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martedì 10 novembre 2015

Giöbia – Magnifier

#PER CHI AMA: Acid Rock/Psych, Pink Floyd
I Giöbia tornano dopo l’eccellente 'Introducing Night Sound' del 2013, e lo fanno in grande stile, alzando ancora l’asticella di un suono che fa un ulteriore passo in avanti rispetto a quei modelli di psichedelia in qualche modo classica ai quali la band milanese ha sempre mostrato di ispirarsi. I Giöbia hanno ormai, a pieno titolo, assunto una statura internazionale testimoniata dall’appartenenza alla scuderia Sulatron e dall’attività live portata avanti con costanza fuori dai nostri confini. Eppure, se non odiassi il termine, potrei definire questo disco come un ottimo esempio di eccellenza italiana. Tutto qui dentro, dalla scrittura all’esecuzione, fino alla resa sonora, è di altissimo livello, dimostrando che anche in Italia si può fare del grandissimo rock e inorgogliendo tutti quelli che qui ci rimangono per scelta e lavorano con convinzione e serietà. Il rock dei Giöbia è un concentrato di psichedelia pe(n)sante, space e hard dalla densità altissima, che sposa in modo pressoché perfetto l’idea e la sua realizzazione pratica. In questo senso, quello prodotto da Stefano Bazu Basurto (voce, chitarre, ouz, bouzouki, santhur, synth), Saffo Fontana (organo, moog, voce), Paolo Dertji Basurto (basso) e Planetgong (batteria e percussioni) è un autentico gioiello. Non amo leggere recensioni track by track, per cui eviterò di scriverla, ma davvero ognuno di questi 7 brani andrebbe menzionato e commentato, dall'incedere ipnotico dell’iniziale “This World was Being Watched Closely”, allo stomp di “Devil’s Howl”, sferzato da un vento maligno di synth, dalla trascinante “The Pond”, col suo basso distorto, quella voce sinistra che fa tanto primo Roger Waters e la batteria che ti squassa il plesso solare, fino alla vertigine definitiva dei 15 minuti di “Sun Spectre”, una sorta di “One of These Days” sotto steroidi e proiettata nell'iperspazio. Per la riuscita di un disco di questo tipo, la resa sonora è parte essenziale, e il lavoro svolto da Andrea Cajelli alla Sauna di Varese è da valorizzare tanto quanto quello dei musicisti. Lasciatevi assorbire dal suono di questo disco fino a perdere ogni riferimento fisico attorno a voi e sorprendetevi a chiedervi se qualcuno vi abbia messo dell’acido nel caffè. 'Magnifier' rimanda l’immagine di una band proiettata in una dimensione davvero al di fuori dal tempo e dallo spazio. Miglior disco dell’anno? Fin’ora è tra i primissimi. (Mauro Catena)

(Sulatron Records - 2015)
Voto: 85

Temple of Baal – Mysterium

#PER CHI AMA: Black/Death
Continua la progressione artistica della talentuosa band francese capitanata dal funambolico Amduscias che sforna un album eccellente, rumoroso e magnetico. La Agonia Records accompagna i Temple of Baal in questa nuova uscita del 2015, puntando sicura sulla qualità della band, oggi più che mai collaudatissima e forte di una esperienza pluridecennale, motivata da un ottimo album precedente quale era stato 'Verses of Fire' nel 2013. Questa volta i Temple of Baal deliziano i miei timpani con ardore e una potenza inaudita che si espande a suon di watt per tutta la durata del disco, melodia e potenza a profusione, una qualità stilistica da urlo, chitarre lancinanti da amare alla follia e una batteria (Skvm) devastante, suonata al limite delle capacità umane, per violenza, potenza e velocità, una vera macchina da guerra. Non ci sono lacune, tutte le tracce si muovono sinistre e oscure, unendo black e death metal alla perfezione, sfiorando anche cadenze doom e ammiccando in alcuni momenti di delirio alle stupende atmosfere dei Deathspell Omega. La voce di Amduscias è mostruosa al punto giusto per esprimere la sua dichiarata ricerca filosofica satanista, e il sound la supporta pienamente per cui a volte mi sembra di sentire la forza granitica e frastornante degli ultimi Napalm Death, quelli spregiudicati e più rivolti all'avanguardia. Un album, 'Mysterium', ricco di atmosfere buie, tetre, sotterranee, ricco di fantasia e virtuosismi, sia nell'esecuzione che nel songwriting, sempre interessante, per niente banale o derivativo, una visione del genere personalissima e dalle evoluzioni spettacolari. La batteria mi percuote e le chitarre mi stregano, gli assoli lungo i vari brani impressionano per perizia tecnica, velocità, melodia, violenza e schizofrenia, tutte comunque unite da un comun denominatore, un suono vivo e naturale, comprensibile, nessuna traccia di freddi computer o percussioni patinate, ma un sound caldissimo e reale, in puro stile rock, sparato a mille nel giusto carisma del black metal old school. Inutile parlare di un brano in particolare poiché siamo di fronte ad un vero capolavoro, completo ed eccitante, che farà a lungo parlare di sé. Un monumento al black metal che innalza i Temple of Baal nell'olimpo del genere oscuro tra Deathspell Omega, Belphegor e 1349. Un invito a nozze per gli estimatori del genere. Un banchetto lugubre a cui non dover mancare. Un capolavoro! (Bob Stoner)

(Agonia Records - 2015)
Voto: 90

The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni 

Luca Turilli's Rhapsody - Prometheus, Symphonia Ignis Divina 
Trick or Treat - Rabbits' Hill 
Crimson Sun - Towards the Light

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Francesco Scarci 

Thy Catafalque - Sgùrr 
Windfaerer - Tenebrosum 
Dalla Nebbia - Felix Culpa

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Don Anelli 

Amidst the Withering - The Dying of the Light 
Satan - Atom by Atom 
Disloyal - Godless

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Mauro Catena 

Giöbia – Magnifier 
Dizraeli – Engurland 
Seargeant Thunderhoof – Ride of the Hoof 

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Samantha Pigozzo 

Die Apokalyptischen Reiter – Tief und Tiefer 
Eisbrecher – Die Hölle Muss Warten 
Lindemann – Skill in Pills

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Stefano Torregrossa 

James Blake - Overgrown 
Clutch - Psychic Warfare 
Goatsnake - Black Age Blues

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Michele Montanari 

Eagles of Death Metal - Zipper Down 
Infection Code - 00-15: l'Avanguardia Industriale 
Blood Diamond - Death Valley Blues

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Bob Stoner 

Killing Joke - Pylon 
Monster Magnet - Cobras and Fire the Mastermind Redux 
Ephel Duath - Hemmed By Light, Shaped By Darkness

domenica 8 novembre 2015

The Damned – Fiendish Shadows

#PER CHI AMA: British Gothic/Punk
Ecco la band che mi permette di fare un viaggio nel tempo! UK, anni '70, culla del punk. Non a caso, i The Damned assieme ai Sex Pistols e ai Clash formano il cosiddetto “sconsacrato triumvirato del punk britannico” (fonte: wikipedia), formatisi nel 1976, scioltisi poco dopo, riformatisi nuovamente con altri membri, insomma, una band viva e che continua a produrre musica anche dopo 40 anni. Mi trovo tra le mani l'album live 'Fiendish Shadows', uscito nel 1997 e da poco riproposto dalla Westworld Recordings. Dico live, anche se non è del tutto corretto, perché sembrerebbe più un album uscito da una jam session in un club piuttosto che su un palco davanti ad un'orda impazzita di persone. Posso azzardare a suddividere l'opera in tre parti: quella punk pura della metà anni '70, quella un po' più tendente al moderno, e quella un po' più rockabilly. La prima parte si può sentire in canzoni come “Stranger on the Town”, “There'll Come a Day”, “I Had too Much to Dream Last Night”, “Gun Fury, “Love Song”, “Disco Man” e “New Rose”, primo vero singolo datato 1976: non a caso, sono stati supporter dei Sex Pistols. Tutte queste sono in vero stile Oi! (per i profani street punk), sebbene uscite in diversi momenti della carriera della band. La parte più "moderna" si trova nelle note di “Grimly Fiendish, in “Is it a Dream” o anche in “Street of Dreams”: in tutte e tre le song, le tastiere sono ben presenti, i cori all'unisono, con un orecchio comunque orientato alle vecchie sonorità (ma il tutto mantenuto ad un livello più basso). In questo modo, si può addirittura carpire come le varie decadi abbiano modificato leggermente il sound dei The Damned. Addirittura in “Street of Dreams” ci si spinge alle porte del synyh-rock. Parlavo anche del rockabilly: è il caso di “Wait for the Blackout” e “Smash it up”. Nella prima il ritmo è leggero, e può essere tranquillamente ballato in un club mentre si canta; la seconda è malinconica all'inizio, ma poi si riprende e si carica, grazie anche all'incitazione del pubblico, ricordando fortemente i Clash. Degna di menzione è la chicca “Lust for Life”, si, esattamente la cover della canzone di Iggy Pop, suonata magistralmente a mio avviso, anche se la voce è molto differente, ma l'intonazione, la passione e la concentrazione messe al suo interno, non fanno rimpiangere di certo l'Iguana. Come tutte le belle avventure, anche questa ha una fine: è proprio a seguito di applausi e grida di approvazione, che la serata alternativa si chiude e dà appuntamento alla prossima band. (Samantha Pigozzo)

(Westworld Recordings - 2015/1997)
Voto: 80

https://www.facebook.com/pages/The-Damned/10644147851

Interview with Sergeant Thunderhoof

Follow this link for a nice chat with the English Stoner band of Sergeant Thunderhoof:



Dogbane - When Karma Comes Calling

#PER CHI AMA: Heavy/Doom
Superato il momento difficile in seguito alla scomparsa del chitarrista David Ellenbourgh (a cui è subentrato nel 2013 Jeff Rineheart), i Dogbane ritornano sulle scene con il loro secondo full length, 'When Karma Comes Calling' dedicato proprio alla memoria del loro scomparso amico. Gli statunitensi, attivi dal 2010, avevano precedentemente debuttato con l'album 'Residual Alcatraz' (2011). In questo nuovo lavoro, incontriamo le sonorità tipicamente heavy che si erano già palesate nel precedente album, facendosi qui ancora più aggressive e taglienti. Potenti riffoni di chitarra scanditi da un drumming impetuoso ma sempre precisissimo, come nell'opener “Warlord”, in cui si inserisce il graffiante cantato di Jeff Neal, che nei ritornelli viene spesso sostenuto da brevi cori. Non male il lavoro del vocalist anche se in alcuni momenti risulta forse un po' neutro: ci sarebbe bisogno di più aggressività (e magari di un aiutino da parte del mixaggio) per non perdersi nel muro di suoni generato dalle chitarre di Allred e Rinehaeart, che dicono la loro anche nei numerosi e assai pregevoli assoli disseminati in tutto l'album. Fra le poche pecche del disco vi è probabilmente quella della produzione, che seppur nel complesso garantisca un buon sound alla band, non fa risaltare al massimo la batteria, la quale appunto sembra essere un po' “piatta”, poco profonda. Discreto lavoro dunque per il gruppo americano, che come già assodato, presenta solide e potenti fondamenta, restando tuttavia sulla propria linea, senza apportare particolari innovazioni. Buona prova, ma nulla che esca dagli schemi ormai noti. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Heaven and Hell Records - 2015)
Voto: 65

https://www.facebook.com/Dogbane

Sunshadows - Red Herring

#PER CHI AMA: Alternative Electro Rock/Metal
Oggi parliamo dei Sunshadows, un trio francese (Lione) nato nel 2013 e al debutto con questo full length intitolato 'Red Herring'. Loro stessi dichiarano di ispirarsi a band quali Deftones, Limp Bizkit e Alice In Chains, e difatti le sonorità sono prettamente alternative rock/metal. Personalmente li associo a Lacuna Coil, Evanescence e Placebo, anche se la voce è maschile, per l'utilizzo più spinto di suoni elettronici, drum machine e affini. Se la tipologia dei suoni è abbastanza in linea con il genere, cosi come le distorsione moderne, quello che delude un po' in generale è la composizione dei brani e gli arrangiamenti. Tutto risulta assai lineare, prevedibile e asettico, con i brani che vanno sempre in una direzione scontata e l'ascoltatore non viene mai preso alla sprovvista. Gli arrangiamenti sono altalenanti, nel senso che in alcune canzoni sono curati, in altre si ha quasi la percezione che mancasse la musa ispiratrice all'atto della stesura. La copertina gioca invece sul senso del titolo dell'album, che tradotto letteralmente significa aringhe rosse (da qui il piatto con i quattro pesci in bella vista), ma allo stesso tempo in inglese è un modo comune per far riferimento ad una tattica di depistaggio che confonda l'interlocutore. Probabilmente la band ha voluto esprimere la propria diffidenza per i media che oggigiorno hanno spesso la funzione di confondere e depistare, invece che informare liberamente. Andando nel dettaglio, ascoltiamo "Fly Away", il brano che apre il cd e che quindi dovrebbe essere la canzone che meglio rappresenta la band. Nei suoi quattro minuti, il trio si focalizza nell'alternare strofa e ritornello, dove la prima risulta scarna per la mancanza di un tappeto sonoro che la sostenga. Un tappeto di synth o un sample in loop avrebbe sicuramente dato qualche possibilità alla traccia di avere dei connotati più personali. Il ritornello convince già di più, buona potenza e slancio, ma la canzone rimane comunque confinata in una ballad poco originale. "Two Lives" invece capovolge le carte in tavola: una buona dose elettronica e maggiore tiro, regalano infatti un brano di miglior fattura. Qui si nota un maggiore lavoro a livello di arrangiamenti, le seconde chitarre sostengono il brano e il costante crescendo porta all'esplosione di un riff coinvolgente. Il vocalist ha una timbrica pulita e, pur rimanendo all'interno di una estensione non particolarmente elevata, riesce comunque a coinvolgere e dare enfasi ai brani. "My Friend in Black" colpisce positivamente per l'appeal dark, con atmosfere e suoni ben calibrati che accompagnano in un ascolto facile e tutto sommato piacevole. Un coro lontano ed etereo riempie buona parte della traccia, le stesse chitarra entrano in punta di piedi per poi diventare lo strumento trainante. La sezione basso/batteria è lineare e si destreggia nel mantenere il giusto livello di tiro, anche se nell'intero album non ci troveremo mai esplosioni o voli pindarici che permettano di mettere il risalto le doti dei musicisti. La band ha buone potenzialità e dovrebbe cercare un proprio percorso, dopo questo album d'esordio che faccia l'occhiolino a produzioni commerciali, potrebbe essere il momento per mostrare maturità e creatività, magari rompendo gli schemi di un genere che rischia di implodere su se stesso. Ci sono davvero idee assai buone in 'Red Herring' che dovrebbero solamente essere messe in risalto e sviluppate: l'uso di sonorità elettronica è sicuramente una di queste, ma in generale le idee devono diventare un pilastro portante per guadagnare in credibilità e ottenere la fiducia degli ascoltatori. (Michele Montanari)

giovedì 5 novembre 2015

Gateway - S/t

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge, Disembowelment, Autopsy
"Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente". Ecco l'arrivo di Dante alle porte dell'Inferno, sulle rive dell'Acheronte, dove il Caron dimonio, traghettatore di anime, lo attende per condurlo al di là del fiume dei dannati. Se anche voi siete malati cerebralmente come il sottoscritto e almeno una volta nella vita avete immaginato quale fosse la colonna sonora perfetta per quell'evento descritto dal sommo poeta fiorentino nella celebre "Divina Commedia", eccovi accontentati. Gateway, one man band belga, ha concepito infatti la musica infernale che avrebbe potuto accompagnare il buon Dante e la sua guida Virgilio, nel loro viaggio verso l'Averno. L'oscurità regna sovrana nelle note di "Vox Occultus", brano di agghiacciante death doom catacombale sulla scia di Disembowelment e del putridume sonoro concepito da Autopsy e Mortician, tanto per citare un altro paio di nomi. Angoscia, terrore, depravazione, orrore e dolore, sono solo alcune delle emozioni che il malatissimo mastermind di Bruges, Robin Van Oyen, ha voluto rievocare nelle note del full length di debutto. L'album si muove mostruosamente tra un funeral doom perverso ("Impaled") e suoni melmosi tipici dello sludge più estremo, mantenendo come punto di contatto col death, le vocals gutturali di Robin, che sembrano provenire direttamente dall'oltretomba. È sfiancante l'ascolto di 'Gateway' perché non vi sarà dato modo di trovare un barlume di luce, poiché sarete inghiottiti in un vortice di follia che devasterà le vostre anime, per quell'enorme peso che graverà sul petto al termine dell'ascolto di questo mefitico lavoro. Accompagnatemi allora tra la schiera dei dannati ad assaporare le loro urla sofferenti, mentre in sottofondo dei maestosi riffoni scavano in profondità, scomodando mostri sacri come Celtic Frost o Black Sabbath. Dirigendosi pian piano verso le viscere della terra, il puzzo di zolfo aumenta a dismisura, la luce va accrescendosi, forse è solo la maggiore vicinanza alle fiamme dell'inferno, con le atmosfere che rimangono tuttavia lugubri e affannose. Le vocals in sottofondo sono demoniache, sicuramente appartengono ad uno dei demoni che popolano il mondo ultraterreno. In "Vile Temptress", facciamo l'incontro anche di una strega che abbatte su di noi una terribile maledizione con l'urlo “I am a witch, and I curse you!”. Il disco non è decisamente di facile ascolto ma posso ammettere che ne ho subito il suo fascino maledettamente malvagio. "Hollow" vive tra accelerazioni, gorgoglii rabbrividenti e blast beat, mentre con "The Shores of Daruk" si torna a sprofondare nella terra. Quest'ultima è forse la song che più ho apprezzato, quella più sludge oriented, ma in cui il comparto occulto del musicista belga emerge maggiormente. A differenza delle altre song, qui maggior spazio viene concesso alla melodia, ovvio non aspettatevi grandi cose, ma i synth di sottofondo creano quella giusta ambientazione per renderla davvero un'ottima song, capace di palesare anche una velata componente malinconica e scuotere ancor di più le vostre viscere già di per sé scombussolate, per quel suo moto impetuoso che caratterizza la seconda parte del brano. La release fisica del disco si chiude con una bonus track, "Portaclus", tre minuti e mezzo che condensano la funesta proposta sonora dei Gateway. Tormentati. (Francesco Scarci)

(Hellthrasher Productions - 2015)
Voto: 75