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martedì 14 aprile 2015

Invalids – Strengths

#PER CHI AMA: Math-rock, Emo, Tapping guitar
Pete Davis è forse un genio, più probabilmente un pazzo, di certo un musicista dal talento smisurato. Trent’anni, chimico nell’industria alimentare, fiero portatore di una barba folta e lunghissima, Pete Davis è quello che molti definirebbero un nerd senza speranza, avvitato nella sua passione per le strutture chimiche e lo studio virtuosistico della chitarra. Fosse tutto qui, non ci sarebbe null’altro da dire, se non che Davis ha anche una straordinaria creatività e una disarmante facilità nel produrre musica e canzoni degne di essere ascoltate e approfondite, se è vero che, ad oggi, ha pubblicato qualcosa come una quindicina di titoli (tra EP e album veri e propri) tutti ascrivibili interamente alla sua inesauribile vena creativa. Al momento sono tre le incarnazioni della sua espressione artistica, tre “progetti”, per dirla con un termine che oggi va per la maggiore: c’è il Pete Davis cantautore, ci sono i Surface Area e gli Invalids, sua più recente creatura e quella che lo ha portato maggiormente alla ribalta negli ultimi tempi, da quando cioè, nel 2012, è uscito il folgorante esordio 'Eunoia'. Strana, stranissima formazione, quella degli Invalids, potendo contare sul solo Davis alle chitarre e drum programming e Nick Shaw al basso. La stranezza sta nel fatto che Davis e Shaw non si sono mai incontrati di persona durante la lavorazione dell’album (e mi risulta che nemmeno oggi, quattro anni e due dischi dopo, ciò sia ancora avvenuto), ma si sono scambiati i file audio e le (complicatissime) partiture via e-mail, e ditemi voi se questa non è una cosa da nerd allo stadio terminale. Eppure, la cosa incredibile e, in fondo, la sola cosa importante è che la formula funziona e che si rimane sbalorditi di fronte a questo intricatissimo math-rock ipercinetico con forti componenti emo (soprattutto nel cantato di Davis). A lasciare a bocca aperta è prima di tutto la strabiliante tecnica chitarristica sviluppata da Davis, un tapping estremo e incessante, mutuato da band quali Maps & Atlases e TTNG e qui portato all’estremo. Non deve però passare in secondo piano l’ispirazione di Davis come songwriter, in grado di realizzare canzoni accattivanti e spesso memorabili, pur se decisamente complesse tanto nella struttura musicale quanto nei testi chilometrici. 'Eunoia' raccoglie tali e tanti consensi che è naturale pensare ad un seguito. A ottobre 2014 vede quindi la luce 'Strengths'. La formula non è cambiata, anche qui ci sono 10 brani lunghi e complessi, ognuno dei quali contiene (o almeno potrebbe contenere spunti per) almeno altre tre canzoni. Le acrobazie della sei corde sono sempre strabilianti (e lo sono anche quelle del basso, abile a seguire il leader nelle sue peripezie), anche se cercano meno il colpo ad effetto. Rispetto ad 'Eunoia' però, 'Strengths' appare più maturo e capace di rallentare, laddove l’esordio aveva il pedale dell’acceleratore costantemente tenuto a tavoletta. In definitiva un disco forse meno impressionante ma più compiuto. Non mancano i brani in cui il virtuosismo sfiora vette parossisitiche ("Sherwood is Connector", "The Horse Raced Hardest Lost") ma ci sono anche momenti più pacificati, come "Satellite", "Ironic Dysphemism", "Halo Brace" e anche canzoni che sarebbe perfino possibile canticchiare sotto la doccia (l’accattivante "Tiny Coffins"). In generale i brani hanno un respiro maggiore e si registra un interessante lavoro sulle armonizzazioni delle voci, che se da una parte va a discapito dell’immediatezza, dall’altro aggiunge fascino e profondità, anche grazie al timbro di Davis, simile in qualche modo a quello di Peter Gabriel. Che dire, un album e un artista che per sua natura può attrarre o repellere con la stessa intensità, ma che, a mio avviso, riesce ancora a rimanere un passo al di qua della linea di demarcazione con il virtuosismo sterile e autocompiaciuto. Visto che i risultati finora gli hanno dato ragione, Davis continua nella sua opera di divulgazione social, rendendo disponibili versioni strumentali di tutti i brani e perfino i tab per chi volesse provare a impararsi le parti di chitarra. Qualcuno (evidentemente dotato di talento e pazienza) l’ha fatto, ma solo per la batteria, tanto che pare che quest’estate vedremo all'opera una versione live degli Invalids. Non so cosa darei per poter assistere a un loro show, anche solo per puro spirito voyeuristico... (Mauro Catena)

(Friend of Mine Records- 2014)
Voto: 80

Macabre Omen - Gods of War - At War

#PER CHI AMA: Epic Black, Bathory, Rotting Christ 
La Vàn Records è una signora etichetta: a partire infatti dalla scelta oculata delle band appartenenti al proprio rooster, per arrivare agli artwork curatissimi delle sue release, che da soli valgono il prezzo del cd, la label tedesca si conferma ad altissimi livelli. Se poi con gli eroi di quest'oggi mi ritrovo anche ad andare indietro nel tempo di quasi vent'anni, godo ancora di più. Si perché 20 anni fa, quando il movimento black greco stava esplodendo (Rotting Christ, Septic Flesh, Necromantia e Varathron, tanto per fare qualche nome), io andavo in cerca di una tape dei qui presenti Macabre Omen, band dedita ad un black pagano di qualità sopraffina. Il suono del mare apre 'Gods of War - At War', comeback discografico che giunge a distanza di ben 10 lunghissimi anni da quel 'The Ancient Returns', ormai datato 2005. Ecco tornare quindi il buon Alexandros di Rodi, che per lungo tempo ha tenuto da solo le redini dell'act ellenico. Il disco si apre con "I See, the Sea!" che fondamentalmente conferma quanto avevo captato 20 anni fa, i Macabre Omen sono una mitica creatura musicale che mantiene intatto quel fiero spirito di cui le band greche erano e restano portatrici, come nessun altro al mondo. Il tutto si evince solamente dall'ascolto della epica opening track che si muove sul sentiero di un black heavy di matrice scandinava, con i Bathory più solenni in testa. La title track ci riserva quasi nove minuti di rasoiate feroci, in cui è comunque una certa magniloquenza di fondo a stagliarsi come vera protagonista di questa release. Poco importa se le ferite inferte da una ritmica feroce sembra la facciano da padrone o i vocalizzi, spesso di scuola burzumiana, possano ancora farvi storcere il naso. La musica dei Macabre Omen ha un che di mistico, fascinoso e antico, in grado di riportare in voga la gloria e i fasti di una civiltà fondamentale per l'intero pianeta. I Macabre Omen sono tornati per prendere in mano quello scettro lasciato da Quorthon quando ha abbandonato questo mondo, loro ne sono gli eredi indiscussi. Un delicato arpeggio ci introduce a "Man of 300 Voices" e inevitabile il pensiero va a Leonida, ai suoi 300 soldati e alle gesta eroiche della Battaglia delle Termopili. Un brivido percorre le mie braccia ripensando a quel celebre episodio della storia e i suoni mediterranei dell'ensemble di Rodi (ora trasferitosi a Londra) ne decantano il mito in un mid-tempo trionfale, a tratti furioso. Emblematico invece il titolo della successiva traccia, "Hellenes Do Not Fight Like Heroes, Heroes Fight Like Hellenes", a testimoniare quell'orgoglio che andavo citando all'inizio; musicalmente la song si avvicina a un mix tra Bathory, Master's Hammer e Rotting Christ, con le vocals del frontman che prendono finalmente le distanze dal Conte e si muovono tra chorus orchestrali, parlati, puliti e "incazzati". "From Son to Father" ripercorre al contrario il sentiero tracciato da Quorthon in 'Hammerheart', ossia la mitica "Father to Son" e analogamente la song dei Macabre Omen mantiene intatto quell'eroico feeling che scosse la mia anima ormai 25 anni or sono. L'orgoglio per l'isola di Rodi viene scosso dalle scorribande sonore di "Rhodian Pride, Lindian Might", song battagliera, che palesa ancora una volta l'amore di Alexandros per la propria terra, che si materializza in un burrascoso sound epic black death. A chiudere questo brillante nuovo capitolo dei Macabre Omen, ci pensano le Odi A e B di Alexandros, che si aprono con altri arpeggi che chiamano in causa questa volta 'Twilight of the Gods', mentre nel cuore dei due brani, si arrivano a scomodare addirittura Primordial e Candlemass. Che altro dire, se non sperare fortemente che non servano altri dieci anni per sentir parlare nuovamente dei Macabre Omen, proprio ora che il pubblico e la stampa, li ha insigniti come veri degni eredi dei Bathory. (Francesco Scarci)

(Vàn Records - 2015)
Voto: 85

lunedì 13 aprile 2015

Selva – Life Habitual

#PER CHI AMA: Post Black/Punk, Sjenovik, Mollusk, RFT
Ascoltando questo cd mi sono chiesto mille volte quale sia il trait d'union che collega il sound dei Dag Nasty con l'emotività estrema dei Taste the Void e le visioni alternative dei My Head for a Goldfish senza trovare risposta, soprattutto se il tutto è suonato con il fervore ed il malessere tipico di band come RFT in materia hardcore e Sjenovik nel post black. La Argonauta Records li presenta con un assurdo accostamento con gli Alcest e i Russian Circle che proprio non si addice. La giovane band italiana mostra radici nel post core più teso e nella scuola apocalittica dei Neurosis anche se sotto un certo profilo, il modo raffinato di intendere la musica estrema li avvicina di più al versante underground di Osoka e Mollusk, con quel chitarrismo di ampio respiro che rende il tutto molto accessibile all'ascolto, mantenendo sempre e comunque una marcata oscurità e drammaticità nel suono. L'urgenza nevrotica dei pezzi e quelle aperture melodiche e rumorose alla vecchia maniera degli Husker Du li rende ancora più interessanti e originali, diversi e personali. La loro musica logora con effetto benevolo, non è tutta depressione e oscurità, ci sono momenti di distensione che aprono al rock in grande stile che donano grazia e dinamicità ai brani tanto che i primi venti minuti scivolano via velocissimi senza neppure accorgersene. Piacciono anche i momenti più trasversali e sperimentali come il minuto e mezzo di "[ / ]" che rende benissimo l'idea di alienazione seguita da una onnipotente e lunga traccia, "ɛgzɪstəns" che sputa in faccia una voglia di rivalsa spettacolare, violenta e ricoperta di ombre. Anche l'infinita traccia acustica conclusiva, "glomɪŋ" ha un fascino ancestrale mentre l'artwork di 'Life Habitual' (nonostante i titoli volutamente illeggibili) rende bene l'idea di cosa voglia trasmettere la band. Il senso di instabilità emotiva che la musica dei Selva riesce a trasmettere è stupendo. Sempre sull'orlo del precipizio, sul confine della resa e all'inizio della rivolta, un continuo sali e scendi sulle scale che dall'inferno portano al paradiso. Un grido di dolore obbligato per una guarigione da raggiungere. Una Selva densa e oscura da attraversare per arrivare alla luce di cui 'Life Habitual' ne rappresenta la colonna sonora ideale. Album da avere a tutti i costi! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2014)
Voto: 85

Bleeding Eyes - Gammy

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge
L'anno scorso ho avuto per le mani 'A Trip to the Closest Universe', il precedente album dei Bleeding Eyes (BE) e fui piacevolmente folgorato dal sound della band montebellunese. Se non conoscete la loro storia andate a (ri)leggervi la precedente recensione, anche perché avendola scritta io, rischierei di diventare ripetitivo (l'età e i troppi decibel logorano). Quello che salta subito all'orecchio è l'ennesimo passo in avanti qualitativo fatto dalla band, rimanendo comunque fedeli alla loro identità originaria. L'attuale line-up prevede sei elementi, tra cui anche una figura puramente dedita all'effettistica, a conferma che i BE non vogliono relegare questa sezione solo allo studio, ma portarla anche in sede live. L'album apre con "La Chiave", intro dal timbro riconducibile ai A Perfect Circle/Tool che in tre minuti abbondanti di sludge/post rock strumentale utilizza ritmica lenta e arpeggi suadenti per trasmette tutta l'emotività di cui la band è dotata. "Amaro Tez" ci riporta allo stile inconfondibile dei BE, dove il cantato in italiano è un proclama urlato e bestemmiato per redimere le povere anime che hanno perso la retta via. Chitarre massicce, lente e profonde che conducono insieme a basso e batteria un brano sludge/doom di oltre cinque minuti di durata. Un inno spontaneo e verace rivolto alla falsità che ci circonda, costruito su più livelli che sommati assieme producono una notevole onda d'urto sonora. Il brano non fa gridare al miracolo, ma si fa ascoltare, stuzzica l'appetito pensando a quello che ci aspetta dopo. Tocca a "Full Fledged", brano dalla musicalità più morbida e sommessa, dove le chitarre prendono la via del post rock e danno vita ad un brano onirico e itinerante. Gli arrangiamenti sono ben fatti e la mancanza del cantato o parlato danno più respiro agli strumenti che vanno a riempire gli spazi in maniera impeccabile. L'album chiude con l'omonimo brano proposto nell'extended version, ovvero circa dieci minuti abbondanti dove i BE danno sfogo ai loro scheletri nell'armadio. Gli arrangiamenti e i riff diventano morbosi e lenti, una versione sludge di "Dopesmokers" degli Sleep, con suoni vorticosi di synth analogici e i consueti proclami urlati a pieni polmoni. In realtà il brano vero e proprio dura quasi la metà mentre i rimanenti minuti sono suoni cacofonici, noise, feedback e tutto quello che può disturbare una mente sana e allietare un'anima malata. Opera monumentale, sicuramente dall'impatto devastante in live. 'Gammy' segna l'ennesima evoluzione di una band che ha già raggiunto diverse tappe importanti nel corso della propria carriera, ma che avrà ancora parecchie soddisfazioni da togliersi nel prossimo futuro. Un album da avere e soprattutto da gustare dal vivo appena possibile. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2014)
Voto: 75

NevBorn - Five Horizons

#PER CHI AMA: Sonorità Post, Cult of Luna, The Ocean
Della serie piccoli Cult of Luna crescono, ecco arrivare dalla Svizzera i NevBorn, con quello che dovrebbe essere il loro debut album, nonostante la fondazione del five-piece elvetico risalga addirittura al 2008. I nostri ce ne hanno messo di tempo per dare la luce alla loro creatura, grazie al supporto dell'etichetta indipendente Hummus Records, che si sta confermando, release dopo release, ad alti livelli nella scena post/drone. E allora diamo pure un ascolto a 'Five Horizons' e alle sue cristalline melodie abrasive che combinano sonorità post (hardcore, metal e rock) di ottima fattura. Echi dei gods svedesi si colgono in quel senso di profonda desolazione che si percepisce come background musicale nell'intera release. Poi le atmosfere si esibiscono multiformi già dall'iniziale "From the Edge of the Universe", in cui l'anima inquieta dei nostri, si svela tra tratti rabbiosi e altri più delicati, con tanto di chitarre acustiche ambientali, e con la voce che accompagna il tutto, in una alternanza di growling e cantato pulito, per un risultato davvero niente male. Non solo Cult of Luna nelle note dei nostri, anche i The Ocean, nella loro vena più grooveggiante, emergono potenti nelle linee melodiche del combo di Neuchâtel. E per coloro che pensano già che questa sia l'ennesima release fotocopia delle grandi band, si sbaglia di grosso perché l'ensemble svizzero di personalità ne ha da vendere, e tutto ciò che emerge dalle note di 'Five Horizons' può dirsi buono, più che buono. E allora scopro la furiosa "For Seven Days", song dal chiaro rimando post-hardcore; non temete perché la cattiveria dei nostri viene mitigata dalla leggiadria di atmosfere oniriche che spezzano il ritmo impetuoso già a metà brano e ci conducono con indomita indulgenza fino al termine della traccia, in un mulinello emozionale da tenere a mente per lungo tempo. La title track è un altro dei pezzi forti dell'album, pura energia dai risvolti tenui e malinconici, in cui a mettersi in mostra è l'eccelso lavoro a livello delle chitarre. I brani viaggiano tutti su durate importanti, oltre i sette minuti: "Between the Skies" è uno di quei pezzi che parte in sordina ma poi esplode rabbioso più che mai con una notevole profondità ritmica e ottime soluzioni vocali per quanto riguarda la timbrica growl (le clean vocals sono da rivedere, un po' fuori contesto). Un breve intermezzo, e poi l'epilogo è affidato a "Ozymandias", song che corrobora le mie parole fin qui spese per questa validissima realtà svizzera con una impagabile alternanza di chiaroscuri musicali. Un paio di aggiustamenti, soprattutto a livello vocale, e i nostri potrebbero mirare allo scettro delle migliori band post metal a livello mondiale. Un debutto col botto! (Francesco Scarci)

(Hummus Records - 2015)
Voto: 80

venerdì 10 aprile 2015

Cuckoo's Nest - Everything is not as It Was Yesterday

#PER CHI AMA: Depressive Black/Post Rock, Shining, Addaura, Alda
Il monicker "il nido del cuculo" è davvero geniale in quanto mi rimanda al bellissimo film 'Qualcuno volò sul nido del cuculo' dove uno psicotico Jack Nicholson si ritrova rinchiuso in un ospedale psichiatrico per essere "vagliato" dal lato comportamentale. E oggi rievocando proprio quel film, ecco trovarmi tra le mani l'ennesima scoperta della label cinese Pest Productions, gli ucraini Cuckoo's Nest. La band originaria di Mykolaiv, al secondo lavoro, va ampliando i propri orizzonti sonori già calcati nel precedente 'Dark Shades of Lunacy', ossia quella sorta di ibrido depressive black/post-rock che tanti proseliti sta raccogliendo negli ultimi tempi. Otto le tracce incluse tra cui una cover degli Austere, di cui sinceramente avrei fatto a meno. Le rimanenti sette, oltre alla classica minimalista intro, si snodano tra le melodie desolanti della lunga "Full of Dark Shades", che tra urla "burzumiane" e oniriche ambientazioni, giunge ad un quanto mai inatteso finale elettronico che prelude a "Feel of Desolation Will Always Chase Me... (part II)", interludio di pink floydiana memoria che ci prepara a "So Close, Too Far Away...". Altri nove minuti, in cui il quartetto ucraino si libera dell'influsso malefico del Conte Grisnack e abbraccia influenze più marcatamente post-qualcosa, mantenendo intatto il legame con il black solo a livello vocale, complice il ferale screaming di Oleg "Satana" Maliy e in qualche rara sfuriata chitarristica (ben 3 le chitarre presenti su questo lavoro). La musica invece viaggia sui binari di un suggestivo sound che dischiude le ottime potenzialità del combo ucraino. Celestiali, sognanti ed esplosivi, i Cuckoo's Nest mi rapiscono con la loro proposta ipnotica, selvaggia ma mansueta allo stesso tempo. I tredici minuti della title track e della successiva "World of Empty Hopes" confermano questo trend, in un sound che magari tende a dilungarsi un po' troppo in impalpabili tensioni emotive, ma che comunque rivela l'estro e la spiccata personalità di una band che è già pronta per il grande salto. Ovviamente ci sono ancora alcune spigolature da smussare, come certi break ambient troppo prolissi e ripetitivi o ancora certe sbavature a livello tecnico. "And End... (in memory of Roman Lomovskiy)" è una traccia strumentale, che tributa il giovane musicista russo morto suicida il 1° giugno del 2013, in una song dai vellutati richiami shoegaze. Chiude infine la già citata cover degli australiani Austere, in una traccia all'insegna del suicidal black metal, che poteva essere omessa in un album già di per sé di lunga durata e dai ricchi contenuti. Alla fine 'Everything is Not as It Was Yesterday' mette in mostra la classe, seppur ancora non del tutto sbocciata, di un quartetto intrigante e da tenere sotto stretta sorveglianza. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 75

giovedì 9 aprile 2015

New Disorder - Straight to the Pain

#PER CHI AMA: Alternative, System of  a Down
Oops, è successo di nuovo, per fortuna. Non quello che cantava Britney Spears qualche lustro fa, ma di infilare un cd nel lettore e perdersi nel vortice della musica di una band che non conoscevo. I New Disorder sono di Roma, nascono nel 2009, e vantano tra le loro fila musicista di ottimo calibro e attivi da anni nella scena capitolina. Dopo due album, escono con 'Straight to the Pain' , un lavoro pensato, eseguito e registrato con cura quasi maniacale da una band che dimostra buone capacità e anche un pizzico di estrosità, che non guasta mai. Il genere è un alternative metal cantato in inglese, dove si percepiscono alcune influenze chiare, ma i nostri sparigliano le carte spesso e volentieri riuscendo a dare un tocco di personalità. Il livello tecnico è alto, la sezione ritmica spinge bene e sostiene melodie ed arrangiamenti con convinzione, mentre le chitarre si dilettano in riff potenti e assoli al fulmicotone. Ascoltando attentamente il vocalist si nota una complessità non comune, inoltre il supporto del bassista rende ancora più vari gli arrangiamenti vocali. "Never Too Late to Die" è una cavalcata veloce e possente, fatta di riff classic metal, ma dai suoni decisamente più moderni. La struttura cambia di continuo e si stacca dal solito cliché strofa-ritornello, mentre il vocalist punta su un cantato dalla timbrica simile a Brian Molko (ma anche ai System of a Down/nd Franz), il che rende il brano ancora più interessante e godibile. Un breve stacco a metà ci concede il tempo di riordinare le idee, ma subito riparte e si viene travolti da una valanga sonora precisa e senza sbavature. Poi tocca al brano che regala il nome all'album e qua i New Disorder diventano più oscuri, con una strofa sostenuta da basso, batteria e voce che passa da un simil growl al tono fin qui ascoltato. In aggiunta troviamo anche una seconda voce femminile dal registro alto, che non risulta ben amalgamata con il resto. Probabilmente la voglia di abbellire il brano ha superato di poco il limite dell'eccessivo e se speravamo in un pezzo inquieto e oscuro, dobbiamo rimandare. "The Beholder" è a mio avviso la main track dell'album, il brano più completo in assoluto. Il brano, il più lungo del cd, racchiude l'essenza dei New Disorder, metallari duri e implacabili, ma dal cuore d'oro che riescono a tirare fuori anche delle ballate emozionanti (ascoltatevi "Lost in London" e "The Perfect Time"). Dopo un breve arpeggio pulito di chitarra, la band torna a scaricare la sua potenza fatta di riff chirurgici optando per una velocità di esecuzione altalenante. Si passa dalla quiete iniziale alla tempesta che si scatena nella seconda parte della canzone, sempre con arrangiamenti convincenti e ben eseguiti. Concludendo ci troviamo di fronte ad una band che merita i successi raccolti fino ad'ora e a cui auguriamo lunga vita, anche perché mi aspetto un'ulteriore evoluzione nel prossimo album. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2015)
Voto: 75

Dö - Den

#PER CHI AMA: Death/Doom/Stoner, primi Cathedral
Il sottobosco metallico è cosi ricco di preziose primizie che potrebbe sfamare ogni tipo di appetito. Oggi nella fitta coltre boschiva incontro i Dö, improbabile (ma solo per il nome ovviamente) band finlandese dedita a un lacerante death stoner doom che con questo 4-track, dall'altrettanto breve titolo 'Den', ci regala un'intrigante miscela musicale. Si parte dai sette minuti di "For the Worms", in cui gli ingredienti chiave per definire il genere proposto ci sono tutti: chitarrone belle pesanti e ossessive, vocalizzi growl, ma anche qualche trovata niente male che forse andrebbe meglio sviluppata. Partiamo da una buona sezione solista che dona una dinamicità affatto malvagia alla traccia grazie a splendide melodie dal piglio southern rock, ma anche un'appena accennato arpeggio che poteva e doveva essere maggiormente esplorato, peccato. "Frostbites" ringhia che è un piacere con le sue graffianti chitarre, che si posizionano su un doomeggiante mid-tempo non troppo memorabile ma di sicuro impatto che trova il suo punto di forza in un malsano break centrale in cui finalmente decolla la porzione solista del trio di Helsinki che gioca tra wah e delay ipnotici; anche in questo caso il risultato appare come privato della sua logica esplosione musicale e questo, a discapito del risultato finale. Un bel basso apre "Hex", traccia dal magmatico sapore sludge che si mostra essere come il pezzo più coinvolgente del dischetto, anche per la presenza di vocalizzi puliti e una linea di basso che sembra provenire dall'immortale 'Heaven and Hell' dei Black Sabbath, mentre la 6-corde sul finire del pezzo, si diletta in ottimi ma piuttosto brevi giri caleidoscopici. "The Moon Follows Us" chiude il platter, un EP di quattro pezzi che raggiunge i 28 minuti. Il sound non si discosta poi di molto dalle precedenti e come le precedenti mostra luci ed ombre: un interessante uso delle chitarre ritmiche che andava meglio strutturato, le vocals non sono affatto male e i solos si rivelano ancora piuttosto brevi. 'Den' è un punto di inizio che necessita di ulteriori aggiustamenti per il futuro, ma che lascia presagire comunque una più che discreta vena di personalità di questi misteriosi Dö. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70