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sabato 10 giugno 2017

V/A - Collected by Mizoo - Greenosophy Chapter II

#PER CHI AMA: Elettronica/Ambient
La Ultimae Records è come il canto delle sirene in mezzo al mare, ammaliante e luminosa, pericolosa e votata alla perdizione. Non si pensi a cose dannate ma bensì ad un bagno in acque cristalline, rinvigorenti anima e corpo, acque profonde che toccano i nostri più intimi stati d'animo, piccoli frammenti di sogno tolti alle nostre vite per divenire suono e musica. La nuova compilation 'Greenosophy Chapter II', uscita sotto le ali della etichetta transalpina dedita all'ambient più etereo, elettronico, minimale ed introspettivo, è il seguito naturale del primo volume dal titolo 'Greenosophy', uscito qualche anno fa ed è un assaggio curato dal DJ svizzero Mizoo, che raccoglie ed esibisce suoni dei tanti artisti dell'etichetta, da Scann–tec ad Aes Dana, passando per Miktek e tanti altri, per affrontare un suono stimolante e rilassante allo stesso modo, carico di spessore e micropulsioni elettroniche, figlie di sperimentazioni tra tecno sound e new age, sempre suggestive e mai banali. Come in uso alla Ultimae, la compilation è senza tregua e tutti i brani, seppur di autori diversi, trovano una direzione all'unisono, inducendo l'ascoltatore ad intraprendere un lungo viaggio a metà tra l'ipnosi e la mistica percezione, pura poesia per le orecchie, musica proiettata nel futuro, qualità sonora spettacolare (esiste anche la versione a 24 bit per i palati più fini), con l'usuale ottimo artwork (curato da Arnaud Galoppe and Vincent Villuis che si sono occupati anche della masterizzazione), dalla ricerca grafica inequivocabile e perfetta nel rappresentare il sound peculiare, maniacale, cinematico e viscerale delle release della label transalpina. Musica da ascoltare ad alto volume in concentrazione o in cuffia per capire veramente cosa si nasconde dietro a questi pezzi coalizzati divinamente da DJ Mizoo, che all'apparenza sembrano banale musica elettronica per ambiente lounge ma nel cui interno vi si nasconde arte finissima del mondo elettronico. Tra queste tracce, la cui matrice filosofica sembra ovvia e ben manifestata, vi si trova la magia di ambienti incontaminati composti pensando agli intoccabili Brian Eno, Sakamoto e Kraftwerk, rivisitati in chiave chillout. Non esiste un brano migliore di altri poiché il lavoro è omogeneo ed equilibrato a puntino, e tutto fila che è un piacere. Concedetevi un viaggio ai confini della realtà conosciuta, ascoltando 'Greenosophy Chapter II', farete del bene alla vostra anima! (Bob Stoner)

venerdì 9 giugno 2017

The New Geometry - S/t / Singularity


#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Rock Strumentale
Non sappiamo granché di questi portoghesi The New Geometry, se non che si siano formati ad Oporto nel 2015, che questo EP sia il loro debut targato 2016, e che un nuovo singolo, "Singularity", sia uscito proprio in questi giorni. La band comprende Walter Teixeira e Filipe Ferreira alle chitarre, e Filipe Silva al basso; appare pertanto chiara l'assenza di un vero batterista e di un cantante che accompagni l'eteree melodie shoegaze dei lusitani. Tre i brani contenuti nel dischetto: "Lightseeker" è la tenebrosa opening track, compassata ed ipnotica nel suo incedere, anche un pelino paranoica aggiungerei, ma le melodie ancestrali delle sue chitarre in tremolo picking, chiamano in causa tutto il movimento post-rock mondiale. Quindi non c'è nulla di meglio che lasciarsi sedurre dalle atmosferiche ed altrettanto elettriche melodie dell'opener, prima che la malinconia salga con le sonorità intimiste di "The Inner Conflict", in cui le chitarre, instancabili, si rincorrono nei consueti saliscendi emozionali imposti dal genere, che sfociano qui in un violento finale. A chiudere la prima fatica del terzetto portoghese, ci pensa "Brothers by Light", in cui la sensazione percepita è quella di un lungo e triste arrivederci tra due amanti, e la promessa spesso tradita, di un rivedersi ancora. Le melodie sono inevitabilmente strazianti, sebbene la presenza di un parlato nel corso del brano e di un indurimento dei suoni nella parte finale della song, ne cambino il mood. Visto che c'eravamo, abbiamo dato un ascolto anche alla nuova traccia dei The New Geometry, "Singularity" appunto, per saggiarne lo stato di forma a distanza di oltre un anno dall'uscita dell'EP. Si tratta di una song decisamente atmosferica grazie ad un epilogo di pink floydiana memoria, che tuttavia non vede ancora palesarsi grosse evoluzioni nel comparto sonoro dei nostri, una traccia che conferma al contempo le qualità della band che inviterei tuttavia a valutare l'arruolamento di un cantante in pianta stabile, che contribuirebbe ad impreziosire un sound che rischia altresì di perdersi nel mare magnum delle band post rock strumentali. Meditateci sopra ragazzi. (Francesco Scarci)

(Self - 2016/2017)
Voto: 65

https://thenewgeometry.bandcamp.com/

giovedì 8 giugno 2017

Psygnosis - Neptune

#PER CHI AMA: Progressive Death Strumentale, Meshuggah, Ne Obliviscaris
Francamente, non so se essere più incazzato o felice di questa nuova fatica dei francesi Psygnosis. Li stavo aspettando con grande trepidazione, dopo quell'uscita un po' più particolare di un paio danni fa, un 7", 'AAliens', che ben mi aveva impressionato per quel suo più marcato mix tra musica estrema ed elettronica rispetto agli esordi più death metal oriented del quartetto del Burgundy, dove comunque il loro sound era già intriso di contaminazioni electro. La ragione della mia rabbia è l'uscita di 'Neptune', nove tracce di grande intensità ed elevata durata (sfioriamo gli 80 minuti), che mi lasciano con un però: che fine hanno fatto i vocalizzi growl di Yohan Oscar? Da quel che si evince, l'ex frontman è stato allontanato dall'act transalpino ancora nel 2014 e mai rimpiazzato, quindi ciò che rimane oggi è una band esageratamente preparata sotto il profilo tecnico, che combina un death metal, frutto di una simbiosi tra Meshuggah e Ne Obliviscaris, con il suono di violoncello e contrabbasso, si avete letto bene. Niente vocals (se ci fossero state, pezzi come "Phrase 7", "Storm" e "Psamathée" sarebbero stati delle bombe), non una vera e propria batteria, ma la classica drum machine in un vortice sonoro davvero notevole, come quello che si apprezza nei dodici minuti iniziali della opening track. Cosi come nei Ne Obliviscaris, il violoncello prende il comando delle operazioni, e altrettanto accade in "Psygnosis is Shit" (complimenti per il titolo), guidando l'intera melodia nonché la ritmica di fondo della song, con le chitarre che erigono muraglioni di riff spettacolari mentre la batteria elettronica si incanala in futuristici pattern ubriacanti. Dannazione, qui una voce sarebbe stata perfetta, un bel growl ad incarnare la furia che divampa attraverso il riffing compatto dei nostri o che sussurra nei momenti di quiete, che sembrano virare la musica dell'act di Mâcon verso un post rock più intimista, proprio come accade nella seconda metà della già citata "Psygnosis is Shit", prima del roboante finale che ci conduce a "Восто́к". Questo è un interlocutorio passaggio atmosferico apripista per "Storm", traccia aperta da uno splendido suono di tastiere dall'effetto sognante, a cui, a poco a poco, si affiancheranno timidamente anche gli altri strumenti, per un pezzo che va crescendo in intensità, come se la tempesta aumentasse la propria veemenza, con le chitarre ordinate che, tra cambi di tempo, stop'n go e partiture progressive, giocano con l'ascoltatore in uno stordimento inaudito. Questo è forse il punto di contatto più vicino ai Meshuggah e ancora una volta impreco contro chi ha pensato bene di utilizzare una batteria sintetica, qui un uomo in carne ed ossa, si sarebbe (e ci avrebbe) divertito alla grande. La title track si presenta come un ipnotico viaggio di 13 minuti tra synth ambientali ed una successiva sezione ritmica che si rifà alle ultime divagazioni dei Gojira e poi tante sonore mazzate nei denti, grazie a ritmi infuocati, rallentamenti e al meraviglioso suono degli archi, davvero emozionante in certi frangenti. Fastidiosa la componente elettronica nella sesta "Mûe", per fortuna ancora una volta gli archi ristabiliscono una qualità più che dignitosa al sound della band che ci proietta verso il settimo capitolo"Psamathée", traccia energica e devastante, che comunque mi lascia sempre con un certo amaro in bocca, perché se fosse stato un uomo ad imbastire quell'attacco alle pelli, il disco sarebbe stato un vero e proprio masterpiece. E invece no, rimangono solo i condizionali mentre i quattro francesi, testardi come muli, sono andati avanti a picchiare come fabbri nelle parti più estreme e a deliziare i nostri padiglioni con il magico tocco del violoncello. Nella song compare anche un dialogo in sottofondo ad una chitarra acustica che quasi mi dà l'idea che un cantato sia anche presente, sebbene duri troppo poco. C'è ancora tempo per i quasi undici minuti della struggente "Sünyatã", cosi malinconica nel suo incedere classico e cosi spettrale nei lunghi e noiosi dialoghi che ne completano il quadro; per fortuna che la band capisce che è meglio lasciar campo aperto al suono delle chitarre e a quelle celestiali melodie che sferzano l'aria. Lo dicevo all'inizio che non so ancora se essere felice o furioso nell'ascoltare questo disco, troverete cose geniali durante il suo ascolto e altre dove sarebbe meglio tralasciare ogni commento, come la prima parte della soporifera "Nirvāṇa". Tanta carne al fuoco in 'Neptune' per cui potrei stare qui a scrivere epici poemi, meglio darsi una mossa allora e ascoltare con cura questo album. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)

mercoledì 7 giugno 2017

Nitritono - Panta Rei

#PER CHI AMA: Drone/Noise Rock, Valerian Swing, Zu
Dietro questo nome criptico si nasconde un giovane duo di Cuneo che dopo aver accordato la chitarra nella tonalità più bassa possibile, si è dato l'obiettivo di creare un sound oscuro e potente. Tra le band da cui prendono ispirazione ci sono ZU, Melvins, Fantomas che hanno permesso ai Nitritono di forgiare il loro noise/rock ruvido, introspettivo e vacillante. Quindi chitarra/voce/batteria uniti per dar sfogo al proprio io esistenziale, dove il contesto suburbano ci ipnotizza con il frastuono industriale e il veleno sociale scorre a fiumi sotto i nostri piedi. Nel 2013 hanno dato vita al primo EP e dopo parecchia gavetta, suonando con svariate band italiane e non, quest'anno si sono chiusi in studio con Enrico Baraldi (bassista degli Ornaments e sound engineering in ascesa) per registrare questo 'Panta Rei'. Otto brani potenti, carichi di tensione ed energia che navigano ai livelli più profondi dell'animo tormentato per poi esplodere con un incedere devastante e purificatore. "La Morte di Dio" apre con un incipit quasi in stile The Cure, dove la chitarra pulita e batteria vacillano lenti e malinconici, mentre si fa insistente l'arrivo delle distorsioni. Queste, pur rimanendo sulla stessa ritmica lenta e minimalista, sgomitano a colpi di plettro sfruttando le basse frequenze per sviscerare l'io profondo e far risalire a galla sensazioni ormai dimenticate. Poi il tutto si distende, elevandosi ad un livello onirico, senza materia né tempo, ma il sollievo dura poco perché le tenebre ci agguantano di nuovo e ci ricordano che tutto è duplice, non esiste il bene senza il male, la luce senza il buio. Il brano che condensa al meglio la produzione artistica dei Nitritono è "L'Atarassia del Giorno Dopo", dove il dualismo post rock/noise trova il suo culmine in distorsioni solide e profonde intervallate da arpeggi puliti accompagnati da pattern ritmici trascinanti. La lentezza al limite del doom e i suoni eterei contribuiscono a creare una risonanza cosmica, tale da far vibrare il nostro corpo all'unisono con l'anima per poi spezzare il legame e permetterci di trascendere. La parte finale aumenta di intensità e la tensione diventa talmente insostenibile che la mente fugge per trovare sollievo, rifugiandosi quindi tra le spire di "Zen-it", dodici minuti di terapia spirituale che iniziano con una lunga sezione drone/noise. La perfetta colonna sonora di un film horror in bianco e nero, senza i dialoghi che sarebbero superflui e allontanerebbero la nostra attenzioni dalle immagini e i suoni, che grazie alla chitarra deformata dagli effetti, sembrano un'entità che si trascina a fatica sotto un cielo plumbeo e pesante. L'oppressione, gli stacchi, la ripetitività giocano un ruolo determinante in questo 'Panta Rei', dove il suono è sempre impeccabile, viscerale e potente, con momenti caratterizzati da una calma palpabile che rende ancor più distruttive le esplosioni sonore che si susseguono. Sembra quasi di prendere i Valerian Swing dopo averli rallentati, pur mantenendo intatto il loro smalto. Da ascoltare tutto d'un fiato. Consigliato. (Michele Montanari)

martedì 6 giugno 2017

Dome La Muerte E.X.P – Lazy Sunny Day

#PER CHI AMA: Garage/Alternative Country, Calexico, Cramps
'Lazy Sunny Day' è il nuovo progetto di Dome La Muerte, cantante e chitarrista italiano che ha attraversato il rock alternativo, di matrice hardcore e punk, già a partire dai primissimi anni ottanta. Se nomi leggendari come Cheetah Chrome Motherfucker e Not Moving non vi dicono nulla, poco importa: questa recensione non ha lo scopo di lucidare le medaglie che il buon Dome potrebbe appuntarsi al giubbotto quanto piuttosto di valorizzare il suo presente. E la miscela vincente che ci propone in 'Lazy Sunny Day' è fatta di brani epici caratterizzati da chitarre western e amplificatori grondanti di tremolo e vibrato, sapientemente dosati a valorizzare le parti strumentali. Si parte con “Never Surrender”, uno strumentale asciutto e polveroso come un duello sotto il sole, accattivante quanto basta per catturare l’attenzione dei fan di Calexico e Friends of Dean Martinez. La successiva “No Justice” riprende il refrain del primo brano alzando il ritmo e anche la manopola del riverbero. “Sick City”, terzo pezzo in scaletta, aggiunge agli elementi western anche un piglio garage nella sua esecuzione. L’elemento di novità si manifesta a partire dal quarto brano dove un sitar intreccia sonorità beat per portarci in territori più mistici ed evocativi. “Drawning a Pink Mandala” e la successiva “Divinity” sono due canzoni in cui il sitar la fa appunto da padrone. Nella successiva “Amsterdam 66”, forse il capolavoro dell’intero album, Dome La Muerte riesce a coniugare le sonorità garage tipiche di gruppi come i Fleshtones ad efficaci virate mistiche caratterizzate da un sapiente mix dell'onnipresente strumento indiano e organo hammond. Il disco prosegue alternando brevi strumentali ancora a base di sitar con canzoni più definite nella loro struttura e dalle sonorità più garage-western. “Eternal Door” si caratterizza per un buon uso del dobro mentre la successiva “When the Night is Over” è puro twang di frontiera. Le due canzoni che chiudono il disco, “Vision of Ashvin” e “L.S.D. (Little Sun Dose)" mantengono alto il tiro portando il suono nei territori noti ai fan di band di culto quali ad esempio Gun Club e Cramps o anche i più recenti Go to Blazes. In conclusione, quello che abbiamo tra le mani è un disco piacevole, sicuramente atipico per il mercato italiano, suonato con l’esperienza di chi ha calcato migliaia di palchi e si è lungamente abbeverato alla fonte del garage a dell’alternative country. Alimentate la vostra curiosità spingendovi oltre la frontiera del garage punk nei territori battuti da Dome La Muerte E.X.P: questo disco vi accompagnerà nelle vostre pigre giornate di sole estive. (Massimiliano Paganini)

lunedì 5 giugno 2017

Suici.De.Pression - S/t

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Doom/Folk
'Suici.De.Pression' non è più solo il titolo di un album dei blacksters brasiliani Thy Light, da oggi è anche la nuova creatura del polistrumentista Vittorio Sabelli (qui sotto lo pseudonimo di Syrinx), che è dovuto "migrare" fino in Giappone per ottenere il contratto con l'etichetta MAA Productions. Il cd omonimo consta di tre tracce, tutte con titoli, testi ed atmosfere che non si possono certo definire solari. Ad aprire, gli oltre 20 minuti della funerea "De.Pression", con i suoi lenti tocchi di pianoforte a cui fanno seguito quelle anguste chitarre catacombali che non lasciano presagire a nulla di buono, su cui si stagliano le screaming vocals del frontman e con le melodie che sembrano richiamare la tradizione folklorica mediterranea, quasi a voler ricordare da dove il buon Vittorio è partito, da quei Dawn of a Dark Age, da poco recensiti su queste stesse pagine. Il flusso disperato prosegue in porzioni d'ombra che nemmeno lontanamente lasciano trasparire un filo di luce. Non ci sono chiaroscuri qui sia ben chiaro, ma solo una musica per anime disperate, cuori disperati, pianti disperati, stanze desolate, vie desolate, muri vuoti, occhi vuoti, parole vuote, giusto per parafrasare il testo della opening track che si dipana lungo un mid-tempo ritmato e porzioni ambient minimaliste. Delle chitarre marcescenti aprono "Despair", una song dal classico mood suicidal black, fatto di atmosfere insane, urla strazianti, dove non mancano neppure le sfuriate black, con le tastiere che giocano il fondamentale ruolo di smorzare la crudezza di un disco altresì estremo in tutto e per tutto. Deprimente ma elegante il break di pianoforte a metà brano, a cui segue una marcetta affidata a batteria e tastiere che per tre minuti si dilungano in giri melodici, atti a preparare il terreno ad un corrosivo finale e all'inizio della delirante "Paranoia", di nome e di fatto, con quel suo loop chitarristico davvero ossessionante e folle. Ancora una volta il retaggio folk del mastermind molisano galleggia in sottofondo, con suoni che contrastano l'alienazione mentale prodotta dalle rugginose chitarre dei nostri. 'Suici.De.Pression' alla fine è un lavoro interessante, ancora da sviluppare e sgrezzare, ma che mostra senza ombra di dubbio, ampi margini di miglioramento. Per quanto possa risultare un album per amanti delle sonorità estreme, un ascolto curioso lo darei lo stesso. (Francesco Scarci)

domenica 4 giugno 2017

Unaussprechlichen Kulten - Keziah Lilith Medea (Chapter X)

#FOR FANS OF: Brutal Death, Nile
Unaussprechlichen Kulten has been playing Lovecraft inspired death metal since 1999. Expanding on the tormented mythos of its focus, moments of oldschool barbaric brutality similar to Immolation are mixed with the fringes of Nile-styled technical moments that make for deeply unnerving journeys with satisfying payoffs as raging segments ride the line between the insufferable and the impressive.

Massive melodies disharmonically extinguish any thoughts of redemption or hope between shivering strings and malicious meters as the gradual pace of 'Keziah Lilith Medea' grows into an unstoppable onslaught utilizing the machinations of a maniacal mind as the template for your torment. Though the grating guitars grow annoying in “The Woman, The Devil and God's Permit”, “Dentro Del Circulo” makes up for the unnecessary liberties with a more duplicitously dulcet approach to its gradual grandeur. Most of the songs throughout this album explore cavernous cacophonies akin to Demilich's unconventional undulations, and like Demilich these unusual airs can be all too full of noisy and unapproachable combinations. As horrific as the fate of the old woman depicted on the album cover, wearing nothing but a headdress, enduring the unspeakable torments of Hell as her body withers and rots at its extremities, these songs are the remorseless foundations of a twisted perspective that only sees majesty in the blood it has spilled and the piles of rotting corpses it can leave in its wake. This disgusting music is here to offend with its uncultured debasement of Immolation's most shrieking shreds, but in that unearthly approach such appetizing moments like the tangled treble of “Sacrificio Infanticida” keep me wondering just how much the band can manipulate this unpleasantness.

“The Mark of the Devil” exemplifies thrash influence in this album. Similar to Udo Kier's 1970 film of the same name, this song is an unrelenting splatter-fest exalting the glory of hammering percussion as the arsenal of pure metal beats back any semblance of insanity. Alongside “Sabbatical Offering”, these thrashing riffs take to the skies above the churning drum chaos like winged demons circling their prey before diving into the carnage to feed on what fleeing masses of skin and sinew haven't been melted in the fires of their explosive opening salvos. Alleviating some of the most intense moments in this album these thrashers take a familiar shape as a welcome addition in more harmonious songs, blackening their brushstrokes and coloring a crushing canvas with the frantic haste to get the message understood of their captivity between such substantial swaths of distorted vibrations and unsubtle motions.

'Keziah Lilith Medea' acts as a corrupted inquisitor, not sent by the justice of Christendom to urge confessions of your sins through a firm-but-fair duress as serious as necessary in order to save a soul. This inquisitor is enchanted by the music of different screams that a tortured man can unleash and lives for experimenting with the extent of mutilation one can endure before shedding his mortal coil. Unaussprechlichen Kulten attempts to live up to the notion of its namesake by seeking high and low for what wickedness will snap that last shred of sanity in your skull. Though this mind riot takes some getting used to it hits the mark in enough places to stay entertaining as malformed malignant monsters hide within the sounds, their tortured gaits concealing the speed at which they can come and consume you. (Five_Nails)

Rumpelstiltskin Grinder - Buried in the Front Yard

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Speed/Thrash, primi Metallica, Kreator
Mi sono sempre chiesto come ci si potesse chiamare in questo modo così assurdo? Chi si ricorderebbe mai un nome del genere? Poi inevitabilmente, mi viene di associare la presenza, nel nome nella sua interezza, di “Grinder” ad un genere splatter gore; invece mi devo ricredere dai primi quattro accordi che quello che ho fra le mani, non è altro che un album di thrash metal anni ’80 con i suoi suoni retrò, le sue “grezzate” ma anche con tutti i positivi aspetti che aveva il genere, così schietto e vero. E così i Rumpels...vattela a pesca, quintetto proveniente dalla Pennsylvania ci stupiscono con la loro ventata di energia e un pizzico di follia, che solo la Relapse Records poteva avere il fegato di produrre nel 2005. 'Buried in the Front Yard' è un disco onesto di speed-thrash metal influenzato dai primissimi Metallica, ma anche dal sound dei Kreator dei primi lavori, che conserva lo spirito eighties anche nella produzione, non propriamente al passo con quelle degli tempi. La proposta degli statunitensi non si limita però a ripetere pedissequamente gli insegnamenti dei maestri, ma arricchisce il proprio sound di altre componenti: di una vena hardcore tipicamente americana, di passaggi doomish e altri richiami punk. La band consta di ex membri di band quali Divine Rapture e Evil Divine; il batterista, Patrick Battaglia, dalle chiare origini italiane, mostra uno stile semplice ma fantasioso. La band era qui al suo esordio e diavolo se si sente, altri due album hanno seguito prima di un lungo silenzio che perdura ormai da un lustro. (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2005)
Voto: 65

https://www.facebook.com/RumpelstiltskinGrinder