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sabato 9 aprile 2016

Sleepers’ Guilt - Kilesa

#PER CHI AMA: Groove Death, Soilwork, Dark Tranquillity, Megadeth
Iniziano col botto i lussemburghesi Sleeper's Guilt, che dopo un paio di EP, vanno a debuttare sulla lunga distanza nientedimeno che con un doppio album, 'Kilesa'. L'ambizioso lavoro conta dieci tracce nella sua prima parte e tre lunghi brani per trenta minuti nella seconda, il tutto sotto l'egida di André Alvinzi e Tony Lindgren, ai rinomati Fascination Street Studios in Svezia (Katatonia, Opeth, In Flames tanto per citarne qualcuno). La cosa che mi ha stupito immediatamente, dando uno sguardo al digipack, è il supporto ricevuto dal Ministero della Cultura lussemburghese per la realizzazione del cd, avanguardia pura! Iniziando ad ascoltare il disco, quello che si apprezza maggiormente, oltre alla pulizia (inevitabile) dei suoni, è il quantitativo esagerato di groove che risiede nel disco, che lo rendono decisamente accessibile, pur collocandosi nell'ambito di un death metal di scuola Soilwork. Qui però le ritmiche sono meno esasperate rispetto ai più famosi colleghi svedesi e buona parte del lavoro viene lasciato al cesello artistico delle due asce che contribuiscono nel forgiare splendide linee melodiche, elaborati orpelli chitarristici, resi ancor più interessanti dagli ottimi arrangiamenti orchestrali che contraddistinguono l'intero platter. Cosi è assai facile avvicinarsi alla opener "Sense of an Ending" (dove compaiono nelle sue linee melodiche anche un violino e un violoncello) o alla successiva "Two Words", dove tonnellate di granitici riffs vengono prodotti e confezionati a dovere, per essere dati in pasto ad una fetta assai ampia di pubblico. Il risultato è del sano e grondante groove (in stile Scar Symmetry) che riempie ogni singolo spazio del disco, soprattutto a livello solistico. Quando c'è da spingere il piede sull'acceleratore, il quintetto di Dippach non si fa certo pregare ("Scars of War"), con i risultati che si confermano sempre eccellenti, merito di una già acquisita maturità artistica, di un certo gusto compositivo e di una buona maestria strumentale. Gli Sleepers’ Guilt sanno mostrare anche il loro lato più gentile ("Angel Eyes") con una intro che sa quasi di ballad, prima di esplodere in una tonante fase ritmica in cui, oltre alle graffianti chitarre del duo formato da Chris T. Ian e Manu De Lorenzi (sembra esserci anche un po' di Italia nei nostri), è l'ottimo growl di Patrick Schaul ad emergere; da urlo poi l'assolo conclusivo. Se "I Am Reality" ha modo di strizzare l'occhiolino anche al djent dei Tesseract, con "The Mission" (e pure in "Dying Alive") i nostri si rilanciano nel costruire muri ritmici che compaiono peraltro anche nel nuovissimo disco dei Megadeth, il che dovrebbero indurre anche gli amanti di sonorità thrash e heavy progressive ad avvicinarsi a questo lavoro. Lo dicevo all'inizio, 'Kilesa' è un album che può aprirsi ad un pubblico ben più vasto di quello death metal, il tempo mi darà ragione, ne sono certo. Nel frattempo, le song si alternano con fortuna nel mio lettore: "Teardrop Bullets" ha un approccio assai catchy in un'altra semiballad che strizza l'occhiolino ai Dark Tranquillity di 'Projector'; "Supernova" continua a citare i gods svedesi del Gotheborg sound, mentre l'ultima strumentale "Not For Words", funge da chitarristico outro al disco. Menzione a parte per il secondo disco, contenente i tre lunghi brani che si muovono da "Kleshas" song presa in prestito a livello ritmico da uno degli album centrali della discografia dei Sepultura ('Chaos AD' o 'Roots') che però evolve dinamicamente verso ritmiche serrate alternate a frangenti etnici, il che si discosta dalla proposta contenuta nel primo dischetto. Tutta da decifrare poi la seconda parte del pezzo, con un assolo hard rock che spiazza non poco e un finale affidato a female vocals, per una songs indecifrabile stilisticamente quanto mai interessante a 360°. "Akusala-Mula", il secondo brano, è un altro concentrato di sonorità death grooveggianti che potrei ricondurre ad altre mille band (in ordine sparso, Meshuggah, Megadeth, Tristania), cosi come a nessuna e in cui a prestar la propria voce c'è un'altra gentil donzella (da rivederne però la prova). A chiudere il disco ecco il folk acustico di "Vipassana" che nella sua imprevedibile evoluzione, avrà modo di solcare i sentieri del death offrendo anche tiratissime ritmiche dal vago sapore black. Tanta carne al fuoco con i 13 brani totali di questa release che sicuramente non avranno modo di annoiarvi, ma anzi sapranno catturare i vostri sensi cosi come hanno fatto col sottoscritto). Bravi! (Francesco Scarci) 

(Self - 2016)
Voto: 75

The Shiva Hypothesis - Promo 2015

#PER CHI AMA: Black/Death
Arriva dai Paesi bassi questo quartetto agguerrito e dal sound tanto radicale, immerso nel soundblast più viscerale del black metal e vicino a certe realtà trasversali degli ambienti avantgarde metal. Il confine tra i due generi è sempre labile e molte volte viene oltrepassato, spesso sormontandosi a vicenda, donando sfumature e colorazioni diverse alla musica dei tre brani che formano questo demo autoprodotto. Ottima la qualità di scrittura, varia ed equilibrata, buona la produzione curata dal cantante MvS assieme ai suoi compagni. Tutti musicisti competenti e navigati che danno prova delle loro capacità sfornando tre suite di tutto rispetto, unendo raffinatezza, potenza, velocità e fantasia, nel nome di Dodheimsgard, Enthroned e Mgla, Voce maligna e ritmi incalzanti ad alto contenuto tecnico, strumenti ben amalgamati fra loro, momenti musicali in chiaroscuro dal risultato certo e gratificante, venature progressive, senza mai dimenticare una matrice al vetriolo di natura black/death e thrash metal nera come la pece. Venti minuti di puro cataclisma sonoro, curato e rivestito di oscura, agghiacciante, buia e profetica allucinazione (anche nel nome dei God Dethroned) a sostenere il significato di un nome dai richiami apocalittici com'è The Shiva Hypothesis. L'ipotesi di Shiva è una teoria scientifica esogeologica chiamata, in nome del dio della distruzione degli Hindu, che intende spiegare un apparente schema nelle estinzioni di massa causate da eventi di impatto (cit. wikipedia). Questo promo cd, uscito nel 2015, lascia ben sperare per il futuro e non deve passare inosservato, cosi come buona e inaspettata anche la cover dei Nasum fatta uscire su bandcamp a febbraio di quest'anno che rinforza le nostre speranze per l'avvenire di questa band. Aspettiamo il full length ora. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 70

Cult of Occult - Five Degrees of Insanity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, primi Cathedral
Quando si dice "non è certo una passeggiata" mi vengono in mente le asperità che ho affrontato nell'ascoltare questo tormentato disco dei francesi Cult of Occult. 'Five Degrees of Insanity' è il terzo album dell'act transalpino, che in cinque brani raggiunge la considerevole durata di 70 minuti poco più. La band di Lione ha da offrirci il proprio malsano sound fatto di sonorità sludge doom a dir poco claustrofobiche, che hanno scomodato dalla mia memoria storica, i Cathedral di 'Forest of Equilibrium'. Già proprio dall'iniziale e delirante "Alcoholic", lo spettro sinistro di Lee Dorrian e soci dell'album d'esordio, è rievocato in un disco dal difficile approccio, ma che ha nelle sue corde, aspetti sicuramente intriganti e pregni di contenuti. L'incedere è mortifero e ipnotico, debitore sicuramente di act quali Black Sabbath e Saint Vitus, ma qui riletti in chiave ancor più asfissiante e apocalittica che si spingono quasi al limite del funeral. La durata poi del brano, quasi 15 minuti, non aiuta di certo un ascolto easy listening, in quanto è richiesta una totale immersione sonora nella criptica dimensione dei Cult of Occult e un ascolto, per ovvi motivi, attento, per non lasciarsi sfuggire sfumature e molteplici altri dettagli qui contenuti. Quando in cuffia ti senti montare poi il riffing marziale di "Nihilistic", puoi solo sentire i polsi tremare e farti sopraffare dalla pericolosità di atmosfere raggelanti e vocals demoniache. In realtà il brano non acquisisce mai velocità o pesantezza, continua lungo i suoi 12 minuti a tenere il passo con il suo monolitico riffing infernale. Ci penseranno invece i 16 minuti di "Misanthropic" a catapultarvi nei più profondi abissi infernali con un ferocissimo attacco black che dopo pochi frangenti preme violentemente sul pedale del freno, facendoci impantanare nel distretto delle sulfuree pozze del doom più melmoso e ossessivo. Qui l'asfissia dovuta allo zolfo si fa assai pesante e insopportabile e la necessità di trovare una bolla d'aria sempre più impellente per potere uscire dalle sabbie mobili di un sound che ha addirittura da offrire intermezzi psych-space rock. Non lasciatevi però troppo ingannare da queste mie parole, la proposta dei Cult of Occult continua ad essere ostica e neppure la più breve "Psychotic" sarà per noi la classica e piacevole "scampagnata" della domenica: i suoi dieci minuti infatti, continuano nella malsana direzione fin qui imboccata da questi misteriosi musicisti, che in questo caso arrivano a saturare il proprio psicotico sound doom anche di suoni drone, che echeggiano fino alla conclusiva "Satanic", quando finalmente ci troveremo al cospetto della bestia. Infernali! (Francesco Scarci)

(Deadlight Entertainment - 2015)
Voto: 70

mercoledì 6 aprile 2016

Pearls Before Swine – Lay the Burden Down

#PER CHI AMA: Grunge/Stoner, Alice in Chains
Se decidi di usare per la tua band lo stesso nome di un’oscura formazione di culto degli anni sessanta, devi accettare il fatto che, almeno all’inizio, ogni ricerca in rete relativa a quel nome restituisca nelle prime due pagine di risultati solo indirizzi relativi a quel gruppo. A questo punto, quindi, non rimangono che un paio di opzioni: o si cambia nome o si diventa molto piú famosi degli altri, come pensarono bene di fare i Nirvana (sfido infatti oggi ricordarsi degli altri Nirvana). Così, mentre “quei” Pearls Before Swine erano lo pseudonimo dietro il quale Tom Rapp celava le sue psicosi apocalittiche riversandole in dolcissimi dischi psych-folk dalle copertine che riproducevano Bosch e Bruegel, questi altri sono un trio proveniente da Münster, Germania, usciti sul finire dello scorso anno con questo loro secondo EP, ricco di spunti interessanti tanto quanto lasci intravedere ampi margini di miglioramento. Grunge e stoner gli ingredienti alla base di una ricetta che, se non brilla certo per originalità, si fa apprezzare per passione e sostanza. Se l’iniziale “Valar Morghulis” è uno strumentale piuttosto innocuo, la successiva “Misfortune Cookies” ci riporta immediatamente nella Seattle di metà anni 90, tra Alice in Chains, Screaming Trees e Mad Season, anche per via dell’impressionante somiglianza della voce del vocalist con quella di Layne Staley. Allo stesso modo in ”On My Own”, blueseggiante come potevano esserlo i Temple of the Dog, e nella conclusiva “Shattered Dreams”, dalla lunga intro orientaleggiante, i nostri pescano a piene mani da quello stesso florido bacino e lo fanno con il giusto rispetto, quasi timore reverenziale, riuscendo però a cogliere nel segno anche e soprattutto grazie a capacità di scrittura decisamente sopra la media, tanto che questi tre brani non sfigurano nel confronto con le fonti di ispirazione. Resta da dire di una “I, Jekyll” non proprio a fuoco nel suo voler essere troppe cose e nessuna, e di un artwork non proprio memorabile e forse anch’esso nostalgico degli anni '90. Al netto di qualche ingenuità, la stoffa è evidente, e personalmente sono molto curioso di assistere a sviluppi futuri. Attesi alla prova di un album intero, con l’augurio che possano in futuro comparire come primo risultato di una ricerca in google (per il momento, direi che Tom Rapp può dormire sonni tranquilli). (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

martedì 5 aprile 2016

Black Reaper - Flames of Sitra Ahra

#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection
Dalla Cina, Fujian per la precisione, arriva questo cd datato dicembre 2014 e firmato Black Reaper, giovane duo formatasi nello stesso anno, noto per essere la prima black/death metal band conosciuta in patria, che ha visto sfociare la propria ispirazione in un EP uscito sotto l'ala protettrice della formidabile Pest Productions, un album in perfetta sintonia con le atmosfere promosse dall'etichetta black/folk/dark metal di Nanchang. Suono tagliente, radicale, gelido e underground, sferragliante, primordiale ed essenziale, rude, reale e senza fronzoli. Si tratta di un evocativo black/death metal dalle tinte urticanti e violentissime, fatto di riff veloci e al veleno, espressi ad ogni battuta per una sequenza di quattro brani di media/lunga durata e notevole velocità, una produzione buona per gli amanti del genere trattato dalla label cinese, da evitare invece fuori dagli ambienti underground. 'Flames of Sitra Ahra' tocca buone vette di epicità e maleficio in alcuni suoi brani tra cui il secondo, "Marching Towards of Infinity" e il terzo, "Heavenless", dai toni thrash molto accesi, graffianti e ossessivi. Lo screaming incarna poi perfettamente il tipo di musica e la band sembra già in ottima sintonia. I due giovani musicisti certamente godono di una forte personalità, cosa che li porta a proporre come quarto brano una cover dei Dissection ("Soulreaper") e per assurdo un quinto brano che è una composizione classica scritta ed eseguita dal dinamitardo Kakophonix (vedi anche Hvile I Kaos, Empyrean Throne) con il suo violoncello infernale. L'aggiunta di questo brano finale spiazza un po' l'ascoltatore ma rende bene l'idea della linea anticonformista, che la Pest Productions e le sue band intendono mantenere per far convivere black, dark, folk e musica classica, tutti nella stessa oscura residenza. 'Flames of Sitra Ahra' non sarà un EP fondamentale ma di sicuro interesse. Un buon lavoro uscito per una etichetta assai rispettabile e coerente con le proprie indipendenti idee artistiche. (Bob Stoner)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 70

Black Vulpine - Hidden Places

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Queens of the Stone Age
Stoner-doom dalla Germania, precisamente da Dortmund. Solo che questa volta non si tratta di energumeni barbuti (non tutti, per lo meno), ma di un quartetto che vede alle chitarre e alla voce due ragazze di aspetto quanto mai gentile e pacato. Questi sono i Black Vulpine, e il loro esordio sulla lunga distanza, dopo un demo nel 2013, è uno di quelli che potrebbero (e dovrebbero) fare rumore. 'Hidden Places' è un bel disco di stoner fortemente influenzato dai Queens Of The Stone Age, senza disdegnare puntate doom psichedeliche, che colpisce per potenza, maturità e una certa originalità, non fosse altro per l’immagine pulita e quel senso di innocenza e fragilità che tanto contrasta con i watt sprigionati dal gruppo. I tour a supporto di band come i Kylesa, hanno permesso di cementare un’intesa e un suono che appaiono granitici, riuscendo a valorizzare al meglio la bella voce della cantante, allo stesso modo dolce, sinuosa e potente - senza essere urlata - e con un certo mood vintage. E se brani come l’opener “Twisted Knife”, una potenziale hit, seguono in maniera piuttosto fedele il canovaccio tracciato dai QOTSA (“Drowning in Lakes” potrebbe essere un’outtake di 'Rated R'), i Black Vulpine piacciono di più quando riescono ad affrancarsi dal modello, allentano la presa sulle briglie e tentano qualcosa di più personale, come le sortite psych di “Dark Glow”, la chitarra acida di “Mother of Pearl” o l’incedere vischioso di “Devil’s Blanket”, un terzetto di tracce in sequenza in cui sono più evidenti le vibrazioni occult doom che donano all’atmosfera un che di sinistro, contribuendo ad innalzare il fascino di un disco davvero di alto livello. Se proprio bisogna fare un appunto, si potrebbe denunciare un’eccessiva uniformità di atmosfere, che non è per forza un difetto, ma forse una maggiore varietà e alternanza di vuoti e pieni avrebbero giovato all’album, soprattutto alla lunga (sono 46 minuti ma sembrano qualcuno di più). Sono però dettagli, che non intaccano il giudizio su un lavoro di prim'ordine, in un genere dove è sempre più difficile avere qualcosa da dire. (Mauro Catena)

(Moment of Collapse - 2015)
Voto: 75

lunedì 4 aprile 2016

Onirism - Cosmic Dream

#PER CHI AMA: Black Symph, Limbonic Art, Bal Sagoth
Fatta esclusione per i Dimmu Borgir (che nel frattempo si sono un po' persi per strada), credo fosse da una decina di anni che non si sentisse in giro qualcosa dedito al black sinfonico. Emperor, Agathodaimon, Ancient Ceremony e Anorexia Nervosa si sono sciolti, i Limbonic Art hanno virato verso un altro genere, cosi come pure i polacchi Lux Occulta. Quella forma di black è ahimè morta. Ci prova la one man band francese degli Onirism a donare linfa vitale al genere, con il debut album 'Cosmic Dream'. Il disco non tradisce le aspettative sin dalla sua veste grafica con una cover cd che riporta a paesaggi intergalattici. I contenuti: un classico tappeto tastieristico (stile Summoning) introduce il disco per poi esplodere in "Beginning of a New Era". Come da copione sono splendide melodie sostenute da pompose tastiere e harsh vocals a guidare il sound di Antoine Guibert (alias Vrath), che si lancia in un'inebriante cavalcata in cui il mastermind francese arriva ad evocare anche lo spettro dei primi Satyricon e Ancient. Che tuffo di vent'anni nel passato. Più avanzo nell'ascolto e la sensazione che provo è quella di percorrere una galleria ove siano state riposte le statue di cera dei miei idoli degli anni '90 che proponevano quel genere. In "From the End to the Origins" ecco venir fuori 'Stormblast' dei Dimmu Borgir, nella etnica "Ephemeral World I" è l'eco di 'Under the Moonspell', piccola gemma arabeggiante dei lusitani Moonspell, ad emergere. Le barocche tastiere di "Ephemeral World I" rievocano il sound fantasy dei Bal Sagoth, mentre con le tonanti "The Curse of Ahriman" e "Weavers of Time" (quest'ultima peraltro vanta un ottimo assolo rock), andiamo a scomodare 'Moon in the Scorpio' dei Limbonic Art e 'Arntor' dei Windir (quest'ultimi richiamati in causa anche nella conclusiva title track). Tutti i grandi classici del passato convergono in 'Cosmic Dream' e questo probabilmente costituisce il vero limite di questa produzione, sicuramente ben suonata, ottimamente concepita e che ha da offrire tutti i cliché di un genere ormai scomparso da tempo e che forse ormai non ha più nulla da dire. Tuttavia, e spero sia il tempo a smentirmi, come l'Araba Fenice rinacque dalle proprie ceneri, auspico faccia altrettanto il black sinfonico, magari proprio grazie agli Onirism e al loro punto di inizio, 'Cosmic Dream'. Crediamoci fino in fondo! (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

sabato 2 aprile 2016

Dancing Crap - Cut It Out

#PER CHI AMA: Alternative Electro Rock/Punk
Eccoci a parlare di una delle ultime produzioni targate Agoge Records, ovvero i funanbolici Dancing Crap. La band nasce intorno al 2012 dopo che il fondatore Ronnie ha concluso l'esperienza con il suo precedente progetto. Il quintetto laziale voce-chitarre-basso-batteria mette in mostra un rock intriso di contaminazioni in un album di debutto composto da dieci brani eclettici e che abbracciano influenze molteplici e ben definite. Grunge nostalgico e punk oltreoceano si insinuano negli arrangiamenti con una spruzzata di elettronica qua e la, mentre lo charme del vocalist cerca di ipnotizzare l'ascoltatore con la sua cadenza sensuale e irriverente alla Axl Rose. Le trovate iper tecniche sono lasciate da parte, infatti ogni singolo strumento punta ad amalgamarsi al meglio con gli altri, il basso è sempre ben presente e piacevole all'ascolto, come i pattern di batteria. La chitarra si prende il proprio spazio con riff semplici ma efficaci, sempre a conferma che i Dancing Crap puntano molto sul risultato complessivo. "Burned Down City Soul" è l'esempio lampante di una composizione dall'appeal sbruffone e scanzonato, compreso il fischiettare di Ronnie e i suoi vocalizzi a mo' di filastrocca. Un brano rock piacevole che fila via liscio senza sbalordire. "Sam" ricorda la scuola Ramstein per quanto riguarda il lead synth utilizzato per tutta la traccia che risulta ben sviluppata anche se qualche bpm in più l'avrebbe resa decisamente più incisiva e trascinante. Personalmente avrei scelto suoni di tastiere diversi, puntando sull'acidità della psichedelia o la morbidezza dell'ambient. La timbrica dance lascia un po' perplessi mettendo sul tavolo altre influenze che cozzano con l'incedere rockeggiante del brano. "Needless" è un'altra prova di forza del quintetto che non ha paura di mischiare nuovamente suoni electro con il rock, mentre la timbrica di Ronnie si arrichisce della drammaticità sofferente di Brian Molko. Verso i tre quarti di brano c'è un breve break, simil monologo teatrale, che permette alla branda di riprendere il riff principale e portare a conclusione la canzone. I Dancing Crap sono un buon progetto che mette in atto delle sperimentazioni credibili e tutto sommato piacevoli, forse una botta di vita in più renderebbe merito alla fiamma del rock che comunque imperversa nelle vene di questi ragazzi. Stiamo a vedere come evolverà il progetto, a questo punto sono veramente curioso. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2015)
Voto: 70

https://www.facebook.com/DANCINGCRAP/