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giovedì 19 novembre 2015

Below a Silent Sky - Corrosion

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Long Distance Calling
Quando cerchi un posto su Google Maps, e le foto del luogo ritraggono per lo piú fabbriche e condomini, occasionalmente qualche distesa di alberi ordinati e ricoperti di neve, probabilmente quel luogo non è il posto piú divertente del mondo. Ilmenau, posizionata piú o meno nel centro esatto della Germania, e ugualmente lontana da ogni grande città, si cinfigura un po’ cosí. E se sei un ragazzo, ad Ilmenau, una delle opzioni che hai per movimentare le tue giornate, è sicuramente quella di chiuderti in una cantina, provare ad alzare il volume degli amplificatori e vedere l’effetto che fa. I Below a Silent Sky sono quattro giovanotti che pubblicano il loro esordio in totale autoproduzione, dal semplice titolo, 'Corrosion', un prodotto che si presenta bene nell’elegante digipack dall’immaginario vagamente fantasy. Il contenuto poi è un post metal strumentale che, pur non brillando per originalità, è suonato con passione e sincerità. Si sente che i quattro ci credono e in queste sei tracce c’è tanta voglia di fare per cui riesce a passare anche una discreta dose di emotività, dettata peraltro da momenti atmosferici e fughe post rock, anche se sinceramente non si puó dire che le loro evoluzioni si facciano ricordare per qualcosa di cosi particolare. Pur ristagnando all’interno di un genere ormai ben codificato e ricco di clichè, in questi brani ci sono buoni spunti (pezzi come “Sulfur”, o le due parti di “The Flood”), una discreta dose di potenza e una capacità compositiva mai banale. Se non altro si evita il rischio della noia dovuta a una certa prolissità (legata alle durate medio lunghe delle song), ma c’è ancora parecchia strada da fare, e forse è necessario fare un po’ di chiarezza su quale sia la direzione da intraprendere, e accelerare con decisione in quella direzione, qualunque essa sia. Sarà sicuramente meglio che rimanere intrappolati in un guado che non porta da nessuna parte e che inoltre è decisamente già troppo affollato. (Mauro Catena)

Halter - For the Abandoned

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge
Dire che il doom e i suoi derivati sono musiche tra le più costruttive e vitali tra i sottogeneri del metal mi sembra superfluo, ancor più quando mi ritrovo una band che milita tra le fila della MFL (Moscow Funeral League) di cui, visto la natura indipendente ed estremista, nutro una particolare venerazione e ammirazione. Gli Halter sono attivi dal 2009, arrivano da Yaroslavl e suonano funeral doom metal con una verve innata e una particolarità specifica, la dote di saperlo suonare con uno stile a metà strada tra innovazione e tradizione, slegandosi dai soliti canoni del genere in questione. La band russa, che peraltro abbiamo già avuto modo di recensire in occasione del precedente 'Omnipresence of Rat Race', si conferma carica di una certa suggestione magica, cupa, tetra, romantica e ancestrale, cosi come lo erano un tempo i Candlemass, presentando testi fortemente malinconici e drammatici, cantati da una voce gutturale evocativa, magnetica come quella dei Cathedral di 'In Memorium'. Il quintetto poi sfodera un carisma gotico di scuola Paradise lost epoca 'Gothic', applicando cadenze rallentate e sofisticate a la My Dying Bride (evidenziabili in "First Snow"), e introducendo con naturalezza elementi di classic metal (immaginate il sound degli In Solitude oppure il metal nordico dei Grand Magus, ma a rallentatore) che rendono l'ascolto più fruibile. Una cosa che ho apprezzato parecchio di questo gruppo, è il fatto che non rinunci mai ad un'attitudine rock sanguigna, a quel tocco in più che li eleva allo status di fuoriclasse del genere. Un'altra arma importante è la capacità di esplorare terreni diversi come nel caso della splendida, lunghissima e conclusiva "Ode to the Abandoned", che ci porge un intro carico di melodia guidato dal piano e un assolo che sembra invece rubato ad un classico brano hard rock degli anni settanta per calore ed armonia, soluzioni sonore originali e calibrate, interessanti ed intelligenti, inaspettate di scuola Ahab. Gli Halter con due full length e un EP all'attivo, sanno veramente come comporre e produrre un album degno di nota con suoni moderni, ricercati, avvolgenti e il passo lento, disarmante, che marchia a fuoco le sei tracce di questo 'For the Abandoned'. Un artwork di copertina poi bello ed originale, inaspettato come il suono della band, completa saggiamente la release dei nostri. Un album che sta al di sopra della media, carico di pathos e che stranamente non fa della lentezza la sua unica arma vincente, un lavoro che mostra mille altre sfaccettature per sottolineare un'appartenenza radicata alla musica del destino. Un disco da riascoltare più volte e farsi stupire sempre di più da una manciata di brani che lasceranno il segno, diversi, difficili da rinchiudere nel solo genere funeral, pieni di carisma e urticanti al punto giusto, insomma gli Halter sono una band da portarsi anche nell'oltretomba! (Bob Stoner)

lunedì 16 novembre 2015

Newspaperflyhunting – Iceberg Soul

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Di solito, dopo aver ascoltato un disco e prima di scriverne, cerco in rete altre recensioni, un po’ per capire come il lavoro è stato accolto in giro e un po’ anche per sincerarmi di non aver preso una grossa cantonata e dare magari un ascolto piú attento. In questo caso la navigazione mi ha lasciato con piú dubbi che altro, tanto sono distanti i giudizi espressi su questo lavoro, spaziando dal sincero entusiasmo alla piú totale freddezza. Per quanto mi riguarda, la verità è da cercarsi, una volta di piú, nel mezzo. 'Iceberg Soul' è il secondo lavoro sulla lunga distanza per questo quintetto polacco dedito a quello che loro stessi definiscono un progressive-post-space rock dalle tinte dark e malinconiche, sognanti ed atmosferiche. In effetti si tratta di una proposta piuttosto peculiare e originale, rimanendo piuttosto sospesa tra rarefazioni e improvvise impennate distorsive, dilatazioni e ruggiti, non priva di suggestioni ma nemmeno di difetti. I brani, mediamente lunghi, sono caratterizzati da una struttura ondivaga, spesso giocata sull’alternanza tra voci maschili e femminili, sempre piuttosto delicate ed evocative, e dalla contrapposizione tra calma e tempesta, con le chitarre ora impegnate a ricamare arpeggi tanto quanto ad erigere muri. Ottimo il lavoro delle chitarre quando lasciate libere di improvvisare con uno stile immaginifico che richiama il Neil Young elettrico, come nella delicata “Stop Flying”, sferzata anche da un bel basso distorto. Piú che il prog propriamente detto, qui si respira spesso un’aria vicina a certo Canterbury Sound o ai King Crimson piú sognanti, con chitarre tutt’altro che gentili come protagoniste assolute, come se nei Caravan fossero innestate le sei corde dei Thin White Rope (ascoltare “Lighthouse” per credere). Altre volte, quando a cantare è la bassista Gosia Sutula, ci si avvicina ad atmosfere dream pop/shoegaze davvero intriganti (come in”Looking Through the Glass”). Si diceva dei difetti. Due in particolare, a mio avviso, che possono disturbare o meno, ma sui quali si può migliorare per il futuro: la registrazione un po’ piatta e fredda che non rende un gran servizio alla voce e non esalta le dinamiche - che pure sembrerebbero essere la componente principale del suono della band – ed una pronuncia inglese sicuramente rivedibile, da parte dei diversi vocalist che si avvicendano al microfono. A parte questo, 'Iceberg Soul' vive e si nutre delle sue contrapposizioni interne, sintomo di una dualità che rappresenta il vero punto di forza dell’album. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70

Necroblaspheme - Belleville

#FOR FANS OF: Death/Black Metal, Gorguts, In Vain
After toying with the sound in the previous EP, album number three for these French deathsters manages to finally get the full use of their mixture of atmospheric chords and punishing Death/Black Metal that is carried over here. Allowing for their past endeavors into pummeling old-school styled classic Death Metal, this new form isn’t as remarkable simply without the added punch that required here as instead this newfound form is lighter, more melodic and manages to come off quite a bit more relaxed in nature as the whole effort has more of a celestial-journey vibe as if the entire effort is traveling through the reaches of the cosmos. While there’s still more Death Metal elements abound here with the tight patterns and heavy riff-work at the forefront of many songs here before they descend into sprawling atmospheric jaunts, the lighter atmospheric work here is a little oddly placed alongside these tougher, more edgier samples makes for a disjointed work at times. It works far better here with the other addition of more Black Metal-influenced riff-work here as the tremolo-picked patterns are far more receptive to the sprawling celestial tone of these rhythms and manages to fit into the music on the whole much tighter and more coherently. Still, this can’t hide the fact that there’s three short instrumentals here where there really didn’t need so many, making this seem too sloppy and features too much of a start/stop feature in the middle of the album rather than the more cohesive builds at the front and back of the album and really should’ve been trimmed down or removed altogether. On the whole, though, the songs are still rather good. Intro ‘Rempart’ uses a slow-building riff with an extended series of looping rhythms that finally turns into a sprawling series of riffs and double-bass blasts that urges forward in a rather long, monotonous repetition broken up by the dynamic drumming and swirling tremolo-picked rhythms for a fine opening blast that just takes too long to get going. ‘Le discours du bitume’ features one of the most groovy and consistently hard-hitting riffs swirling through rampant tremolo-picked series of riffs with a stylish series of choppy drumming, plodding rhythms and dynamic melodies that run throughout here for one of the most impressive efforts here. The first of the instrumentals, ‘How Did We Get There’ is easily the most skippable of them with nothing more than reverb-laden guitar squealing meant to suggest a mid-album breather but it’s too short to mean anything and the album’s only two songs in which means the need for a break is curious enough. ‘Two Trees (DeadWood)’ gets this back to normal with a tighter, sharper series of fiery riffs, blasting drumming and a more cohesive atmospheric section wandering through the middle of the track while the sprawling tempos are carried through the remainder here which makes it decent enough but still not entirely satisfying. The next instrumental, ‘Hyperspace’ shouldn’t even be here and would’ve been better served swapped with the previous instrumental and then left off altogether. ‘Waiting to Exhale’ offers forth a scalding series of tremolo-picked rhythms and blasting drumming whipping through some of the most extreme tempos on the album and mixing things up nicely with some sprawling atmospheric patterns and the occasional chug for an all-around more intensive effort. The last of the instrumentals, ‘Freed’ is the best with a haunting industrial tone and gradual build-up that makes for a fine impression overall here while segueing into ‘The Grande Boars Haunting’ with the same creepy atmospheric touch working alongside the gorgeously chilling riffs with plenty of sprawling atmospheric touches before blasting into devastating bursts of double-bass blasts and churning riff-work that makes this another fine highlight. ‘Gouffre’ is a little weird with its jangly intro, but turns into a worthwhile effort with some tight chugging, a fine series of atmospheric tremolo patterns flowing through a series of solid up-tempo melodies quite nicely that makes this a rather nice effort overall. Finale ‘Such a Lot’ offers more of the same here with a series of sprawling tremolo riff-work, blasting drumming and full-on churning rhythms here in the later half manages to pick up the intensity and urgency into the section as the pounding drumming and haunting chorus work into the finale bring this to a fine conclusion overall. While there’s a few small pieces here and there that don’t quite hold up, there’s still some solid enough positives to really like here. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 75

Three Eyes Left - Asmodeus

#PER CHI AMA: Stoner/Doom/Psych
I Three Eyes Left sono una band bolognese attiva nella scena doom/stoner da oltre dieci anni e che ha raggiunto un buon riscontro a livello di pubblico e ascolti. All'attivo hanno un demo, due EP ed un cd, poi la sempre attenta GoDown Records ha pensato bene di metterli a contratto ed è così che vede la luce 'Asmodeus', il secondo full length dei nostri, disponibile in digitale, cd e vinile da maggio di quest'anno. La formazione vede Maic Evil (voce e chitarra), Andrew Molten (basso) e K. Luther Stern (batteria), quindi un trio alla vecchie maniera, in grado di creare un volume sonoro e musicale senza eguali. Appena si inserisce il cd nel lettore, si viene avvolti da suoni sontuosi, le distorsioni delle chitarre sono calde e cremose, il basso è come il battito cardiaco di un'immensa creatura adagiata sul fondo degli abissi. La batteria trasuda ritmiche ancestrali, perentorie e ossessive, mentre la voce è una delle timbriche più piacevoli ascoltate negli ultimi tempi ove il vocalist usa appieno le sue doti e diviene elemento trascinante dei brani composti dai Three Eyes Left. "Beyond the Mountain" è l'opening track di 'Asmodeus' e come tale ha una grossa responsabilità: come la canzone di apertura di un concerto che deve impressionare l'ascoltatore, altrettanto deve fare questa song. Potenza allo stato puro, doom/rock psichedelico al 100%, potente e devastante come un cataclisma naturale che ha accumulato potenza per milioni di anni e finalmente ha trovato la sua via di sfogo. Riff potenti, bassi e imperterriti che prenderanno il sopravvento sui vostri speakers fino al punto di rottura che sarà sempre pericolosamente in agguato. Seppure l'attitudine doom sia abbastanza classica e ricordi senza tanti giri di parole band del calibro di Back Sabbath e Orchid, la band italica riesce a destreggiarsi molto bene creando una fusione personale che trae il meglio da altri generi come il metal e lo sludge, forgiando un sound massiccio e talvolta addirittura mistico. Le ottime linee vocali chiudono il cerchio, anche con excursus in territori death, confermando che i generi chiusi in se stessi alla lunga hanno vita difficile. "Lucifer Brightest in the Sky" è il brano che ho preferito, dieci minuti abbondanti dove il trio mette in piazza tutto il proprio bagaglio musicale e crea un brano pressoché perfetto, perché contiene tutto quello che ci si aspetta da una band doom. Il brano inizia come stoner, evolve e si tramuta in puro doom, per poi cambiare pelle e regalare un break psichedelico che permette a noi nati nei '70s, di viverli come fosse allora. Poesia in musica che soddisferà qualsiasi amante del buon rock, nostalgico o meno, insomma un album che regala otto tracce perfettamente incastonate nella corona del re delle tenebre. "Sign of the Pentagram" mostra il lato più veloce della band, ovvero una cavalcata massiccia e arrogante come poche, sempre caratterizzata da una compattezza strumentale che parecchie band possono solo sognarsi. Dopotutto i Three Eyes Left si sono fatti un mazzo tanto, chiudendosi in sala prove a provare e riprovare; poi con bravura e un pizzico di fortuna, hanno iniziato a raccogliere i risultati. Quindi, che lo prendiate in vinile o cd (massì anche in digitale se proprio non potete farne a meno), 'Asmodeus' si confermerà una gran bella perla stoner/doom/psych rock nostrano che ci permette di camminare a testa alta avanti ad altre scene sparse per il mondo. È solo acquistando musica che permettiamo a realtà come queste di vivere e farci sognare, ricordatevelo. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2015)
Voto: 80

sabato 14 novembre 2015

Sumer - The Animal You Are

#PER CHI AMA: Post Metal/Prog/Grunge/Alternative
I Sumer sono una band inglese di 5 elementi, formatasi nel 2010, che esce solo nel 2014, con 'The Animal You Are', l'album di debutto, costituito da nove tracce intriganti. È quasi inutile dire che nel loro sound si sentono molto le influenze dei Karnivool e dei Tool, tuttavia i nostri londinesi provano più volte a distaccarsi dai dettami dei gods sopraccitati e dai clichè del genere, lasciando spazio ad esempio a una leggera vena grunge nel cantato, che conferisce al quintetto britannico una certa dose di personalità. Le song si dimostrano tutte assai interessanti: con “The Animal You Are”, la title track, i Sumer portano una carica che coinvolge e disorienta, fatta di introspettive atmosfere post metal che colorano molto l’album, caricate da riff scuri e potenti, nonché da controtempi ben centellinati. “Lure” invece sposta l’attenzione alle armonizzazioni a due voci ben curate, mentre “Vanes” si fa notare per certe aperture con ritornelli, da cantare facendo lenti headbanging al braccio. Tre chitarre son sempre difficili da gestire, ma i Sumer riescono ad equilibrarle perfettamente e, ben calibrati alla sezione ritmica, fan capire subito il loro elevato livello tecnico. E con “Progenesis” lo dimostrano alla grande: ti vien infatti voglia di suonare la batteria mentre la ascolti e in un attimo ti ritrovi a fare air drumming come nel video di “New Millenium Cyanide Christ” dei Meshuggah. Personalmente spero, ma credo siano già sulla buona strada, che i Sumer continuino a sperimentare con la loro musica, per potersi levare di dosso il continuo confronto che viene spesso da fare con Maynard & Co. e possano creare finalmente una propria e definita identità. Comunque meritevoli di tutta la vostra attenzione. (Alessio Perro)

Odetosun - The Dark Dunes of Titan

#PER CHI AMA: Space Rock/Death Progressive, Opeth, Nahemah
Sapete quanto sia affascinato da tematiche astronomiche e quest'oggi mi trovo ad affrontare Titano, il più grande satellite di Saturno ed uno dei corpi rocciosi più massicci dell'intero sistema solare, nonché uno dei più affascinanti, per la presenza di ghiaccio d'acqua, laghi di idrocarburi e altre caratteristiche che l'accomunano alla nostra Terra primordiale. I tedeschi Odetosun, forse affascinati quanto il sottoscritto per l'astronomia ma anche ispirati dal romanzo 'As on a Darkling Plain' di Ben Bova, ne hanno voluto esplorare la superficie, cosi come fece la sonda Cassini-Huygens nel 2004, dedicandoci 4 lunghi brani. Brani che si aprono con l'inusuale (ma solo per posizionamento nella scaletta - e a cui personalmente avrei affidato l'outro) strumentale "At the Shore of the Ammonia Sea", che ci delizia comunque con dieci minuti di caldo rock progressive anni '70, che conferma quanto Bob Stoner aveva dichiarato nella recensione del debut 'Gods Forgotten Orbit', ossia che il terzetto di Augsburg sfodera una classe innata e già matura. Ma la "battigia di quell'oceano di ammoniaca" non puzza decisamente come il gas tossico e dall'odore pungente citato nel titolo, anzi profuma di dolce, e alla fine ci regala atmosfere dilatate di space rock di grande spessore. "Machine Horizon" irrompe con un riffing tempestoso, per cui mi sembra quasi di immaginare dei fulmini all'orizzonte di quel mare sopra descritto, mentre le arcigne vocals di Luke Stuchly calzano a pennello sulla matrice sonora dei nostri (ma in futuro mi aspetto evoluzioni sull'aspetto vocale dei nostri). L'atmosfera diviene più rarefatta e l'assenza di ossigeno intorpidisce la mia mente, ma niente paura perchè anche il sound degli Odetosun va via via ammorbidendosi lanciandosi in squarci di rock senza tempo: c'è chi cita i Pink Floyd, chi i Voivod o gli ultimi Opeth, io preferisco pensare che le splendide note che fuoriescono da 'The Dark Dunes of Titan' siano degli Odetosun e di nessun altro. Classe sopraffina lo confermo, soprattutto nella sei corde di Benny Stuchly e se "Remember Sequoia Forest" è un troppo breve interludio strumentale, alla fine mi abbandono alla conclusiva title track e ai suoi meravigliosi 15 minuti abbondanti di musica che mi catapultano nello spazio più profondo, in cui trovo modo di viaggiare ancor di più con la mia fantasia. È un mid tempo ragionato, in cui death metal (colpa del growling urlato di Luke), progressive e oscuro post metal (ricordate gli spagnoli Nahemah?) collidono come asteroidi sulla superficie di un pianeta, generando profondi canyon, montagne, laghi e valle, dando origine alla stupefacente armonia della natura. Altrettanto fa il terzetto teutonico, in grado di muoversi con agio attraverso fraseggi jazz, dilatazioni post apocalittiche, tastiere settantiane e assoli strepitosi, il tutto corredato da un'eccellente lavoro ritmico, con un plauso particolare infine alla batteria del bravissimo Gunther Rehmer. Il tutto mi induce all'oblio totale, una sensazione straordinaria per i miei sensi. Non saprei che altro dirvi per solleticare i vostri di sensi e indurvi all'ascolto (mandatorio) di questo sorprendente 'The Dark Dunes of Titan'. Per gli Odetosun garantisco io. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/odetosun

Obsidian Sea - Dreams, Illusions, Obsessions

#PER CHI AMA: Dark/Doom/Psych
La Bulgaria, Sofia di preciso, è la città natale degli Obsidian Sea, tre musicisti che si sono incontrati nel 2009 per dare vita ad un progetto interessante, ma soprattutto divenuto in poco tempo conosciuto e fondamentale per la scena doom/psych rock bulgara. La band ha lanciato il debut album nel 2012, lavoro che ha riscosso buoni feedback dalla critica, ma anche dai fan, locali e non (se non lo avete già fatto, trovate la recensione tra le pagine del blog). In poco tempo il trio ha calcato i palchi di importanti festival, trovandosi gomito a gomito con icone del calibro di Ufomammut, 1000Mods e tanti altri. Questo ha permesso alla band di maturare in fretta ed ora ci riprovano con 'Dreams, Illusions, Obsessions', album prodotto dall'instancabile Solitude Productions. Il doom degli Obsidian Sea è classico, quello degli Electric Wizard per capirci, quindi non preoccupatevi, non vi strapperete i capelli gridando al sacrilegio perchè una band doom ha osato contaminare il sacro genere. Ritmiche lente, chitarre con accordature che raggiungono le basse frequenze dell'inferno e quant'altro. In realtà la band non sfutta i classici muri di chitarre, ma preferisce riff e assoli più blues e psichedelici, lasciando più spazio agli altri strumenti e alla linea vocale. Le atmosfere sono oscure e richiamano antichi rituali, tra sabba ed evocazione di mostri provenienti da altre dimensioni. La scelta dei suoni e del mix è di tipo vintage, quindi suoni caldi e avvolgenti, pochi fronzoli e tanto groove. "The Trial of Herostratus" apre le danze con una middle tempo classica nella struttura e negli arrangiamenti, ma di cui si coglie subito la qualità e l'essenza della band bulgara. La voce è carica di riverbero come vuole lo stile, sembra quasi provenire dall'oltretomba pur regalando una piacevole atmosfera e lasciando comunque il cantato, di facile interpretazione, ad uno stile vintage. Nonostante la ritmica sia relativamente lenta, batterista e bassista si prodigano a intrecciare diverse trame arricchendo così la canzone e rendendone più gradevole l'ascolto. Il riffing poi non è cosi invasivo, ma si fonde perfettamente al resto degli strumenti e grazie a riff convincenti e diversi cambi di tempo e assoli, arriva a forgiare un brano ben fatto. Accelerazioni, rallentamenti e quant'altro dimostrano la capacità artistica e tecnica non trascurabile del trio di Sofia. "Confession" ci porta nelle profondità psichedeliche delle mente umana, dove sogno, illusioni e ossessioni attanagliano la mente umana incatenandola ad un livello di realtà che rende ciechi e ci allontana dalla verità assoluta. Nei sei minuti abbondanti, si assaporano con gusto tutte le sfumature provenienti dai vari strumenti e in un impianto hi-fi di buona fattura, è puro godimento per i timpani. La traccia si sviluppa in modo costante per tutta la durata e la band ha spazio a sufficienza per esprimersi al meglio, come il chitarrista che si lancia in assoli e riff davvero orecchiabili. Perfino il tanto bistrattato basso riesce ad avere il suo momento di gloria, anche se in effetti, fa un gran lavoro lungo l'intero album. La chiusura è in fade out, una scelta che non reputo quasi mai positiva perchè sembra dettata dalla pigrizia, ma conoscendo la band deduco che si tratti di un'opzione puramente stilistica. Altro pezzo degno di nota è "Somnambulism", oscuro e sensuale come un'ombra che danza scalza, alzando la polvere dal suolo e si mescola al sudore. Liquidi lisergici scorrono nelle vene e fumi densi offuscano la vista, ma aprono il terzo occhio che proietta sul vuoto infinito. La bravura degli Obsidian Sea sta proprio nel saper creare atmosfere che abbracciano l'ascoltatore disposto a socchiudere gli occhi e lasciarsi andare a stati mentali paralleli. Musica solida quella degli Obsidian Sea; se cercate un buon album ricco di doom e rock psichedelico, allora 'Dreams, Illusions, Obsessions' è ciò che fa per voi. Se invece cercate qualcosa di anche lontanamente originale e innovativo, volgete il vostro sguardo altrove. (Michele Montanari)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/ObsidianSeaDoom/