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mercoledì 25 gennaio 2017

Olÿphant - Expedition to the Barrier Peaks

#FOR FANS OF: Heavy/Speed Metal, Judas Priest, The Sword
Formed in 2009, Massachusetts metallers Olÿphant were originally conceived as a classic metal cover band before quickly moving on to writing original music that brings a classic metal with doom and stoner influences to prog and thrash elements alongside. Basically dripping with sprawling, mid-tempo dirges, the album’s main focus becomes quite clear early on with the ability to effortlessly shift from these wide-ranging elements as there’s a strong showing of spindly, galloping heavy metal, swirling stoner riff-work and plodding, oppressive doom rhythms that all come together here. This wide-ranging set of influences creates a wide-ranging sense of free-flowing and unpredictable work, never really journeying through the expected realms of the genres in order to continually warp themselves into a finely-tuned effort that’s quite enjoyable when it drops these vastly-varying elements into the journey without warning. At times, though, that does the album a slight disservice as this rarely manages to feel like it shifts all that cohesively, being essentially a wide-ranging hodgepodge of influential elements coming together to create a seemingly jarring and discordant array of tracks without a singular connecting vibe between any of it, and is an issue to contend with as the band carries on. Efforts like ‘Brown Jenkin,’ ‘Incidents in the Butterfly Garden’ and ‘The Expedition’ offer up the most nominal and enjoyable variations of the style, featuring these elements coming together into a stylistic whole to be the highlight tracks on the album. The multi-faceted ‘The Grey Havens (To the Sea)’ offers a fine look at these elements shifting continuously throughout it’s epic passages that makes for quite a winding journey, while ‘Before the Fall’ abandons the vast majority of what came before in order to turn into a raging speed-metal mosher. Still, this isn’t that problematic of an effort and still has a lot to like. (Don Anelli)

lunedì 23 gennaio 2017

Derhead - Via

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Sebbene 'Via' sia nelle mie mani da soli pochi giorni, ci tenevo a recensirlo con una certa celerità. Il disco della one man band genovese include nove tracce, di cui sei appartenenti a due vecchi demo (di cui uno addirittura del 2003 e il più recente del 2013) e tre nuovi pezzi. Si apre ovviamente con la più recente produzione: "Cenere", "Piombo" e la title track che, nere come la pece, si abbattono sulle nostre teste con sonorità distorte, allucinate ma di sicuro fascino, poggiando su ritmiche forsennate di scuola post black cascadiana, che chiamano in causa i maestri del genere, su tutti i Wolves in the Throne Room. Il mastermind ligure picchia di gusto, ma è probabilmente nelle parti più rallentate e controverse che dà il meglio di sé. "Piombo" è una song di sicuro impatto, che scomoda ben più facili paragoni con la tempesta cervellotica dei Deathspell Omega o con le atmosfere più ipnotiche dei Blut Aus Nord. Non male a tal proposito un break stralunato che impera a metà brano, e che ha il merito di generare una certa sensazione di soffocamento, per poi lasciar modo ad un sound più arrembante, di incalzarci fino al termine della seconda traccia con fare angosciante. "Via", la title track, prosegue su quest'onda anomala di suoni belligeranti, fatti di vocals arcigne e ritmiche infauste, che ci conducono fino alle tre successive tracce, incluse originariamente nel Demo 2013. La differenza sostanziale che colgo con l'ultima produzione dell'artista ligure è sicuramente relativa a brani più corti (con durate che sono circa la metà delle nuove track), ove inalterate rimangono comunque le pulsioni nevrotiche del musicista italico che in "Lamina" dà addirittura maggior spazio alla componente atmosferica, anche se in questo caso non ho apprezzato invece il suono troppo innaturale della drum machine. "Circle" ha un incipit più tranquillo, prima di concedersi alle consuete mitragliate inferte dal suono infernale di ultra blast beat; qui segnalerei il mood malinconico delle chitarre che viene riproposto anche nella successiva demoniaca "End". Sembra un viaggio all'Inferno quello che in cui ci accompagna il buon Giorgio Barroccu, in una song spiritata che trae linfa vitale dalla produzione dei primi Aborym ma anche da qualcosina dei Cradle of Filth, soprattutto nel modo di cantare del frontman. Nel frattempo ci si avvia verso la musica più datata della band e le differenze si fanno più sostanziali, forse perché nel 2003 il concetto di post black non era ancora stato completamente sviscerato. A parte un sound più ovattato ed una registrazione decisamente più casalinga, nel flusso sonico primordiale dei Derhead compaiono influenze più death oriented che nelle ultime tracce erano rimaste parzialmente celate. Non mancano comunque le sfuriate sinistre, complici probabilmente l'utilizzo di keys che sembrano evocare lo spirito dei Nocturnus di 'Thresholds', in una matrice sempre oscura ed insana, che trova modo in "II" di svelare anche un lato barocco del bravo Giorgio, che già nel 2003, poteva vantare di proporre musica estrema d'avanguardia. (Francesco Scarci)

(Via Nocturna - 2016)
Voto: 70

https://derhead.bandcamp.com/album/via

Transilvanian Beat Club - Willkommen Im Club

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death Rock
Facciamo un salto indietro nel passato per conoscere un act ormai sciolto, non proprio fortunatissimo e brillantissimo. Sto parlando dei Transilvanian Beat Club che nel 2006 proposero il loro debut album, 11 tracce di un death rock influenzato da sonorità gotiche, dark e doom, interamente cantato in tedesco, lingua che notoriamente faccio fatica a digerire in ambito musicale. Comunque sia, la band tedesca, che includeva membri di Eisregen e Ewigheim, nonché come guest star Martin Schirenc dei Pungent Stench, propina uno strano mix di suoni: un gothic-black sporcato da sonorità rock punk e musiche da B-movie horror, su cui fanno capolino female vocals e un sax (credo, ma non ne sono certo), che richiama parecchio i suoni degli ungheresi Sear Bliss. Per il resto, se potessi azzardare un paragone un po’ folle, mi verrebbe da dire che il disco è un po’ come se i Motorhead suonassero brani dei Rammstein, quindi in modo grezzo e privo ma dotato di quella pomposità che contraddistingue la band tedesca. Se il lavoro fosse stato curato maggiormente, soprattutto a livello di suoni, di sicuro avrebbe ottenuto un riscontro più positivo da parte del sottoscritto. Da segnalare infine, che l’ultima traccia dell’album è la cover “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone, forse il pezzo più interessante di questo 'Willkommen Im Club'. A meno che non siate dei grandissimi fan degli Eisregen, ne farei a meno. (Francesco Scarci)

(Massacre Records - 2006)
Voto: 50

http://www.transilvanian-beat-club.com/

domenica 22 gennaio 2017

Countless Skies - New Dawn

#PER CHI AMA: Melo Death/Doom, Insomnium, Be'lakor
Quelle volte in cui parto ad ascoltare un disco con le aspettative sotto soglia, sono quelle volte in cui in realtà vengo conquistato maggiormente dalla proposta di una band. Ho ricevuto questo cd con una descrizione un po' sotto tono per la band inglese e quindi potete immaginare il mio scarso entusiasmo nel dover recensire il lavoro. E invece, dopo aver infilato il cd nel lettore ed averlo ascoltato uno, due e tre volte, mi sono lasciato travolgere dal sound fresco di questi Countless Skies (moniker che deriva da una song degli australiani Be'lakor) e del loro debutto 'New Dawn', edito dalla nostrana Kolony Records. Otto tracce che, a parte l'intro strumentale, irrompono con "Heroes" e le sue melodie tipicamente scandinave (penso ai Dark Tranquillity o agli Insomnium quali primi nomi) ma che strizzano l'occhiolino anche all'ensemble da cui traggono il loro nome. I nostri corrono via veloci con brani che si susseguono tra cavalcate melodiche, pregne di una certa emotività, cori azzeccatissimi, growling vocals e tutta una serie di ingredienti che possono dar modo a 'New Dawn' di essere un album vincente. Buoni anche per quel che concerne il songwriting, gli inglesi si confermano addirittura entusiasmanti in "Solace", traccia assai ritmata ma dal forte mood malinconico, impreziosita da una chiusura assai doomish. Si torna a correre con "Daybreak", song spiritata, carica di groove e con il vocalist che si lancia in urla che ecco, non appartengono proprio a questo genere, e su cui si può anche sorvolare. Con "Wanderer" i quattro britannici scomodano gli Swallow the Sun, con un sound robusto, intimista e malinconico al punto giusto, per un risultato conclusivo di sicuro accattivante, che rapisce in intensità, melodia, atmosfere e gusto estetico in generale, soprattutto a livello chitarristico, dove la band si diletta con tagli acustici ma anche con ottimi assoli. Chiusura per l'orientaleggiante "Return", dieci minuti di sonorità ben calibrate che confermano la solidità di un ensemble di cui sentiremo a lungo parlare in un futuro non troppo lontano. (Francesco Scarci)

James Murray - Eyes to the Height

#PER CHI AMA: Ambient, Minimal, Soundtrack
Nella musica di James Murray ci si può perdere con leggerezza, con quel sentore settembrino appena fresco ed intenso, immergersi in colori autunnali, liberi di sfoderare un'emotività multicolore, contenuta ed accesa, alla ricerca di una forma d'essere che sia pura come l'acqua più cristallina. È di queste cose che si ricopre il nuovo album dell'artista inglese, piccoli battiti di musica elettronica rubati alle pulsazioni del cuore, un suono caldo, avvolgente e profondo, rarefatto, come se la musica di Daniel Lanois virasse sicura verso i lidi della migliore elettronica minimale, passando per dovere tra Mùm, le magie di Eno, shoegaze vari e certe cose ambient di Robert Rich e Tangerine Dream. In "Holloways" (brano stupendo) troviamo un musicista in forma fantastica che trasuda classe e stile da vendere, in orbita tra galassie ambient, ritmi lievi, bassi profondi e foreste sacre, che lo uniscono di fatto al concetto di suoni per una natura incontaminata. Si continua con il sogno diviso a metà tra meraviglia e oscuri presagi di "What Can be Done", tra drone e leggerissimi innesti ritmici, un mantra sonico affascinante ed avvolgente come una fitta nebbia mattutina in aperta campagna. La peculiarità e la cura maniacale per un sound perfetto, si mette in mostra in tutta la durata del disco e la ricerca di un suono che possiamo definire tridimensionale, è centrata in pieno. Composizioni quelle di James, che ammaliano e pongono l'ascoltatore di fronte ad un'esperienza sonora atta alla rigenerazione sensoriale, rispolverando downtempo e cariche emotive in voga ai tempi della migliore new age music ed al trip hop più lisergico e misterioso. Una colonna sonora dell'anima senza fissa collocazione nel tempo e nei generi. Una decina di brani che potevano essere, in veste elettronica e strumentale, la colonna sonora di una nuova opera di Wenders, con in prima fila un pezzo sopra le righe come "Ghostwalking", che reputo un vero e proprio gioiellino. Splendida compilation in perfetta linea qualitativa con le produzioni d'alta classe dell'etichetta d'oltralpe Ultimae Records, anche se, per certi aspetti, in questo bel disco, si nota una controtendenza che lo diversifica dai lavori dei compagni di scuderia (se si pensa al mitico viaggiatore spaziale Martin Nonstatic) che optano per un sound più tecnologico, futurista e moderno. Un contrasto ricercato ed originale, che si fa notare mostrando volutamente un suono più umano, sognante e parecchio analogico, per certi aspetti, più legato ad un effetto vintage e retrò dell'elettronica. L'ascolto di quest'ultima fatica del compositore britannico, uscita sul finire del 2016 per la sempre più rosea etichetta francese, è indubbiamente un'esperienza che merita di essere fatta, una full immersion rigenerante e inebriante, in definitiva un ottimo lavoro. (Bob Stoner)

Spektr - Near Death Experience

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black, Blut Aus Nord, Bathory, Khold
Gli Spektr sono un duo di origine, manco farlo apposta francese, che con 'Near Death Experience' taglia il traguardo del secondo lavoro. Era il 2006 e i nostri proponevano un mix di black metal primordiale e atmosfere maledettamente rarefatte. Nove brani più un video di 12 minuti costituiscono questo sulfureo lavoro, partorito da menti assai malate, che fece sicuramente la gioia degli amanti del black più primitivo unito a quelle malsane ambientazioni da film dell’orrore. Non so se realmente quest’album mi sia mai piaciuto, tuttavia devo ammettere che mi risultò estremamente affascinante per quel suo mood tenebroso, oscuro e insano. Le chitarre, sempre molto grezze, possono ricordare i primi riff messi su disco da Quorthon nei Bathory o dal buon Conte Grisnack nei suoi Burzum, così come pure i vagiti del vocalist, non fanno altro che richiamare tempi ormai andati. Molteplici e di lunga durata sono poi i momenti più d'atmosfera, in cui i nostri si dilettano nel creare situazioni angoscianti, fin apocalittiche. Difficile sottolineare gli apici espressivi di un lavoro, che pecca forse di una eccessiva ripetitività, un album che va comunque gustato dall’inizio alla fine in una stanza senza luci e finestre. Se volete impazzire, questo disco farà al caso vostro. (Francesco Scarci)

venerdì 20 gennaio 2017

Queen Elephantine – Kala

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
La cosa che non si può negare a questa ottima band, ora stabilitasi a Providence in US ma in passato residente ad Hong Kong, è la capacità di sconfinare facilmente e in maniera sofisticata e contorta tra lo stoner, la psichedelia, l'avanguardia ed il post rock. Con queste premesse, il disco in questione, uscito nel 2016, sembra non stimolare un granchè. Potrebbe rientrare in un calderone inflazionato di nomi, senza risultare in nessun modo una novità e la vostra potrebbe essere una considerazione esatta, ma per fortuna, vi dovrete ricredere in fretta. Vi dovrete ricredere perchè, ascoltando il nuovo album dei Queen Elephantine, con un titolo ispirato alla divinità orientale Kala, scoprirete che esiste ancora chi riesce a sfornare ottima musica, comunicativa ed originale, pur rimescolando vecchie carte da gioco. Prendete il pathos degli OM ed il loro misticismo, unitelo ai deliri compositivi dei June of 44 di 'Four Great Points', create un parallelo compositivo con il sound astratto, avanguardistico e cacofonico del geniale 'Deceit' dei This Heat, la spinta alternativa e desertica dei Fatso Jetson, il passo lento e pesante degli Earth, il doom sonico e rumoroso dei Fister di 'Bronsonic' e qualche scorribanda in territori kraut/psych rock e avrete l'esatta equazione che vi dà una vaga idea di cosa si nasconda nella quinta uscita ufficiale di questa particolarissima band. L'album è pane per i soli palati più fini, dato che va in contrasto con ogni canone di stoner rock da cassetta, pertanto ci si deve avvicinare a cuor sereno e mente libera da preconcetti di genere. Fatevi trafiggere dall'iniziale "Quartered", memore di un suono grunge dilaniato e rallentato a dismisura; amate il paranoico, folle e infinito grand canyon di "Quartz", lasciatevi poi cadere nel psicotico, sabbioso, noise/blues di "Ox", e fatevi rapire dal sentore etnico delle percussioni di "Onyx" (brano splendido!) ed il suo anarchico composto sonoro, acido e contorto, oppure, perdertevi nel vortice scuro di "Deep Blue", in gloria agli Ulan Bator post ogni cosa. Per finire inoltratevi nel vuoto cosmico dei dieci e più minuti di "Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus", il doom visto con gli occhi degli Slint. Tante cose, tanti suoni e concetti hanno costruito questo album pieno di ambizione e meritevole di tanto rispetto, un collettivo di intelligenti musicisti pronti ad accendere ancora una volta, la fiamma dell' heavy psichedelico, rivisto e ridisegnato con nuovi colori e forme. Un album di confine che non convincerà tutti ma coloro che lo apprezzeranno, lo ameranno alla follia, come il sottoscritto. Il santo graal dello stoner rock è nascosto in questo album! Non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

https://queenelephantine.bandcamp.com/album/kala

Theatres des Vampires - Bloody Lunatic Asylum

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic Metal
Devo ammetterlo, non sono mai andato pazzo per la musica dei Theatres Des Vampires, una formazione che calca la scena metal da oltre vent'anni ma che prima d'ora non si era resa protagonista di lavori esaltanti; i primi due album infatti ('Vampyrisme...' del '96 e 'The Vampire Chronicle' del '99), pur essendo ben suonati e supportati da un discreto livello compositivo, mancavano, a mio avviso, di quella brillantezza che li facesse emergere dalla mischia, brillantezza che però è magnificamente espressa nel loro terzo album, 'Bloody Lunatic Asylum'! A risollevare le sorti dei Theatres des Vampires è proprio questo disco, prodotto da Tim Fraser (già produttore di Christian Death e Anathema) e pubblicato dalla Blackend, uno staff molto professionale che ha sicuramente aiutato la band a compiere il salto di qualità! Non fatevi ingannare però: a fare grande 'Bloody Lunatic Asylum' non è solo un produttore d'eccezione o una casa discografica potente, ciò che lo rende speciale è il valore degli undici brani in esso contenuti, tutti molto coinvolgenti e ricchi di nuove idee! Lord Vampyr e soci dimostrano di aver raggiunto un'invidiabile maturità compositiva e questa volta ci consegnano tra le mani un prodotto competitivo, un disco di sanguinario e dannato gothic metal, intriso di pazzia e perdizione, elementi che ricordano il famoso 'The Principle Of Evil Made Flesh' dei Cradle Of Filth, formazione alla quale la band italiana si avvicina, non tanto per lo stile, quanto per le atmosfere morbose e vampiriche che riesce a ricreare. Alle classiche black screams viene alternata una voce pulita che conferisce al lavoro un tocco di suggestiva teatralità mentre le tastiere di Necros giocano un ruolo dominante e si fondono a degli indovinatissimi cori polifonici (bellissima "Lilith's Child"!!). Frequenti sono anche le parti recitate da sensuali voce femminili, presenti anche nei cori e nell'evocativa chiusura affidata a "Les Litanies De Satan", song basata su Moonlight Sonata di Ludwig Van Beethoven. In definitiva, 'Bloody Lunatic Asylum' è un disco geniale ed ispirato che segna l'affermarsi sulla lunga distanza di una band che non ha mai mollato. (Roberto Alba)