si manifesta spettrale e compassata nella sua prima metà, per poi esplodere in un post black dalle tinte sperimentali, soprattutto a livello vocale, con le performance di Thomas Garcia e Andrea Tanzi-Albi a muoversi tra screaming, growl e pulito. È nella seconda "Astral" però che le sperimentazioni dei nostri si fanno più palesi, con chiari rimandi ai norvegesi Ved Buens Ende a livello atmosferico e scomodando anche facili paragoni con gli ultimi Enslaved o i Solefald. La sostanza è poi quella di dissonanti parti arpeggiate che si alternano a ritmiche costantemente sghembe con le vocals che, non mantenendo praticamente mai una coerenza di fondo, rendono il lavoro decisamente più affascinante e avvincente. E ancora, a livello solistico (si ci sono degli assoli) emergono le influenze più classiche dei nostri, quasi a mostrare tutto il ventaglio tecnico compositivo di cui sono dotati. E io approvo appieno, nonostante le sbavature riscontrabili durante l'ascolto, perchè ci sono anche quelle ed è giusto dirlo. Ma vorrei dare il beneficio del dubbio ad una band che è rimasta ferma quasi una decade ma che con la propria musica riesce a dare un tocco di eleganza e originalità al mondo musicale, e che vede nella terza "Breaking of the Bonds" un altro piccolo gioiellino. Qui poi la voce del frontman è per lo più pulita e assai espressiva. Ma il pezzo è in costante movimento, tra una marcetta estemporanea, un break acustico di malinconica melodia (top!) che chiama in causa Opeth e ultimi Katatonia. E io continuo ad approvare, non posso fare altro. Anche quando "Betula" trasforma la proposta degli Orob in un selvaggio black iniziale per poi mutare ancora verso territori controversi (leggasi l'ambient esoterico nel finale), con cambi di tempo, di genere e molto molto altro che potrebbero addirittura avere un effetto disorientante per chi ascolta, ma che per il sottoscritto rivela invece la grande voglia di osare da parte dell'act di Tolosa. Bene, bene anche nelle spettrali melodie di una traccia come "The Wanderer", lenta e sinuosa nel suo incedere che, attraverso l'elettronica strumentale e minimalista di "Noir", ci conduce fino a "Aube", un violento pugno nello stomaco che mi ha catapultato in altri mondi che ormai si erano persi nella mia memoria, e penso ad un ipotetico ibrido tra Voivod, gli australiani Alchemist e gli inglesi Akercocke. C'è tanto nelle note di questo 'Aube Noir', forse non sarò stato nemmeno in grado di cogliere tutte le influenze che convogliano in questo disco, ma vi garantisco che di carne al fuoco ne troverete parecchia, soprattutto nella lunghissima coda affidata alla sinistra "Ethereal", che di etereo ha ben poco (fatto salvo quella che sembra essere una voce femminile in sottofondo) e alla conclusiva "The Great Fall", oltre dieci minuti di sonorità che miscelano depressive black, progressive, thrash, gothic doom (con tanto di soavi vocalizzi di una gentil donzella) e perchè no, anche una vena di post rock, quasi a sancire l'ordinaria follia di cui sono dotati questi interessantissimi francesi. Una sfida ai mostri del black sperimentale? Non direi, questo è un duello sferrato al mondo intero. E se questi erano i suoni di sette anni fa, ora mi aspetterò grandi cose dagli Orob. (Francesco Scarci)

Amon Amarth - The Great Heathen Army

#FOR FANS OF: Viking Metal
This is a solid release. I'm not a big fan of this band but I'll have to say that they did a good job with the guitar riffs. That's what stands out the most for me. And the vocals go well with the music. They're really in sync altogether. The production quality is solid too. I'm not a fan of the lyrical concepts, but they did well altogether on this release. There's a few guest musicians on here briefly you can hear the power metal vocals on one of the later track ("Saxons and Vikings"). I'm a bit surprised there hasn't been all high ratings for this album. It's really a good album, it has all the makings of quality melodic death metal.

The music carries with the vocals quite good! The rhythms/melodies are quite good for a band that I've overlooked for far too long. These guys do a good job of piecing the music together and making it work well. The tempos weren't exceptionally fast. In fact, they had some pretty wicked rhythms and melodies. About 43 minutes of sheer melodic death galore. And the Viking spirit reigns supreme on here. The tempos are pretty slow on here but wholly melodic. They seem to piece everything together where it flows. The only thing that I dislike somewhat are the vocals. I just think that they could've been arranged better.

Overall, I think this album is solid. The vocals aren't my favorite but the music hit-home with me! The riffs are ok, not their greatest but still catchy and full of life! The vocals go well alongside the music. Though I have to be in a certain mood to tolerate the vocals. I like the melodies and it's consistent the whole album. For the naysayers, they say that they're not a fan of their music. I think that since they're in the melodic death metal genre, they're pretty solid on here. I actually got the CD of this I was tired of the digital download. To me, it's important to show respect for the band not just streaming music.

The production quality was good on here and the sound to the music was solid, well mixed. They definitely got their act together for this one. I don't think it's better than a "75" on here. I think they deserve it. You'll have to test the waters with this one. I suppose that you'll really like it or just think it's garbage. I liked it and I thought it was consistent. The guitars were my favorite instrument throughout. As I say, you have to be in the mood to play this, otherwise it might be irritating. If you're a die-hard fan, that statement doesn't apply. Since I'm not overly familiar with the band, I thought this is a solid release! (Death8699)


(Metal Blade Records - 2022)
Score: 75

https://www.amonamarth.com/

Aemeth - Demo 2002

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Brutal Death
Death metal rabbioso che sfocia nel grind per questa band italiana. Voce cavernosa ed una buona velocità contraddistinguono tutte le canzoni. La produzione è buona; un po' secca forse, ma che però fa risaltare bene tutti gli strumenti. Sei pezzi, tutti abbastanza originali, ben arrangiati soprattutto per quello che riguarda le chitarre. Non ho alcuna nota biografica per questo gruppo. So solo che il produttore è Joe Testa, che firma anche un assolo come guest musician nella quinta traccia "The Path of Losers". Anche nei mid-tempo si creano delle belle atmosfere e la ritmica si fa sentire molto bene in tutte le tracce e questo mi ricorda, anche se un po' lontanamente, i Deicide. Un buon CD, consigliato non solo agli affezionati al death.

sabato 8 ottobre 2022

ACOD - Fourth Reign over Opacities and Beyond

#PER CHI AMA: Symph Black/Death
Devo essermi perso qualcosa. Avevo recensito i marsigliesi ACOD nel 2015 in occasione del loro ‘II The Maelstrom’ e li ricordavo con un sound all’insegna del death thrash. Li ritrovo oggi, dopo aver saltato l’ascolto del terzo ‘The Divine Triumph’, e mi ritrovo una band di tutt’altra pasta e genere. Detto che questo ‘Fourth Reign over Opacities and Beyond’ apre con un intro dal piglio sinfonico orchestrale, ma ci poteva stare dopo tutto, quando “Genus Vacuitatis” irrompe nel mio stereo, ecco lo shock, la band non suona più quel monolitico sound tritabudelle in stile Machine Head, ma ora propone un symph black death che potrebbe ammiccare alla proposta pomposa, ma comunque robusta, dei Septicflesh. Ecco si, in questa veste gli ACOD li apprezzo molto di più, soprattutto perchè non dimenticano le loro origini, una bella dose di death metal nelle ritmiche c’è sempre, ma ora decisamente contaminate dalle sinfoniche partiture che compaiono nei pezzi, congiunta con una bella dose di melodia, suoni di archi, la presenza di una voce femminile che rendono il tutto un filo più accessibile, e che francamente preferisco. “The Prophecy of Agony“ si apre con un tono più compassato, ma le chitarra sono pronte ad esplodere in un tappeto ritmico composto, con la voce del frontman Malzareth a richiamare scomodi paragoni con il buon Nergal. In tutta onestà però, devo ammettere che il lavoro mi piace molto, direi che questi sette anni che non ho assolutamente calcolato la band hanno giovato e la progressione è parecchio significativa. Abili anche nell’alternanza vocale tra grim vocals e voci pulite, la band sciorina una dopo l’altro pezzi assai azzeccati, dove l’atmosfera si mette a servizio di un sound potente, a tratti tagliente (“Sulfur Winds Ritual”), ma gonfio di rabbia (grazie ad un riffing di scuola Morbid Angel), traboccante energia e dinamismo sonoro, cosi come pure una sottile vena malinconica, complice un tremolo picking. Forse il pezzo migliore del lotto. Ma il disco rimane pieno di sorprese soprattutto per i cambi di tono o genere: “Nekyia Catharsis“ mostra infatti un carattere più darkeggiante, tanto da richiamarmi i fasti dei finlandesi Throes of Dawn ma pure i Rotting Christ per quelle sue atmosfere più spettrali ed un utilizzo prezioso della chitarra qui votata ad un melo death dal forte piglio orchestrale, cosi come pure un utilizzo costantemente efficace delle voci pulite. Tutto molto positivo, anche l’incipit di “Artes Obscurae” che segue a ruota l’intermezzo occulto di “Infernet’s Path“. Un pezzo decisamente compassato l’inizio del primo con una bella dose di groove, ma quello che sentiamo dopo saranno saette di chitarra, ritmiche possenti ancora di scuola americana, pomposissime tastiere, vorticosi giri delle sei corde, voci gracchianti, echi a Dimmu Borgir e Cradle of Filth per un finale davvero in crescendo. Vogliamo poi citare l'artwork di Paolo Girardi? Lascio giudicare a voi. Io mi devo solo mettere ad ascoltare il disco precedente e capire se mi sono perso qualcosa di significativo. (Francesco Scarci)

Hidden - Spectral Magnitude

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Death/Black
Interessante concept proposto con questo debut album che verte su teorie scientifiche riguardanti fenomeni cosmici e in particolare sul concetto di tempo ed eternità nel cosmo. I brani sono abbastanza articolati e si muovono tra doom, death e black ma verso la fine del disco, alcuni riff risultano un po’ troppo inflazionati. Il disco non gode poi di un buon suono e non è questo il caso di dire che si è trattata di una scelta poiché questo 'Spectral Magnitude' alla fine suona come un demotape. Avrei visto molto bene su un disco del genere degli inserti atmosferici di tastiera e qualche tocco di musica elettronica per coinvolgere maggiormente l’ascoltatore nel concept narrato, come per esempio fu fatto sul full length di debutto di Thorns; una piccola traccia di simili sonorità la si ha con l’ultimo brano "Supercluster" ma il risultato è piuttosto scarso. Forse questo 'Spectral Magnitude' è stato realizzato un po’ troppo in fretta e ciò non ha certo giovato sulla sua resa finale.

Daidalos – The Expedition

#PER CHI AMA: Symph Black
Ebbene, lo ammetto, non avevo la più pallida idea di chi fossero i Daidalos. Non me ne vorrà Tobias Püschner, la sola mente diabolica che si cela dietro questo interessantissimo progetto, devoto ad un black di stampo sinfonico. Io d’altro canto, quando sento parlare di questo genere, ripenso ai fasti portati avanti dai Dimmu Borgir o dai primi ispiratissimi Cradle of Filth, tanto per fare due nomi a caso. Il nostro factotum di oggi, supportato da una serie di ospiti tra cui anche un paio di italiani, Fabio Rossi (I Sorg) asso della sei corde e Francesco Petrelli (Unfaded Illusion) sempre alla chitarra, ci regala una splendida release che vi lascerà piacevolmente sorpresi. Questa infatti la mia reazione di fronte al dirompente attacco della title track che apre ‘The Expedition’. E questo titolo pone inevitabilmente l’accento al tema lirico del disco, ossia la spedizione nell’Artico nel 1845 di due navi (la Erebus e Terror), guidate dal capitano Sir John Franklin, di cui si persero le tracce, insieme ai 129 uomini della sua ciurma, intrappolati tra i ghiacci dell’entroterra canadese. E su questo drammatico racconto, si snodano le fantastiche melodie e orchestrazioni del disco che, con la seconda “Icewind”, sembra quasi voler raffigurare quelle raffiche di vento glaciali che sferzarono i nostri nel loro viaggio. Le ritmiche sono burrascose, solo le tastiere provano a minimizzare la furia delle chitarre cosi anche un cantato che si alterna tra uno screaming chiarissimo e voci pulite e il coro di Noga Rotem, forse un pizzico ruffiano, ad evocare la brava Sarah Jezebel Deva nei primi anni ai Cradle of Filth. Il disco è un susseguirsi di parti atmosferiche, grandiose orchestrazioni e furibonde accelerazioni black death che catalizzano l’attenzione e non poco. “Sails into the Stars” ha un attacco davvero oscuro ma poi le melodie prendono il sopravvento e il pezzo diventa decisamente più accessibile, quasi sognante nel suo break centrale. Non c’è spazio per la noia in queste note, la varietà del disco consente di non distrarsi un attimo e questo alla fine sarà anche il suo punto di forza. Il pezzo nel suo vorticoso incedere ci porta ad un finale corale che ci introduce a “Stormwind”, un’altra tempesta quindi ad attenderci? In realtà, sono tocchi di pianoforte quelli che introducono il brano e dove la voce del frontman, prosegue nella narrazione della storia, accompagnandoci nell’immaginifico che inevitabilmente l’ascoltatore si creerà nel corso del disco. “Married to the Sea” ha un roboante attacco ritmico che sembra sancire l’indissolubile (ma qui dai contorni nefasti) legame tra uomo e mare. Le melodie si confermano azzeccatissime complice l’ottimo lavoro alle tastiere e alle sempre più pompose orchestrazioni (chi ha detto Fleshgod Apocalypse?). Spettrale l’incipit di “The Empress”, tra synth, chitarre e grim vocals, in un brano decisamente più mid-tempo rispetto ai precedenti, anche se certe linee di chitarra mi hanno evocato nuovamente i CoF. “Poem in the Snow” basa invece le proprie liriche sul poema “Once by the Pacific” del poeta americano Robert Frost, che narra come le onde dell’oceano si apprestino a distruggere una spiaggia, evocando visioni oscure della fine di un'era, la fine del mondo, un presagio per il nostro futuro? Epico sicuramente il coro collocato su dei tocchi di pianoforte nella seconda parte del brano anche se alla fine, la sua ridondanza non sembra avere l’effetto desiderato. “Northlight” riesplode con potentissime e melodiche ritmiche, voci black che si alternano a cori epici in una varianza di tempi che va a sublimarsi in una coppia di fantastici assoli che sanciscono quanto interesse meriti questa one-man-band teutonica. Vi segnalo poi che nella versione digitale compare anche una bonus track, “My Melancholy”, che affida il suo iniziale e nostalgico mood al pizzicare di una chitarra acustica e ai tocchi di un piano che andranno poi ad evolvere in un altro brano mid-tempo, dove a mettersi in luce questa volta, sarà un magnifico e malinconico violino che chiude egregiamente un signor album. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

Nortt - Graven

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black/Funeral Doom
Questa è un’opera di inestimabile valore! Così grande è questo lavoro che è difficile trovare parole che riescano ad eguagliare la stupefacenza di questo 'Graven'. Abissale extreme doom con una chitarra dal grezzissimo suono black che crea immagini di immobilità eterna. Questa è musica che trasuda dolore e disperazione per cui non esiste via d’uscita, rimane solo il suicidio. Questo disco (peraltro uscito in versione demo nel 1999, picture disc nel 2002 e recentemente ristampato dalla nostrana Avantgarde Music) è semplicemente la fine.

(Maggot Records/Avantgarde Music - 2002/2020)
Voto: 88

https://avantgardemusic.bandcamp.com/album/graven

venerdì 30 settembre 2022

Body Void - Burn The Homes Of Those Who Seek To Control Our Bodies

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Nuovo EP per i californiani Body Void. Il trio, originario di San Francisco, rilascia una coppia di pezzi sotto questo lunghissimo titolo, 'Burn the Homes of Those Who Seek to Control Our Bodies' e lo fa, offrendo quello che da sempre i nostri sanno fare meglio, ossia un concentrato claustrofobico di sludge e noise rock. Il tutto è certificato dalle note introduttive della lunga "Burn" dove, tra riffoni a rallentatore e grida disumane, la band di Frisco srotola la propria disagiata forma musicale che verso il terzo minuto dell'opener, si materializza addirittura anche sotto forma di droniche divagazioni da fine del mondo, mentre il latrato vocale di Willow Ryan (in uno stile che francamente non amo) grida tutto la propria disperazione. Il brano prosegue in questo loop infernale fino al suo termine attraverso quella che sembra un'unica nota di chitarra protratta all'infinito. Con "Drown" si comincia invece da una forma più affine al noise miscelato qui ad un rifferama ossessivo tipicamente sludge doom. Ecco, volete avvicinarvi al mondo offuscato dei Body Void e allora, preparatevi ad atmosfere plumbee e angoscianti, lente e decadenti, dove alla luce non sarà permesso minimamente di affacciarvisi. Stagnanti. (Francesco Scarci)