martedì 16 dicembre 2025
Belnejoum - Dark Tales of Zarathustra
Ascolta "Dark Tales of Zarathustra" su Spreaker.
![]() |
| #PER CHI AMA: Symph Black |
I Belnejoum nascono dalla mente di Mohamed Baligh "Qaswad", che con questo 'Dark Tales of Zarathustra', vorrebbe imporsi nel vasto e competitivo panorama del symphonic black/death metal, con un'opera dall'ambizione parecchio evidente, forse troppo. L’album attinge a piene mani dall’eredità di giganti come Nile e Fleshgod Apocalypse, due influenze non proprio messe qui a caso, che emergono chiaramente sia nell'approccio tematico, sia nell'opulenza degli arrangiamenti orchestrali, accompagnati a una marcata vena mediorientale che ne fanno un prodotto alquanto originale, capace di distinguersi in un genere spesso affollato da imitazioni. La produzione, elemento fondamentale per una proposta così articolata, si presenta tuttavia come una lama a doppio taglio. Da una parte, gli arrangiamenti sinfonici, impreziositi da strumenti tradizionali orientali come il ney, sono curati nei minimi dettagli. Dall'altra, la sezione ritmica, nonostante la presenza di musicisti del calibro di George Kollias (Nile), Fabio Bartoletti e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalypse), sembra mancare di quella potenza necessaria per rendere l'esperienza d'ascolto memorabile. Eppure, le chitarre spiccano con un sound incisivo e affilato come ci si aspetta nel black metal, mentre le harsh vocals si alternano a growl profondi, calandosi alla perfezione nella narrazione drammatica dell'opera. L'aspetto lirico è sicuramente uno dei punti di forza del disco, con i testi che scavano nella figura e nella filosofia di Zarathustra, esplorando la sua progressiva corruzione con un viaggio tra desolazione, insanità e discesa spirituale. A livello musicale invece, tra i brani più rappresentativi, citerei la lunga opener, "Prophet of Desolation", che emerge come un manifesto della ferocia sinfonica dell’album, abbinando maestosità orchestrale a martellanti blast-beat. "Tower of Silence", aperto dalla dolcezza del ney (il flauto tradizionale della musica mediorientale), combina aggressività e momenti più atmosferici, con tanto di vocals femminili, a celebrare l’essenza orientaleggiante del concept. "Elegie" è un interludio caratterizzato da un pianoforte e dal raro (fato da tal Rugieri a Cremona nel 1695) violoncello di Jeremy Garbarg che stempera la poetica (per la presenza dello splendido violino di Mohamed Medhat) irruenza di "On Aeshma's Wings", sigillando uno dei brani più brutali dell’album. "In Their Darkest Aquarium", con la sua melodia cinematica, sembra condurre l'ascoltatore in un film di fantasmi, sebbene poi le liriche narrino la storia di un bambino intrappolato in un acquario oscuro. L'arrangiamento alterna momenti eterei con esplosioni di blast-beat e cori spettrali, creando un'atmosfera sinistra che lo distingue come uno dei momenti più evocativi e disturbanti del disco. In sintesi, 'Dark Tales of Zarathustra' è un’opera che merita l'attenzione di chi cerca nel metal estremo non solo velocità e violenza bruta, ma anche profondità narrativa e costruzioni sonore intricate e suggestive, un disco che potrà essere una tappa obbligata per chi è appassionato di sonorità sinfoniche, dal sapore esotico. Un debutto che fa ben sperare per il futuro. (Francesco Scarci)
(Antiq Records - 2025)
Voto: 73
Sickle of Dust - Across the Vultures Trail
![]() |
| #PER CHI AMA: Atmospheric Black |
Da Mosca si fa strada il progetto solista dei Sickle of Dust, guidato dal talentuoso e visionario Ash, che con le sue cinque nuove tracce, crea un tappeto sonoro capace di trasportare chi ascolta, in un universo fatto di desolazione e gloria. L’album, intitolato 'Across the Vultures Trail', originariamente rilasciato in formato digitale all’inizio 2025, trova ora spazio anche in versione fisica, grazie all’etichetta italiana Flowing Downward, sempre attenta alle produzioni più oscure e affascinanti dell’underground musicale. Questo lavoro rappresenta il quinto capitolo di una saga che ha consolidato i Sickle of Dust come un punto di riferimento nell’atmospheric black metal. Con uno stile che richiama l’epicità dei Summoning e la capacità narrativa degli Eldamar, Ash eleva il proprio approccio compositivo, intrecciando maestose melodie sinfoniche a riff taglienti e potenti, offrendo un’esperienza sonora che si colloca tra intensità e sogno. L’album prende il via con "Brothers of the Storm", una vera e propria porta verso l’ignoto. Con un’introduzione trionfale e atmosferica, arricchita da trombe e percussioni folk/marziali, il brano cresce attraverso una combinazione di riff black e voci graffianti. L’effetto è quello di evocare vividi paesaggi fantasy, un tema ricorrente che accompagnerà l’ascoltatore nei 40 minuti di questa affascinante opera. "On the Battlefield" cattura subito l’attenzione grazie alla presenza del talentuoso mandolino di Ilya Lipkin, uno strumento che arricchisce l’arrangiamento iniziale del pezzo con un tocco delicato e originale. Ritroveremo la sua maestria anche nella quinta traccia, "The Black Stones Inn", stavolta alla chitarra acustica. Qui il viaggio musicale si fa più compassato con melodie evocative e momenti di calma meditativa quasi surreali, offrendo un suggestivo equilibrio tra intensità e fragilità. La title track rappresenta il cuore pulsante dell’album. Le melodie della tromba scorrono centrali accanto a una meticolosa trama di chitarre orchestrate, mentre lo scream di Ash, aggiunge profondità al brano. Segue "Wizards Don’t Dance", che conserva un’atmosfera soffusa e affascinante con una narrazione musicale coinvolgente. Tuttavia, qualche accelerazione più audace avrebbe potuto dare maggiore dinamismo alla struttura complessiva, evitando una certa ripetitività nella formula stilistica. Chiude l’album la già citata "The Black Stones Inn", che si apre con una malinconica sezione acustica nuovamente impreziosita da Ilya. Il brano regala un finale intenso e contemplativo caratterizzato da vocalizzi puliti e profonde incursioni folkloriche, lasciando l’ascoltatore sospeso in un’atmosfera intrisa di poesia sonora. In sintesi, 'Across the Vultures Trail' si erge come una gemma nell’universo underground del 2025, un lavoro ideale per chi ama avventurarsi tra paesaggi sonori ricchi di ombre e mistero. I Sickle of Dust dimostrano di essere ancora una volta dei narratori musicali straordinari, capaci di rendere ogni brano parte di un viaggio indimenticabile. (Francesco Scarci)
(Flowing Downward - 2025)
Voto: 75
Starlit Pyre - Veins of Sulfur
![]() |
| #PER CHI AMA: Melo Death |
Il debut EP dei francesi Starlit Pyre, 'Veinsof Sulfur', si colloca con una certa prepotenza nel panorama del melo-death con qualche robusta iniezione di metalcore, per un sound che evoca tanto la potenza degli Arch Enemy, quanto la vena melodica degli In Flames, pur mantenendo un'identità fresca e contemporanea. La produzione è pulita, quasi chirurgica: le chitarre sono affilate e tridimensionali, con un croccantezza ben definita che non sovrasta mai il basso, presente e roccioso; la batteria poi è dinamica e potente. La voce di Nicolas Potiez infine, è una buona amalgama di growl e scream più ruvidi che aggiungono uno strato di aggressività ben calibrata. Il dischetto si apre con la marcia inarrestabile di "Empire's Downfall", che s'impone come un inno di battaglia, caratterizzato da riff cadenzati e un coro che è pura adrenalina, un vero manifesto della loro miscela melo-death di scuola svedese, che si confermerà anche attraverso la ritmica, forse ancor più incisiva, della successiva "Solar Rays". La title track, "Veins of Sulfur", è un altro pezzo roccioso che si dipana tra sassate di grancassa e ringhiate di chitarra, in un viaggio sonoro che non rinuncia neppure a momenti tecnici, a un bridge di grande impatto e a un assolo da urlo. "On My Own" si affaccia, almeno inizialmente, sul lato più melodico e orecchiabile della band, con un'architettura più aperta, che ben presto si trasformerà, attraverso incisive dinamiche compositive, in un'arma tagliente e letale che chiude alla grande un lavoro convincente e da ascoltare obbligatoriamente. (Francesco Scarci)
(Self - 2025)
Voto: 73
venerdì 12 dicembre 2025
The Rootworkers - Don't Beat a Dead Horse
![]() |
| #PER CHI AMA: Garage/Desert Rock |
L'ultima fatica discografica, in realtà il primo full length della band marchigiana The Rootsworkers, è alquanto interessante, non per lo stile scelto ma per il tipo di registrazione che lo caratterizza e lo identifica nell'atlante geografico musicale mondiale. D'altronde, come sempre dichiarato, le radici della musica di questa band sono radicate sulle rive del delta blues americano delle origini. Quindi, è un suono caldo e umido quello che ci attende, ma anche corposo che richiama i classici ritmi e stereotipi del genere, e li rivive anche con un sound granuloso, ruvido e psichedelico, che sta a metà strada tra il garage e il desert rock. La cosa strana è che alla fine questa soluzione non soddisfa né uno né l'altro stile, perché il risultato, sarà per l'effettistica usata sulla voce e quei bei riverberi vintage, li fa assomigliare più ai nipotini (anche se meno sperimentali), del mitico Captain Beefheart nel disco 'Clear Spot', che cercano di risuonare questo album alla maniera dei Mother Superior, non la band americana che collaborò con Henry Rollins, ma quella svedese di 'The Mothership Movement', splendido esempio di garage rock del 1999. 'Don't Beat a Dead Horse' è un album molto bello, giocato su suoni retrò, distorsioni e sonorità che si srotolano tra un rock aspro e un vellutato blues d'altri tempi, come nel caso di "Desert", mentre in "Unstoppable Pleasure", la mente torna ai primi anni 2000 e al modo ruffiano di fare indie rock degli EELS in 'Soul Jacker', anche se in questo disco, e va sottolineato, il classic rock blues è sempre e comunque predominante. Molto interessante "It's Gone (and Its Allright)", song dal piglio cool e suoni dilatati, una voce graffiante alla Tom Waits, un pathos che mette in risalto una ricerca sonora bella e certosina, a forza inseguita dalla band, che immerge le canzoni in un misto di suono lo-fi, ronzii e suoni rudi annessi, per una cavalcata verso il mitico "Rancho de la Luna", quel posto che ha dato vita a suoni e album dal sound immenso. I The Rootworkers lavorano sulla personalità, sfornando suoni veri, reali, fatti di sudore e polvere, che provano di continuo a ritagliarsi uno spazio sonoro proprio, cosa non certo facile in questo ambito musicale, ma la qualità compositiva e il buon gusto verso certe sonorità, li aiutano a non farli cadere nel mai così scontato baratro della deriva stilistica. Per concludere, possiamo definitivamente approvare questa nuova fatica dei The Rootworkers e catalogarla tra gli album doverosi di un ascolto a tutti i costi. Lasciatevi trasportare dal calore liquido di "Dead Flower Blues", per una fuga psichedelica di tutto rispetto. Un disco da ascoltare a tutti i costi, dove la mia preferita è l'acida e irriverente "Not My Cup of Tea". (Bob Stoner)
(Bloos Records - 2025)
Voto: 70
mercoledì 10 dicembre 2025
Nimbifer – Vom Gipfel
![]() |
| #PER CHI AMA: Raw Black |
L'ultimo assalto sonoro dei tedeschi Nimbifer, l'EP 'Vom Gipfel', è una nuova incursione in quel black metal crudo e ferale, che li ha resi uno dei nomi caldi della scena underground dopo l'ottimo 'Der Böse Geist' dello scorso anno. Un nuovo trittico di tracce a incarnare il nucleo più gelido e battagliero del black teutonico, che potrebbe riecheggiare nella potenza grezza e nello spirito nichilista dei primi Darkthrone, con una vena epica che non disdegna neppure l'influenza di certe atmosfere dei Bathory più ancestrali. La produzione sembra volutamente lo-fi, funzionale e in linea col genere, un muro sonoro dove il tremolo picking delle asce, affilate come lame di ghiaccio, si fonde in un impasto sonoro che lascia poco spazio a pulizia e modernismi, mentre il basso si muove in sottofondo come un'ombra minacciosa e la batteria, martellante e primordiale, suona secca e distorta. Il cantato di Windkelch è poi un urlaccio disperato, che squarcia il magma sonoro con urgenza quasi ritualistica. "Der Berg" spicca per la sua marcia inesorabile e le sue algide melodie ossessive, un'esemplificazione perfetta della loro miscela tra furia ed epicità, mentre il lancinante cantato del frontman, fa sgorgare sgraziatamente dalla propria gola tutto il proprio dissapore. Subito dopo, "Das Ende" s'introduce più compassata, ma non temete perché il ritmo sfocerà ben presto in un blast beat corrosivo con una qualche venatura folk in sottofondo a evocarmi un che dei Windir, soprattutto nella parte conclusiva. La chiusura "–Rückkehr–" è ahimè un inutile brano ambient che nei suoi quattro minuti scombina tutto quanto ascoltato sin qui. In conclusione, 'Vom Gipfel' è un lavoro di raw black metal, essenziale, onesto e brutale, caldamente consigliato a chiunque sia devoto al suono dei primi anni '90, ma soprattutto a chi non cerca produzioni patinate o elementi progressivi. (Francesco Scarci)
(Vendetta Records - 2025)
Voto: 66
lunedì 8 dicembre 2025
Asunojokei - Think of You
![]() |
| #PER CHI AMA: Blackgaze/Post Hardcore |
Il terzo album dei giapponesi Asunojokei, 'Think of You', rappresenta un ulteriore e deciso passo avanti nella definizione del loro stile unico, da loro battezzato Blackened J-Rock. Questa particolarissima commistione di blackgaze, prende vita grazie a un sapiente equilibrio tra la grinta del black metal atmosferico e l’eleganza melodica tipica del pop e del post-hardcore nipponico. È un mix che s'ispira a illustri predecessori come i Deafheaven, ma che porta queste sonorità su un piano inedito, aggiungendo una profondità emotiva rara. La produzione è incredibilmente pulita, fin quasi al limite della perfezione per un genere che solitamente abbraccia una certa ruvidità sonora. Questo rende però possibile cogliere ogni singolo dettaglio degli arrangiamenti. Le chitarre di Kei Toriki brillano con un carattere cristallino, dove i riff in tremolo picking si distendono in melodie aperte e luminose. Il basso fretless di Takuya Seki dona una dimensione jazzata che sorprende per quanto s'integri naturalmente nel tessuto sonoro. Alla batteria, Seiya Saito si muove con estrema versatilità tra frenetici blast beat e passaggi più lenti e riflessivi. Dal canto suo, Daiki Nuno si destreggia tra urla screamo cariche di intensità emotiva e linee vocali pulite molto più confidenziali rispetto ai lavori precedenti. Ci sono momenti in cui il suo screamo, talvolta dal taglio quasi punk, può sembrare un po' in contrasto con la ricchezza strumentale, ma questa scelta aggiunge una tensione che non passa inosservata. L’album si apre con "Dawn", una traccia che funge da dichiarazione d’intenti. Qui i toni post-hardcore iniziali sbocciano in una travolgente esplosione blackgaze, stabilendo subito il mood del disco. "Stella" è un altro snodo fondamentale: i delicati arpeggi iniziali creano un’atmosfera sospesa che viene poi interrotta da growl rabbiosi, in un gioco di contrasti tra presente e ricordi più oscuri. "Angel" si distingue per una tonalità più melodiosa nella sua apertura e si impreziosisce ulteriormente con un assolo di basso sinuoso e jazzato che sembra quasi avvolgere l'ascoltatore nel cuore della notte, prima di sfociare nell’inevitabile climax sonoro. Il richiamo ai Deafheaven rimane ben percepibile lungo tutto l’album, ma gli Asunojokei sanno come affermare la propria identità, seppure con influenze evidenti. Ad esempio, in "Zeppelin", il gruppo intraprende un viaggio che parte da un’introduzione emo-punk dal taglio malinconico per arrivare a esplosioni di riff travolgenti e orecchiabili. Questa traccia emerge come uno degli inni più memorabili del disco, rimanendo impressa nella mente molto dopo l’ascolto. 'Think of You' alla fine brilla per personalità: ogni brano mostra la maturazione della band, sia nella composizione che nelle intenzioni emotive. Il risultato è un lavoro potente e ben definito, in grado di sposare la forza del metal con una sensibilità più melodica e riflessiva. È una colonna sonora perfetta sia per le giornate illuminate dal sole sia per le notti cariche di malinconia. Un ascolto consigliatissimo per chi ama il lato più emozionale e intimo del metal, dove le atmosfere "gaze" prendono il sopravvento sull’austerità tipicamente associata al genere. (Francesco Scarci)
(Vinyl Junkie Recordings - 2025)
Voto: 73
Tsorvat - Reflections of Solitude
![]() |
| #PER CHI AMA: Suicidal Black Metal |
M piace andare a pesca negli acquitrini più isolati, lo trovo decisamente stimolante. Il pescato di oggi mi porta negli States con la one-man band dei Tsorvat e il demo di debutto, 'Reflections of Solitude', che si colloca nella scia del depressive suicidal black metal, con riferimenti stilistici che vanno dai primi Shining (quelli svedesi) agli umori rarefatti e disperati di altre formazioni più atmosferiche (Lustre). Come spesso accade in questi casi però, non si va a reinventare la ruota, si prova semmai a farla girare nel modo più corretto per i canoni del genere. Questo per sottolineare che il mastermind originario della California, non propone nulla di nuovo, regalando riff glaciali, tetri e al contempo introspettivi in un contesto estremo, mitigato dalla presenza di sinistre tastiere ("From the Ruins of Memory"), quasi una rinnovata versione dei Burzum dei tempi d'oro, quelli dotati di un suono monotono e ipnotico, in cui il gracchiato isterico delle vocals s'insinua in una ritmica in cui la batteria predilige blast beat veloci ("White Nail") per contrastare la melodia delle chitarre o un sound che si farà decisamente più oscuro ("The Murmuring Grove"). La catarsi si raggiunge nella conclusiva "Spiritbound", il pezzo migliore del lotto, per frenesia, convinzione, melodie e disperazione delle sue vocals. Insomma, un disco per pochi fan incalliti del depressive, che cercano nella musica, uno specchio delle proprie angosce più profonde. (Francesco Scarci)
(Self - 2025)
Voto: 61
Iscriviti a:
Commenti (Atom)







