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domenica 28 febbraio 2016

Heads - S/t

#PER CHI AMA: Noise Rock, Jesus Lizard
Quanto è grande e profondo il retaggio lasciato dai Jesus Lizard? Sarebbe uno spunto interessante per un saggio critico su quello che il gruppo di David Yow e Duane Denison ha significato per tutto il rock cosiddetto “noise” che, dopo di loro, non è piú stato lo stesso. Di certo, dischi come 'Goat' o 'Dirt' hanno significato qualcosa di molto, molto importante, per i tre membri degli Heads, due berlinesi e un australiano trapiantato nella capitale tedesca, che hanno dato alle stampe il loro esordio nel 2015, ma nessuno avrebbe sospettato nulla se la data impressa sul disco fosse stata di vent’anni precedente. La sezione ritmica teutonica (Chris Breuer al basso e Peter Voigtmann alla batteria) è una macchina dalla coesione impressionante (prendere nota alla voce “come ottenere il suono di basso perfetto”) su cui impeversano la chitarra spigolosa e la voce profonda di Ed Fraser, per un album rapido (meno di mezz’ora) che è una vera e propria boccata d’aria fresca. Se i riferimenti paiono quanto mai precisi (“A Mural is Worth a Thousand Words” sembra presa di peso da un disco dei Jesus Lizard di mezzo), il modo in cui gli Heads fanno loro il linguaggio noise rock è molto personale e consapevole, come già avevano fatto gli altri magnifici esordienti Ha Det Bra nel loro splendido 'Societea for Two'. Solo che qui Fraser e soci rallentano e puntano all’essenzialità del suono laddove i croati lo saturavano e infettavano al massimo. Un album che sembra registrato da Steve Albini, questo, asciutto e dritto, che punta tutto su una manciata di pezzi di assoluto spessore. Ed Fraser ha una voce profonda e un modo di cantare sornione che qualcuno ha accostato a Scott McCloud dei grandi Girls Against Boys e che a me ricorda anche Hugo Race, e il modo in cui questo riesce a sposarsi con la ritmica granitica e una chitarra deviata di stampo chiaramente denisoniano, risulta essere l’aspetto vincente di questo lavoro, soprattutto alla luce del fatto che questo conferisce alle sei tracce in scaletta un fascino sinistro e decadente davvero particolare. Se a questo uniamo il tono beffardo espicitato da titoli quali “Chewing on Kittens” e il fatto che “Black River” è, con quell’accelerazione finale che rimanda ai migliori Pile, semplicemente una delle migliori canzoni dell’anno, allora è chiaro che ci troviamo di fronte ad un esordio magnifico, autentico gioiello nel panorama noise rock, che lascia l’amaro in bocca soltanto per l’esiguità del programma e la breve durata, perchè di musica cosí ne vorremmo sempre un po’ di piú. (Mauro Catena)

(This Charming Man - 2015)
Voto: 80

https://headsnoise.bandcamp.com/album/s-t

Sequoian Aequison - Qual der Einsamkeit

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Ambient
Quando arriva materiale dall'etichetta Slow Burn la giornata prende subito una buona piega, vista la qualità dei lavori da loro prodotti. In realtà stavolta c'è una collaborazione con Tokyo Jupiter Records (supporto cd) e Towner Records (cassetta), quindi le aspettative crescono a dismisura. I Sequoian Aequison (SA) nascono nel 2012 nella bellissima e ricca città di San Pietroburgo e nel corso della loro giovane carriera 'Qual der Einsamkeit' si posiziona come secondo e penultimo lavoro (si tratta di un EP di due lunghissimi pezzi), infatti qualche mese fa è uscito anche uno split con i Dry River, mentre il debut album 'Onomatopoeia' è stato recensito sempre dal sottoscritto su queste pagine alla fine del 2014. Il cd che ci è pervenuto è la versione per gli addetti ai lavori, priva di booklet, molto minimalista quindi e per cui non potremmo dare un giudizio sulla versione disponibile per il pubblico. Il genere perseguito dai SA è un post rock intriso di atmosfere ambient e doom, come la prima traccia "Der Sklave Des Nichts" (lo schiavo di niente) mostra con un inizio affidato a un lungo monologo in lingua tedesca. Man mano, il quartetto russo tesse una trama sonora oscura e malinconica, ma allo stesso tempo carica di tensione repressa pronta ad esplodere ad un cenno del capo. Arpeggi liquidi di chitarra e un pattern ritmico ipnotico crescono e calano a rotazione per circa undici minuti che grazie ad un'interpretazione artistica di tutto rispetto, riescono ad ammagliare e coinvolgere l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Anzi, basta abbassare un poco le difese mentali e si entra subito nel mood della band, ciondolando lenti come un paziente di psichiatria che ha preso la sua dose giornaliera di farmaci. Nonostante la ritmica doom, sia il batterista che il bassista riescono a intrecciare riff e battute in modo da arricchire la composizione che altrimenti affonderebbe nella totale accidia. "Abendwasser" sembra il secondo atto dell'opera musicale imbastita dalla giovane band e come tale, ricalca suoni (perfettamente curati) e melodie già dettati dai maestri che segnarono la via da seguire. La struttura è la solita: campionamenti di voci e qualche suono elettronico qua è la, anche se in realtà è proprio l'esplosione che arriva quasi alla fine a far rimpiangere uno svolgimento diverso. La visione epica che la band crea in modo immaginario davanti ai nostri occhi, è una sorta di mondo parallelo, fatto di colori e profumi mai percepiti prima. Un mondo nuovo che esiste, ma che ci sfugge troppo presto dalle mani. In sè l'album è eccellente, i SA hanno studiato e messo in pratica alla perfezione tutto quello che già è stato fatto in questo genere, ora il punto da capire è se qualcuno avrà il coraggio e le doti per mischiare le carte in tavola e trovare un'evoluzione stilistica non fine a se stessa. (Michele Montanari)

(Tokyo Jupiter Records/Towner Records - 2015)
Voto: 75

https://sequoian.bandcamp.com/album/qual-der-einsamkeit

Orphans of Dusk - Revenant

#PER CHI AMA: Death/Gothic/Doom, Type O Negative, My Dying Bride
Australia e Nuova Zelanda non sono dopo tutto cosi lontane, cosi come non lo sono Canada e Russia. In un mondo in cui le distanze siderali sono azzerate dall'esistenza di internet, non c'è da stupirsi se gli Orphans of Dusk siano un terzetto formato da personaggi della scena di Sydney (Australia appunto) e di Dunedin, sconosciuta località confinata all'estremo sud della Nuova Zelanda. Altrettanto vale per le etichette che hanno messo le mani in cooperazione su questo act oceanico: la canadese Hypnotic Dirge Records e la russa Solitude Productions. Originariamente uscito in solo formato digitale nel 2014, 'Revenant' ha pertanto modo di farsi vedere più vicino al mondo grazie all'intervento delle due case discografiche, dimostrando che la scelta fatta è stata assai arguta. Quattro i pezzi a disposizione del trio, che in questo primo EP, ha modo di citare nelle proprie composizioni, i primi My Dying Bride e i Paradise Lost, grazie alla vena death gothic doom che ammanta l'intero lavoro e in secondo luogo, e qui sta il forte interesse per i nostri, anche i Type O Negative per l'uso delle vocals baritonali da parte di Chris G (membro dei Mesmur), molto vicine a quelle del compianto Peter Steel (ma anche al vocalist dei Crash Test Dummies), nonchè anche per un certo uso delle tastiere che richiamano i primi lavori, più doom oriented, della band di Brooklyn (ascoltate "August Price" e capirete cosa intendo). La musica si muove comunque tra gli anfratti del doom più atmosferico e decadente, con le keys che sprigionano una certa sacralità per quella loro affinità con l'organo da chiesa, forte soprattutto in "Starless". "Nibelheim", la terza, è forse la traccia più ostica a cui avvicinarsi, laddove le asperità del death in stile Bolt Thrower trovano pace in un gothic ammaliante in grado di placare l'istintiva brutalità espressa nella prima metà del brano e donare una certa vena di originalità alla proposta dell'ensemble oceanico. Chiude l'EP "Beneath the Cover of Night", un mellifluo brano di oltre otto minuti in cui a farla da padrone sono quasi esclusivamente le vocals di Chris (in formato growl e gotico) e i synth di James, sorretti comunque da una buona base ritmica. Se il buongiorno si vede dal mattino, mi aspetto grandi cose nell'immediato futuro da questo terzetto. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records/Solitude Productions - 2015)
Voto: 70

https://orphansofdusk.bandcamp.com/album/revenant

martedì 23 febbraio 2016

Ataraxie – Slow Transcending Agony

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Gli Ataraxie vengono da Rouen in Francia, sono attivi dal lontano anno 2000, suonano doom death e hanno tre album all'attivo. Inserendo la cover dei Disembolvement ("The Tree of Life and Death") e magari pensando di riprendere e rivedere, anche il titolo del famoso film di Terrence Malick, 'The Tree of Life', il quintetto transalpini si è fatto ispirare dal maniacale e celebre perfezionismo del regista statunitense per creare un album curatissimo, sofisticato e multiforme che mostra al suo interno una radiosa vena doom, ai confini con il funeral ed una marcata attitudine death di vecchia data. In realtà, il cd non è un nuovo album, non è altro che la reissue della prima release registrata dalla band per festeggiare il decimo anniversario dalla sua uscita, distribuito in formato digipack dalla giapponese Weird Truth Production e disponibile anche sulla pagina bandcamp del gruppo in formato digitale. Impressionante e impegnativa la durata di sessantadue minuti del cd, compresa la bonus track ovvero la cover, che da sola va oltre i dieci minuti, che qui è presente mentre non è disponibile in download da bandcamp. Ottima la qualità dei suoni e la produzione è più che perfetta, la costruzione dei brani, suonati benissimo da musicisti navigati e capaci, volge lo sguardo ai My Dying Bride quanto ai Mournful Congregation o in anticipo temporale sugli Ahab dell'ultimo capolavoro 'The Boats of the Glen Carrig', senza dimenticarci degli Swallow the Sun e lo spirito indomito di alcune band black metal stile Zuriaake. Tutte queste influenze amalgamate con il suono metal oscuro di qualche anno fa, quello che rese immortale 'Morbid Tales' dei Celtic Frost o il sound dei mitici Incantation. Una cosa molto strana che infonde in alcune parti del disco una vena molto death e vintage al suono della band. L'intero lavoro, anche se uscito un decennio fa, è da considerarsi un gioiellino oscuro di doom moderno, carico di un potente sound che non abbandona mai l'atmosfera e la pesantezza, la maestosità e un'inquietudine perenne che si stende come un velo su tutte le note del disco. Il trittico micidiale formato dai brani "L'Ataraxie", la title track e "Another Day of Despondency" (brano delizioso) ha un qualcosa di innato e infernale, con chiaroscuri dal tratto drammatico e teatrale, realistico e capace di rappresentare delle vere scene di sofferenza, uno stato di trance depressiva talmente coinvolgente che, all'ascolto, si rischia una qualche sorta di ferita dell'anima. Non mi stancherò di ripetere che è un opera alquanto impegnativa, per soli cultori del genere in questione, senza sprazzi di luce e tutta da scoprire, da ascoltare per intero se possibile per assaporarne la forma progressivo/cinematica dei suoi continui mutamenti sonori, giocata sui colori del grigio e del nero, sulla malinconia e sul confine di una riflessione tra la vita e la morte come induce a pensare il titolo stesso, perfetto nell'esporre i contenuti sonori dell'album. Una band tutta da riscoprire, partendo da questa ultima fatica che riesuma una chicca di dieci anni fa per arrivare ad apprezzarne l'intera discografia. (Bob Stoner)

(Weird Truth Productions - 2005/2015)
Voto: 75

Benighted Soul - Kenotic

#PER CHI AMA: Symph Metal, Epica
Quella che ho tra le mani è la bonus edition (2015) di 'Kenotic', pubblicato nel 2014. Secondo full-length per i sinfonici francesi Benighted Soul, già in attività dal lontano 2003, che fino ad ora avevano pubblicato diversi demo e il debut album 'Start From Scratch'. 'Kenotic', trasposizione in musica di 12 diverse “inclinazioni dello spirito”, rappresenta decisamente i migliori aspetti dell'orchestrale sottogenere metallico: arrangiamenti classicheggianti ed eccellenti orchestrazioni, cori polifonici e melodie studiate, degni degli Epica dei tempi migliori. Il tutto viene condito ad hoc da pesanti contaminazioni elettroniche e numerosi passaggi all'insegna del progressive, cosparsi lungo tutto il corso dell'album, i quali contribuiscono a forgiare il caratteristico ed unico sound della band d'oltralpe, che si è decisamente evoluto rispetto al precedente lavoro. "Halcyon Days" (trasposizione della beatitudine), apre l'album con un'eleganza superba: variazioni ritmiche e tempistiche (che poi si ripresentano in quasi tutti i brani) rendono il pezzo sempre più interessante e mai scontato. In "Too Far Gone" (l'ascesa e il declino), le tastiere cominciano a farsi sentire prepotentemente, con pesanti strings-orchestrations, synth taglienti e sezioni più electro, che si accentuano ulteriormente nella successiva "Si Se Non Noverit" (l'Illusione). Le linee vocali di Jay Gadaut, spesso inframezzate dal growl del bassista Jean-Gabriel, non stancano (quasi) mai: il modo in cui la cantante riesce ad incarnare lo spirito dei brani e a fornirne un'interpretazione davvero sentita, modellata appositamente su di essi, è qualcosa di eccezionale. Fantastico è anche il brano centrale strumentale "Enlightenment" (apoteosi), che a parer mio meriterebbe un 100 e lode anche solo per il contemporaneo/neoclassico intro pianistico. Il canone orchestrale viene portato fino alla fine, sostenuto dal graduale ingresso di tutti gli strumenti, creando un'atmosfera epico-romantica. Senza dubbio il mio brano preferito del lotto. In “The Shallow and the Deep” (tentazione), la placida dolcezza iniziale data dal leggero cantato della Gadaut viene spezzata da passaggi decisamente più aggressivi grazie all'accelerata della band, che appesantisce repentinamente il sound (the Deep appunto). La seguente "Let You Win" (perdono) invece, diventa completamente strumentale dalla metà in poi, con tastiere e chitarre che si articolano in una concatenazione continua di assoli, a sottolineare anche le qualità tecniche eccelse dei musicisti francesi. Subito dopo lo scompiglio di "Bound" (sacrificio), arriviamo alla fine con "One Last Harvest" (l'insignificanza), che rappresenta pienamente lo spirito di un azzeccato finale: i ritmi si abbassano, le vocals si intrecciano elegantemente con i cori che si adagiano su un costante tappeto di tastiere a creare la giusta atmosfera per arrivare allo sfumato finale. Nella mia bonus edition sono presenti anche due traccie finali supplementari, "Jack in the Box" e "The Acrobat", che non sono però necessarie ai fini della valutazione: anche senza di esse infatti, si può comunque constatare l'ottima riuscita di quest'ultimo album targato Benighted Soul. Bel colpo dei francesi che con quest'ultimo lavoro compiono un altro grande passo sul loro percorso artistico. Vedremo quali news ci arriveranno prossimamente dalla Lorena! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Savage Prod - 2015)
Voto: 85

domenica 21 febbraio 2016

Interview with Phased

Follow this link to know much better about the Swiss doomster Phased:



The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni 

Sailing to Nowhere - To the Unknown 
Avantasia - Ghostlights 
Benighted Soul - Kenotic 

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Francesco Scarci 

Postvorta - Beckoning Light We Will Set Ourselves On Fire
Swallow the Suns - Songs from the North pt I, II & III
Secrets of the Moon - Sun

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Don Anelli 

Critical Solution - Sleepwalker 
Nidsang - Into the Womb of Dissolving Flames 
Voltumna - Disciplina Eterna 

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Matteo Baldi 

Thom Yorke - The Eraser 
Pallbearer - Foundations of Burden 
Om - Advaitic Songs 

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Samantha Pigozzo 

Hot Action Cop – Listen up 
Faith no More – King for a Day, Fool for a Lifetime 
Blutengel – In Alle Ewigkeit 

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Claudio Catena 

Megadeth - Dystopia 
Colonnelli - Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi 
Pearl Jam - No Code 

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Jeremiah Johnson 

Under the Church - Rabid Armegeddon 
Abbath - Abbath 
Weresquatch - Frozen Void

Earth's Yellow Sun - The Infernal Machine

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Djent strumentale
Facciamo il punto. I canadesi Earth’s Yellow Sun (EYS) sono in cinque: due chitarre, basso, batteria, tastiere. Poi c’è la EYS Saxophone Collective (otto sassofonisti), i sette vocalist del The Infernal Choir e tre extra guest: tablas, violino e vocal. Totale: ventitré musicisti. Dico, ventitré. E sul loro meraviglioso ‘The Infernal Machine’ campeggia a lettere cubitali l’avviso: in questo disco non abbiamo usato campionature di batteria, simulatori di amplificatori, né strumenti virtuali. ‘The Infernal Machine’ è davvero una perfetta, diabolica e ben costruita macchina infernale: cinque movimenti di un unico concept album che, pur durando solo 23 minuti, potrebbero dare riff e materiale per due, forse tre dischi interi. Pochi secondi di piano introduttivo e siamo già in pieno prog-metal contemporaneo ("Assembly"): le chitarre in palm-mute danzano chirurgiche a sincrono con la grancassa, mentre costruiscono arpeggi melodici su cui – sorpresa! – entrano i sassofoni in un gioco di accenti spostati che ha quasi del funky. Il timing cambia: un dissonante solo di tastiere e uno più classico di chitarre, si avvolgono intorno ad un groove incalzante da puro headbanging. L’inizio di "Unveliling" è straordinario: sono quartine o terzine quelle? Lo capirete solo all’ingresso del rullante, che finalmente raddrizza un poliritmo degno del miglior djent. Ancora sax, accenti spostati, poi un organo; e finalmente un'epica melodia di chitarra su un arpeggiatore di tastiera. "Betrayal" viaggia su delle coordinate prog-metal premiate però da una maggiore accelerazione e da interessanti inserti elettronici e industrial (splendidi i suoni di tastiere intorno ai 50 secondi), prima di aprirsi su un poetico break di pianoforte e rituffarsi in un inferno strumentale di riffing serrato, poliritmi e melodie. I tre minuti semiacustici di "Bastion" godono del tocco orientaleggiante delle tablas e del violino, una vera oasi di magia. Chiude "Rapture", il brano più lungo del disco, che in qualche modo riassume l’intero approccio degli EYS alla musica: un gioiello di prog-metal, confezionato in un continuo gioco di rimbalzi tra cori e sassofoni da una parte e distorsioni dall’altra, fino ad un epico finale di strings e soli, quasi una ninna-nanna metal. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (sentite cosa combina intorno ai 2 min) – ma è il songwriting la vera arma degli Earth’s Yellow Sun. ‘The Infernal Machine’ è un disco strumentale che non annoia, non lascia respiro, stupisce in continuazione. Gli EYS sono bravissimi e concentrati, non si perdono in fronzoli, non esagerano nell’autocelebrazione tecnica, non amano la ripetizione pur non disdegnando la melodia. Non mi vergogno a dirlo: buttate nel cestino l’inutilmente lungo 'The Astonishing' degli ormai troppo anziani ed egocentrici Dream Theater, e salite a bordo di questa nuova e fiammante macchina infernale. (Stefano Torregrossa)

sabato 20 febbraio 2016

The Leaving - Faces

#PER CHI AMA: Psych Folk Acustico
Lasciate dissolvere il noise dagli ampli saturi di suoni perché in questo viaggio il silenzio e le pause se la giocano alla pari con la musica. Frederyk Rotter, voce e chitarra degli Zatokrev, una band svizzera dedita da oltre dieci anni al doom/death/sludge metal, ci presenta il suo progetto solista a nome The Leaving. Le coordinate sono quelle di un folk acustico, prevalentemente voce e chitarra, roba che si può scrivere e suonare se si è nati nel Pacific North West degli USA o in qualche piovosa campagna scozzese, ma anche nel Canton Basel-Stadt, da dove proviene appunto l’autore. "In Faces" è il brano di apertura che richiama anche il titolo dell’album: qui la voce e lo stile rimandano ad un eroe del folk inglese come Bert Jansch, quasi sicuramente ignoto ai fedeli supporters degli Zatokrev. La narrazione prosegue con canzoni in bilico tra Nick Drake e Steve Von Till, dove la chitarra acustica è accompagnata da preziosi inserti di violoncello e, talvolta, da lapsteel, basso e batteria, il tutto sempre suonato con molta misura e facendo attenzione a non prevaricare sulla voce. Qualche eco di Neil Young compare in "Hands", brano dove il suono vintage crunch di una chitarra elettrica dialoga con la lapsteel. L’umore generale del disco è quello delle ballate che continuano a crogiolarsi in uno spleen mai troppo decadente, piuttosto melanconico nel suo incedere. Solo nell’ultimo pezzo intitolato "Pulse", la tensione sale e i The Leaving sembrano volerci ricordare da dove provengono: la voce del frontman si abbassa drammaticamente di tono e i cori raddoppiati sono la cosa più vicina allo stile degli Zatokrev, pur restando sempre in territori acustici. Molto buona la produzione del disco, con collaborazioni americane nelle fasi di mixaggio e masterizzazione. Disco consigliato, anche per il bene delle vostre orecchie. (Massimiliano Paganini)

(Czar Of Crickets - 2016)
Voto: 85

https://www.facebook.com/theleavingofficial/