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giovedì 20 dicembre 2012

Freitod - Regenjahre

#PER CHI AMA: Black Shoegaze, Katatonia, Alcest
Un digipack elegante, con una foto sfocata sulle sfumature blu e nero; ecco cosa ho fra le mani quest’oggi. Inserisco l’argenteo disco nel lettore e voilà, mi lascio immediatamente imbrigliare la mente dalle sue malinconiche melodie che evocano ricordi lontani e mi spingono in territori nordici, pensando a Katatonia (era “Brave Murder Day”) e Rapture. Signori vi presento i Freitod e quella che dovrebbe essere la loro seconda release, “Regenjahre”, fuori per la Van Records, dopo “Nebel Der Erinnerungen” uscito nel 2010. Ma se la title (ed opening) track può suonare come i mostri scandinavi, la seconda “Der Trauersturm”, pesta decisamente molto di più sull’acceleratore, con scorribande furenti in territori black. Non fatevi tuttavia ingannare, perché è solo mera apparenza: il duo teutonico ci sa fare con i propri strumenti e imbrigliare anche le vostre di menti, sarà un gioco da ragazzi. Ecco quindi che il black si miscela abilmente con una vena shoegaze, palesata anche da clean vocals che richiamano gli Alcest e con linee di chitarra pregne di romantico decadentismo. Dopo la seconda traccia, mi sento già molto in empatia con questa nuova band, a me sconosciuta. “Neue Wege” riprende le sonorità oscure degli esordi di Blackeim e soci, agghindandole con ottime voci pulite, break acustici e una tecnica eccelsa, coniugando le vecchie influenze con quelle attuali, dando alla luce ad un prodotto assai competitivo e che già ora mi sento di consigliare, e dire che non sono neppure a metà disco. Con “Letztes Wort” mi trovo a scollinare con la sua apertura interamente affidata ad un drumming dirompente e a delle chitarre che ringhiano, palesando in questo caso, l’amore dei nostri per i Celtic Frost. Il vecchio e il nuovo si incontrano, scontrano e compenetrano, nell’antro oscuro della bestia, in quello che probabilmente è l’episodio più ruvido dell’album. Con “Sterbenswert” si torna infatti su toni più rilassati: un bel giro acustico con voce pulita incorporata, una vena assolutamente nostalgica, un eco dei vecchi Paragon of Beauty (e dei nostrani Novembre) anche nelle ispiratissime chitarre elettriche; ma questa diciamocela, è una semi-ballad, non c’è da vergognarsene, ma anzi apprezzare la vena esplorativa del duo formato da Gerd Eisenlauer e Robert Seyferth. Con ottimo tempismo arriva “Nichtssagend”, altra perla di black shoegaze evocativo e ricercato, che getta le basi per la lunga (12 minuti) e conclusiva “Wenn Alles Zerbricht”, che chiude amabilmente un disco che identifica i Freitod tra le migliori espressioni di black melodico teutonico intriso di ispiratissimo shoegaze, in (ottima) compagnia di Lantlôs, Heretoir ed Infinitas. Ottima scoperta. (Francesco Scarci)

mercoledì 19 dicembre 2012

Human Void - Era Zero

#PER CHI AMA: Cyber Black, Samael
Me la sono presa comoda, devo essere sincero, molto condizionato dal fatto che non mi sia del tutto chiaro se questa band italica esista ancora o si sia reincarnata in una qualche altra ipertecnologica creatura, ma mi auguro di potervi svelare ben presto il destino dei nostri. Gli Human Void ho avuto il piacere di incontrarli di persona, averli miei ospiti in radio quando ancora erano dei pivelli; ascoltare “Era Zero” mi ha dato l’enorme piacere di constatare la progressiva crescita musicale dei nostri, e la consapevolezza che ci siano ancora ampi margini di miglioramento. L’album consta di nove pezzi, che si spingono verso i meandri sconfinati e non del tutto esplorati, della musica elettro black, contaminata da influenze industriali. Certo l’attacco affidato ad “Extinction” suona decisamente più death a livello di chitarre (quasi swedish), black a livello vocale con l’affilata voce di Gabry (decisamente mai sopra le righe) ad imperversare, mentre tutto l’apparato noise/effettistico/elettronico, contribuisce a donare al lavoro quell’aura cibernetica, che emergerà prepotentemente e successivamente, all’ingresso di “Coronal Mass Ejection” (eletta mia song preferita), tanto da richiamarmi a livello sensoriale, il sound dei (defunti?) The Kovenant. La performance degli Human Void è piuttosto interessante, anche se qua e là si avvisano ancora delle sbavature da correggere (vedi l’uso della drum machine) per una prossima ipotetica release. “Critical Mind” è un breve intermezzo noise che spiana il terreno ad “Acid Rain” che si apre in un modo inquietante (tanto da rievocarmi “Generator” degli Aborym) per poi evolvere in un mid-tempo ahimè controllato (avrei infatti preferito un’esplosione dirompente di caos). Siamo ancora distanti anni luce, dai fasti della band capitolina, ancora troppo superiore rispetto al combo trentino, tuttavia non c’è da lamentarsi affatto della bontà della proposta. Sono convinto che col duro lavoro e con l’esperienza, gli Human Void possano evolvere e maturare ulteriormente e una song come “Tunguska” dimostra tutto il dinamismo, la vena cyber black (di scuola Samael) e la voglia di perseguire quegli obiettivi, che scorrono nelle vene degli Human Void. Il trittico finale di song ci regala gli ultimi quindici minuti di musica, che attraverso una traccia un po’ più banale ed un oscuro intermezzo, arrivano alla conclusiva “Metamorphosis”, un’altra song che, pur puzzando di cioccolato svizzero (chiaro il riferimento ai Samael), sancisce la qualità della proposta dei nostrani Human Void. Ed ora attendiamo fiduciosi per il futuro… (Francesco Scarci)

Blut Aus Nord - 777 Cosmosophy

#PER CHI AMA: Black Psichedelico
E il triangolo si chiude, si il triangolo magico che si era aperto un anno e mezzo fa con “777 - Sect(s)”, era proseguito con “777 - The Desanctification” ed ora trova la sua degna conclusione con “777 - Cosmosophy”, a chiudere la trilogia mortifera di una delle mie band black preferite in assoluto (se ancora possiamo definirli in tal senso). La band transalpina torna con un altro eccellente lavoro, in cui Vindsval e soci, giocano a portarci al culmine della follia, non tanto per l’utilizzo di ritmiche funamboliche o incontrollabili, da cui anzi siamo lontani anni luce, ma grazie ad una personalissima visione musicale. Il “Sangue dal Nord” ancora una volta ci prende per mano, trascinandoci nel proprio personalissimo incubo, fatto di melodie stranianti, disarmoniche e che non fanno parte affatto, di questo mondo. Spiritualità, esoterismo ed ascetismo, rappresentano ancora le chiavi di lettura per il nuovo lavoro dei Blut Aus Nord ed “Epitome XIV” ne è la prima esaltante testimonianza: una musica aliena, sensuale, sognante ed infine disturbante, il cui finale, è affidato ad un sorprendente climax ascendente fatto di alchimie misteriose, che mi regala uno degli attimi, musicalmente parlando, più intensi e vibranti della mia vita. Estasiato da questa visione, e corrotto dalla successiva “Epitome XV” e del suo cyber noise, mi lancio all’ascolto della maligna ed oscura “Epitome XVI”, che sembra voler ricalcare la produzione più tenebrosa del trio francese. Ci pensa poi la splendida ed eterea “Epitome XVII” a riconsegnarmi quella pace che pensavo perduta per sempre. In questo caso, i nostri sembrano orientare il loro sound alle ultime performance dei norvegesi Manes, con suoni cristallini, vocals pulite ed atmosfere rilassate affidate ad uno splendido lavoro di synth e chitarre, che mi fanno pensare alle precedenti produzioni della band della Normandia, come ad un lontano ricordo. Ma era inevitabile accadesse, perché è scritto nel DNA di questa formidabile band, che ogni qualvolta esce con un disco, ha un messaggio da consegnarmi ed io inevitabilmente, sento l’impellente necessità di condividerlo con tutti voi. “Epitome XVIII” chiude questo splendido capitolo della discografia dell’ensemble francese, tornando a minacciarmi con il suo incedere marziale, in una sorta di diabolica e potente reiterata formula sonora spirituale che ha la capacità di penetrare nella mia anima per portarmi ad un grado di spiritualità superiore. Metafisici. (Francesco Scarci)

Im Dunkeln - Den Hellige Skogs Hemmeligheter

#PER CHI AMA: Black Ambient, Blut Aus Nord, Burzum
Brividi di piacere, di dolore, brividi di freddo, di calore, brividi di paura, brividi di terrore, brividi… una parola che si accosta molto bene a qualsiasi tipo di emozione, positiva o negativa essa sia, e che nel contesto dell’ascolto di questo album, si adatta alla perfezione. Brividi. Si quelli che si scatenano con l’attacco della demoniaca opening track, con cui si presentano gli Im Dunkeln, anzi il personaggio oscuro, Genchi, che si nasconde dietro a questo progetto. Una one man band, questa volta che arriva direttamente dalla nostra amata penisola; fuorviante infatti il nome e il titolo dell’album in tedesco, che mi avevano spinto ad optare per una qualche realtà germanica in stile Heretoir. E dopo tutto, almeno musicalmente non ci sono andato cosi lontano. Im Dunkeln propone infatti un sound glaciale, epico, torrenziale, malato ed oscuro, che attraverso gli otto capitoli contenuti in “Den Hellige Skogs Hemmeligheter”, ricalca gli insegnamenti delle band a cui mi sento ultimamente più legato. Blut Aus Nord in primis, per il loro fluire malvagio, una malvagità che permea le lugubri melodie di questo concentrato musicale quasi interamente strumentale, in cui pochissimo spazio è concesso alla componente vocale, se non per alcuni chorus o urla disumane. Citavo gli Heretoir in precedenza, ma è tutto il movimento shoegaze a venire in supporto all’artista capitolino, cosi sia echi teutonici che quelli francesi, si possono cogliere nelle note di questo meraviglioso disco. Lunghe le tracce, “Øyenstikkerens Ofring” va oltre i dieci minuti con il suo sound ritualistico sognante ed etereo, dal forte sapore etnico, un mix tra l’approccio ambient di Burzum e quello folk acustico dei Pazuzu. Tocchi di synth aprono “Albinoravnens Ensomhet”, prima che trovi spazio una gelida chitarra e la sintetica drum machine in un'ambientazione assai artificiale, mentre con “De Sultne Revers Soloppgang” sembra di entrare nell’orrorifico Grand Guignol, per quelle sue atmosfere tanto spettrali quanto macabre. Il secondo disco degli Im Dunkeln è un fiume in piena, una piena di collera, odio, purezza, stanchezza, epicità, malvagità, fantasia. Il mio brivido l’ho riconosciuto, e voi il vostro? (Francesco Scarci)

(Alchemic Sound Museum)
Voto: 80

http://www.myspace.com/imdulkeln

When Icarus Falls - Aegean

#PER CHI AMA: Post Metal, The Ocean, Cult of Luna
Avete pensato cosa trovare sotto l’albero di Natale o dentro la calza della Befana? Io ho scritto la mia letterina a Babbo Natale, chiedendo il nuovo full lenght degli svizzeri When Icarus Falls e sono stato immediatamente accontentato. Quindi mi posso gustare “Aegean” al calduccio di casa mia, mentre magari fuori nevica. Spero non abbiate pensato che si tratti di una compilation di canti natalizi, ovviamente è un concentrato di suoni post che si aprono con “A Step Further”, che mostra quale corrente, il quintetto di Losanna segua. Beh diciamo subito che i suoni sono piuttosto lenti, cadenzati e ben calibrati, con la voce di Diego Mediano che sbraita come un pazzo, su una ritmica ben assestata al terreno, in cui il drumming quasi tribale di Xaviet Gigandet, colpisce dolcemente tom e rullante, mentre la chitarra, in modo quasi leggiadro, arpeggia che è un piacere; mi rendo conto che con questa descrizione, siamo già scivolati alla seconda traccia, la title track, un lungo percorso di quasi dieci minuti di amabili atmosfere penetranti, in cui si toccano con mano le sensazioni che la band vuole sprigionare con questa release. Già, perché “Aegean” basa il proprio concept sull’opera di Elisabeth Kübler-Ross, una psichiatra svizzera, resasi famosa per “La morte e il Morire” un libro in cui viene data la definizione dei cinque stadi di reazione alla prognosi mortale: diniego, rabbia, negoziazione, depressione ed accettazione, al fine di ricercare nel modo corretto, di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica, cui la morte ci pone al cospetto. E proprio sulla base di queste reazioni/emozioni, di certo non positive, si basano i suoni assai oscuri, quasi mortali di questo interessante lavoro, registrato nel 2011 ma rilasciato solamente nell’autunno 2012. Le sette tracce mostrano tutte il medesimo comun denominatore, ossia l’assenza di velocità e di una certa pesantezza nelle ritmiche, quasi il combo elvetico voglia regalarci un platter di suoni post rock, contraddistinti da una straziante voce. Ciò che colpisce è poi la totale assenza di luce che contraddistingue questa release, che non fa altro che incanalare ogni sensazione che fuoriesce dalle note del quintetto, in un flusso di vorticanti emozioni cerebrali. Un po’ The Ocean, un po’ Cult of Luna, queste le influenze più forti nell’architettura musicale dei When Icarus Falls. L’odore della morte intanto, si fa via via più forte durante l’ascolto del disco, addirittura anche nell’intermezzo, “The Asphodel Meadows Part I” che unisce “Acheron - Eumenides” a “What We Know Thus far (An Inner Journey)”, che sembra voler acuire lo stato di cupa desolazione in cui lentamente stiamo sprofondando, di cui “Tears of Daedalus” sembra rappresentare la summa della disperazione. Forse siamo semplicemente sprofondati nella fase depressiva, alla presa coscienza della perdita a cui andremo incontro, non so, fatto sta che la sensazione di disagio e tristezza, che pervade il brano, fa venire i brividi. “Hades” chiude con i suoi dieci minuti abbondanti un album che sicuramente mostra il grande merito di saper trasmettere una forte emozionalità, anche se dai connotati piuttosto negativi. Ma che importa, ciò che conta per il sottoscritto è alla fine provare un qualcosa di forte, capace di sconquassarmi le budella, e “Aegean” vi garantisco essere in grado di fare tutto questo. Consigliatissimo per trascorrere momenti di taglio di vene natalizio… (Francesco Scarci)

(Headstrong Music)
Voto: 80

https://www.facebook.com/whenicarusfalls

Posthum - Lights Out

#PER CHI AMA: Black/Death, Enslaved
Continua la politica della Indie Recordings, nel proporre band scandinave (Enslaved, God Seed, Kråke, Nidingr), tutte dotate di una forte carica atmosferica, ma comunque inserita in una contesto black/death. I Posthum, norvegesi di nascita, ovviamente non possono essere da meno ed il loro biglietto da visita, “Untame”, ci dimostra immediatamente di che pasta sono fatti. Ritmica da subito nervosa, vocals al vetriolo, ma il tutto poi perfettamente calibrato in un sound che può rimandare al vecchio “Monumension” dei già citati Enslaved, anche se decisamente meno psichedelici e più lineari: la sfuriata finale della opening track ne è la prima testimonianza. Il suono delle chitarre di “Leave at All to Burn” continua a richiamare gli ex compagni di scuderia, capitanati dal duo Grutle ed Ivar, anche se poi nell’arco del brano, mi pare che l’impronta si faccia decisamente più post rock oriented, su cui vanno a poggiare le torve vocals di Jon, sempre ben supportate da azzeccatissimi arrangiamenti e desolate ambientazioni che provano ad imitare il corrosivo sound dei Cult of Luna (prossimi all’uscita anch’essi per la label norvegese); le stesse sensazioni le ho percepite anche per la successiva “Scarecrow”. Quando i nostri accennano nel voler ingranare una marcia in più ed aumentare la propria velocità, ho come la percezione che perdano un po’ in lucidità, lasciandosi accecare dalla voglia di strafare, e smarrendo la loro brillantezza. E questi sono i momenti in cui cala l’entusiasmo per questo “Lights Out”: la “windiriana” “Red” vuole essere infatti un improbabile ibrido tra l’epic black dei Windir ed una forma più sporca di metallo, che decisamente stona nella proposta dei Posthum. Decisamente a proprio agio si confermano nelle ritmiche mid-tempo, piuttosto che su presunte sfuriate black, che mal si coniugano con la proposta progressiva del combo di Nannestad, più abili infatti nel lavorare di cesello, che di violenza. E cosi in “Lights Out”, si confermano gli episodi migliori quelle tracce che lasciano ben poco spazio all’irruenza dei nostri, ma libero sfogo viene concesso alla creatività del bravo Jon, supportato alla grande da Martin (chitarra e basso) e da Morten (alla batteria). Un po’ più deludenti le composizioni in cui la compostezza e l’intelligenza musicale cedono il passo alla feralità del black: “Resiliant” e “Down in Blood” sono due brani che non convincono granché, anche se la seconda metà di “Down in Blood”, prendendo in prestito un po’ dell’oscura caligine degli Shining, riabilita un pezzo che inizialmente avevo bocciato. L’oscurità ed il cupo selvaggio terrore del mortifero sound dei Posthum, echeggia severo con “Summoned at Night”, song carica di umori sinistri, che spalanca le porte alla malinconica e strumentale “Afterglow”, prima della chiusura affidata alla title track, che ancora una volta, vede i Posthum ricalcare le gesta degli Enslaved, e pertanto mostrare il lato migliore della loro proposta. Complice anche un inebriante break centrale e delle ariose aperture di chitarra, risulta lampante come il sole, che le performance migliori arrivino esclusivamente quando i nostri decidono di lanciarsi in vibranti elucubrazioni che in un prossimo disco, auspico, possano sfociare nel psichedelico, forse la strada più calzante da percorrere. E allora ragazzi, non abbiate paura di metterci ancor più personalità in quello che fate, sono convinto che in un prossimo lavoro se ne potranno sentire davvero delle belle. (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 75

https://www.facebook.com/posthumofficial

lunedì 17 dicembre 2012

Ethereal Blue - Essays In Rhyme On Passion & Ethics

#PER CHI AMA: Black/Death/Progressive, Opeth
Le sonorità post vanno molto di moda nell’ultimo periodo negli States e anche e soprattutto in centro Europa e su questo argomento credo di aver speso già parecchie parole; la cosa strana è vedere come questo genere si stia diffondendo a macchia d’olio anche in altri paesi e con differenze sostanziali da quella che è la corrente principale. Quest’oggi facciamo tappa a Ioannina in Grecia, località da cui provengono questi Ethereal Blue, quintetto mediterraneo, le cui sonorità sembrerebbero invece quelle piovose bostoniane, sembrerebbero appunto... Anche se il pensiero ci potrebbe indurre a considerare erroneamente il sound dell’ensemble ellenico, un mix tra Isis e The Ocean, vuoi per le lunghe parti strumentali o quel feeling evocativo, quasi epico che si respira, c’è qualcosa che mi spinge ancor più lontano. “Mother Grief” apre il disco in modo piuttosto ruvido, sebbene sia concesso ampio spazio alle parti ambient ed acustiche e ad una ritmica pacata, quasi mai sopra le righe. L’aura malinconica è molto forte e molto spesso a venir fuori è invece un retaggio death doom, anche nel connubio vocale (growl-clean) che fa immediatamente perdere le tracce dal post iniziale, indirizzandoci verso altri lidi ancora non meglio identificati. “Ethics”, la seconda track, non mi aiuta ulteriormente: si apre con una delicata danza che sa di orientale (e anche un po’ di Orphaned Land), con la voce pulita di Efthimis in primo piano; poi a prendere il sopravvento è una ritmica che si muove in modo imprevedibile, solo come i suoni progressive sono in grado di fare, per sfociare comunque in un pot-pourri finale che mi rende davvero vita difficile nel voler dare un nome al genere proposto dalla band greca. Mi devo affidare obbligatoriamente alla terza traccia, sperando non mi incasini ulteriormente le idee perché, come avrete capito, io non ci ho ancora capito granché. “John Wood” ha un bell’attacco frontale, con le ritmiche che suonano ora in modo avantgardistico, ma la voce potrebbe essere identificabile come black ma giusto per una manciata di minuti perché ancora una volta, succede di tutto, con un’apertura ariosa, splendide vocals pulite (Opeth style?), attacco di follia di scuola System of a Down, grattata black, squarcio post e finale folkish. Ebbene? Mi sa tanto che siamo punto accapo e da qui non ci si muove, nemmeno con le successive “Passion” che strizza l’occhiolino nuovamente al post, prima di reinventarsi e palesare ovviamente altre mille sfaccettature, con una ritmica che questa volta, richiama fortemente nelle parti più lineari, gli Opeth; ve ne sono anche altre più deliranti, a tratti addirittura brutal. Fortunatamente, un attimo di tregua ce lo concede “The Letter”, dal momento che ho ascoltato quasi l’album interamente (le tracce sono sei e tutte molto lunghe) e non ne sono venuto a capo di nulla, complici gli innumerevoli cambi di tempo, e la mutevole propensione sonora di un combo che è in grado di proporre tutto ed il suo contrario, ma che abilmente potrà infiammare l’ascoltatore di ogni estrazione musicale, dall’heavy prog, al black, passando da death, doom e post. Insomma nelle note di “Essays In Rhyme On Passion & Ethics” è possibile davvero trovare di tutto; forse troppa carne al fuoco probabilmente è il primo pensiero in cui si incorre, ma ben vengano progetti di questo tipo, mi diverto decisamente di più a scrivere. Ora mi attendo un nuovo disco, visto che questo risale ormai al 2010. Non potete immaginare quale curiosità mi attanagli cosi tanto la testa, per capire quale nuova strada gli Ethereal Blue abbiano intrapreso… funambolici. (Francesco Scarci)

(Casket Music)
Voto: 75

http://www.etherealblue.org/

Grand Alchemist - Disgusting Hedonism

#PER CHI AMA: Musica Estrema Sinfonica
I norvegesi Grand Alchemist si presentarono, con “Intervening Coma-Celebration”, come una fra le più promettenti band in territorio black sinfonico. Era il 2002, da allora in poi il silenzio, tanto da aver più volte creduto che la band avesse mollato gli ormeggi e si fosse sciolta. Poi nel 2012, l’annuncio di un nuovo album, dopo ben una decennio; ma che diavolo hanno combinato in tutti questi anni, spero proprio che non abbiano meditato cosi a lungo per la composizione di “Disgusting Hedonism”. Quel che conta però, è che io abbia finalmente il loro nuovo album nelle mie mani, e se poi mi è stato inviato direttamente dalla band, tanto meglio, fa ancora più figo. Quando “Crème de la Crème Collapse” attacca, con l’urlo del buon vecchio Sigurd, e le tastiere di Ole Christian Teigen tornano a ricamare raffinate perle sinfoniche, io non posso che godere come un riccio. Ragazzi, i Grand Alchemist sono ritornati, i dieci anni totalmente azzerati, e per quanto mi riguarda, questa nuova release prosegue parimenti, il discorso là dove si era semplicemente assopito, con il primo capitolo. Il black (?) sinfonico dell’act scandinavo, si fonde alla perfezione con partiture rock progressive e orchestrazioni da colonna sonora, confermando che la band è totalmente al passo con i tempi. Imbrigliato dalle magistrali fughe chitarristiche dei nostri, i sontuosi tocchi di pianoforte e i pomposi arrangiamenti, nonché dal dualismo vocale growl/clean dell’onnipresente Sigurd, anche alla chitarra e ai synth, mi abbandono anche alla successiva “Deserted Apocalyptic Cities” che conferma di non disdegnare le nuove tendenze progressive anche in ambito estremo. La title track suona assai epica e stranamente punteggiata da suoni quasi orientaleggianti, anche se poi, il sound (a volte fin troppo) articolato della band, finisce per farci perdere il filo della ragione e anche un pizzico di dinamicità all’intero prodotto. Ma si sa che tutto il mal non vien per nuocere, in quanto proprio quella complessità a livello della matrice musicale dei nostri, contribuirà ad incrementare invece la longevità di un disco, che rischierebbe probabilmente di aver vita breve. Cibernetica, suoni carichi di groove, death e black (?) bombastico, tornano a confondermi nella poliedrica “Strongly Addicted to a Stimulating Despair”, mentre “Alcohol and Gambling” apre come se fosse un pezzo dei Pink Floyd, suonato in piazza a Damasco, mantenendo comunque un format squisitamente sinfonico, vero trademark del five-pieces nordico, che trova il suo apice nella malinconica “Synthetic Physical Intercourse”, nella nervosa e progressiva “Touching the Cause of my Muse” e in “A Brilliant Dissonance”, altra arabeggiante perla di un metal estremo, che oramai non ha più motivo di essere etichettato come black. “Disgusting Hedonism” rappresenta l’ultima frontiera di musica estrema, non tanto estrema alla fine, ma aperta ad ogni tipo di soluzione stilistica tale da lasciarmi a bocca aperta. Ottimo ritorno, ma ragazzi, non facciamo scherzi adesso; intenzione di aspettare altri dieci anni, io non ne ho proprio. Forza Sigurd, datti da fare per scolpire nella roccia un altro splendido capitolo della discografia targata Grand Alchemist! (Francesco Scarci)

(Lydfella)
Voto: 85

http://www.grandalchemist.com/