Cerca nel blog

lunedì 13 marzo 2017

Teleport - Ascendance

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive, Enslaved, Voivod, Deathspell Omega, BTBAM
Non c'è solo una certa animosità a livello politico in giro per il mondo, c'è anche un fermento artistico che fa spuntare come funghi band di qualità, un po' ovunque. Oggi la nostra attenzione si sposta in Slovenia, luogo da cui arrivano questi notevoli Teleport, con un sound che non è altro che una miscela intrigante di black avanguardistico unito a reminiscenze thrash/death, probabile retaggio dei trascorsi della band, il tutto affrontando tematiche sci-fi. Cinque i brani a disposizione del quartetto di Ljubljana, anche se "Nihility" è in realtà una intro che ci conduce a "The Monolith", fondato su delle ritmiche sghembe che per certi versi mi riconducono al sound deviato dei Deathspell Omega che si unisce con quello più progressive di Enslaved e perchè no, Voivod. Qui le chitarre si muovono infatti a cavallo tra cavalcate death e stilettate black, su cui si insinuano quei maligni stacchetti cigolanti che compaiono nella musica dei gods francesi, il tutto condito da vocals oscure e malefiche. La musica dei Teleport si arricchisce di devianze techno death nella terza "Artificial Divination", song contorta, di difficile ascolto ma che sputa fuori un lungo assolo di chiara derivazione aliena, che esalta le potenzialità delle asce, cosi come pure innalza l'asticella per l'act sloveno. I cambi di tempo si sprecano nella song dove a tratti diventa quasi arduo seguire il filo conduttore di un death black che sembra quasi basare il suo flusso sonico sull'improvvisazione matematica. Con "Realm of Solar Darkness" la musica non cambia, facendosi ancor più complicato star dietro ai deliranti giri di chitarra dell'ensemble, suggerendomi che all'interno del sound dei nostri ci siano anche influenze math di scuola Between the Buried and Me, questo a certificare anche un tasso tecnico davvero elevato, che forse toccherà la summa nella conclusiva "Path of Omniscience". Gli ultimi cinque minuti sono costituiti inizialmente da sonorità più meditative che presto saranno in grado di tradursi in un black progressive mid-tempo, sancendo cosi lo sbocciare di una nuova folgorante band estrema dalla piccola grande Slovenia. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

https://teleport1.bandcamp.com/

Monolith Wielder - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Argonatua Records è un vascello carico di merci pregiate in rotta verso l’aldilà. E questa volta, tra le sue mille scorribande, è riuscita ad accaparrarsi questi fantastici stoners desertici, i Monolith Wielder. Al solito la grafica del disco è la prima cosa che salta all’occhio ed in questo caso le immagini introducono adeguatamente la musica. Una processione di figure incappucciate che avanzano in linea retta nel deserto all’ombra di una pigra collina oscura. Non ci è dato sapere per quale motivo queste anime si trovino in quel luogo, potrebbe essere la loro dimora oppure potrebbero essere intenti ad un rito di magia nera o ancora potrebbero essere in fuga da una rovinosa catastrofe e ora quindi vagano senza meta nel deserto, assetati di vendetta. Saltando dall’immagine al suono, la fantasia non smette di correre sorretta dalle sapienti mani del quartetto di veterani della scena stoner di Pittsburg. L’incipit “Illumination” pone le fondamenta per le altre nove monolitiche tracce con i suoi suoni dalle tinte marroni e dagli angoli spigolosi, con la voce roca e graffiante di Gero (no, non è il big boss di Argonauta, ma solo un caso di omonimia) e con le ritmiche minimalistiche ed irriducibili di Ben. Viaggiando tra le composizioni compatte, ostinate e piene di energia si possono ammirare interessanti influenze primitive che sembrano scendere dall’alto dei cieli dove sta 'Welcome to Sky Valley' oltre che per una stretta vicinanza al timbro vocale dell’imperatore King Buzzo. Per di più qualcosa mi fa pensare che senza l’influenza dei Motorhead, questa band non sarebbe mai esistita. Il pezzo da non perdere è sicuramente quello che porta il nome della band e del disco che, caratterizzato da un lirismo audace che tocca addirittura riferimenti biblici nel verso “You will deny me three times before sunrise” , porta un messaggio forse un po’ difficile da leggere tra le righe ma sicuramente significativo. Il messaggio che percepisco io è che la canzone sia una sorta di incantesimo per liberarci dall'immotivata vergogna di essere ciò che si è e di affrontare la paura senza passi indietro e rialzandosi sempre. I testi non sono una cosa lasciata a se stessa in questo lavoro, le parole sono scelte con uno spiccato gusto per il mistero e per le sonorità aspre. È inoltre evidente la propensione poetica ed ermetica che raggiunge il suo apice nel testo dell’ultimo pezzo, una poesia ombrosa e profetica sulla discesa di un certo Hellion dagli zoccoli pesanti che firma il suo passaggio con scie di sangue e violente carneficine. Questo è un disco da ascoltare quando mancano le energie e le motivazioni, quando tutto sembra un immenso deserto senza fine, i Monolith Wielder sanno perfettamente dove si trovano le oasi di acqua limpida e, prestandogli ascolto, anche l’ascoltatore potrà dissetarsi e proseguire per il proprio cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://monolithwielder.bandcamp.com/releases

domenica 12 marzo 2017

Afraid of Destiny - Hatred Towards Myself

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Gli Afraid of Destiny nel 2017 rilasceranno il loro secondo full length. Cosa di meglio allora che recuperare il loro ultimo EP, 'Hatred Towards Myself' e fare la conoscenza di questa realtà nata come one man band e nel frattempo divenuta un quartetto? Nati nel 2011 come Vitam Nihil Est, la creatura guidata da Adimere cambia ben presto moniker in Afraid of Destiny, dando alle stampe in sequenza ad uno split album, al debut, ad un altro paio di split prima di giungere a questo EP, datato 2013-2014 ma uscito solo nel 2016 in 50 limitatissime copie, che include tre sofferenti tracce di suicidal black. Come vuole il genere, ci troviamo di fronte a song dilatate, con ritmiche mid-tempo, chitarre ronzanti (Burzum docet), qualche raro utilizzo di synth e screaming vocals che trattano tematiche legate alla depressione o al suicidio. Questo è quanto potrete ascoltare nella opening track "Reflecting Under an Ascending Moon" e più in generale in un disco che raccoglie ovviamente tutti i cliché di un genere e ricerca, per quanto sia possibile (e complicatissimo), delle variazioni al tema. Ecco perché la traccia nel suo epilogo emula il conte Grishnackh e le sue intuizioni di 'Det Song Engang Var'. Un lunghissimo arpeggio di oltre tre minuti, apre "I Reject Life" (un vero inno alla vita) che poi si abbandona in un crescendo melodico davvero succulento che mantiene tutta la mia attenzione all'ascolto di questa song strumentale che sfodera alla fine anche un attacco di matrice post black. Si arriva alla title track, traccia dal mood oscuro e paranoico, in cui il buon Ayperos alla voce sembra un Gollum travestito da cantante. La song preserva lungo i suoi sei minuti il suo abito grigio scuro, quello da colloquio di lavoro, l'abito delle giornate di pioggia, quello ideale per un giorno da funerale, si il proprio. (Francesco Scarci)

giovedì 9 marzo 2017

Evenline - In Tenebris

#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore, Alter Bridge, A Perfect Circle, Papa Roach
Con questa release, uscita sotto l'egida della Dooweet Agency nel gennaio del 2017, i francesi Evenline confermano il loro stato di grazia compositiva. Dopo un ottimo precedente album ('Dear Morpheus'), recensito su queste stesse pagine, come album dai toni marcatamente post grunge, la band transalpina opta per un sound più raffinato e colto (ascoltatevi a tal proposito 'In the Arms of Morpheus', mini album acustico per capire l'evoluzione, l'apertura mentale e le potenzialità di questo gruppo). Pur mantenendo le forti radici nella musica di Seattle, il combo parigino riesce a fondere le sue composizioni con una forma più progressiva e d'atmosfera che tocca vertici di tutto rispetto. La musica, condotta dalla magistrale e dotata voce di Arnoud Gueziec (che canta sia in pulito che growl), è derivata da band di culto come Porcupine Tree ed A Perfect Circle pur mantenendo comunque intatta la propria originalità e freschezza. Passo dopo passo, i brani scivolano veloci, coinvolgenti e potenti tra manierismi del genere e vere e proprie chicche di tecnicismo progressivo: "Straitjacket", "Echoes of Silence" e la dirompente "Never There" con il loro sound spolverano inserti metalcore stimolanti ed energici, rievocando l'alternative metal delle ultime uscite degli In Flames, suonati a meraviglia da musicisti che sanno come farsi applaudire ed ascoltare, e che usano suoni duri in modo accessibile ed orecchiabile senza ammorbidire o commercializzare a dismisura la propria proposta. Neppure la cover di Jamiroquai (si avete letto bene) "Deeper Underground", fa cadere i nostri nel vortice della banalità in quanto, rivista nel loro stile, trova un suo perché nel corso del lungo album, non sfigurando affatto. Comunque preferisco le loro composizioni originali che risultano molto più intense, cariche e più personali ovviamente, come la supersonica "From the Ashes", e quel suo riffing iniziale "meshugghiano". Ottima la produzione con soluzioni moderne e accorgimenti degni di un album mainstream, con suoni azzeccatissimi ed un equilibrio perfetto dove poter assimilare e gustare ogni singolo suono e strumento. Dieci brani tutti da ascoltare ad alto volume senza respirare, carichi di intensità, d'atmosfera e interpretati con quella tensione mista ad un sofferto e arrabbiato romanticismo che da tempo non sentivo in un lavoro, forse paragonabile ai bei tempi dei Temple of the Dog. Una veste aggressiva e raffinata aggiunta a quello che potrebbe essere lo standard operativo degli Alter Bridge, citati dalla band tra le tante fonti d'ispirazione, un look alla Muse, una preparazione tecnica e una propensione al (prossimo) salto mainstream, sono attitudini che meritano di essere premiate. Questo album sono certo non vi deluderà! (Bob Stoner)

Ande - Het Gebeente

#PER CHI AMA: Punk/Post Black
Lo stuolo di one man band si fa più sempre più corposo qui nel Pozzo dei Dannati. La band di oggi arriva dal Belgio, parte fiamminga mi pare di capire dalla "durezza" del titolo, con un disco che rappresenta la seconda fatica per il mastermind Jim, dopo il positivo esordio 'Licht', di due anni fa. Non è certo una regola scritta, ma chi è parte di una one man band, notoriamente suona black metal e gli Ande infatti non sono immuni a questa legge non scritta. Sei le tracce incluse in questo 'Het Gebeente', di cui una è il prologo che fa da apripista al sound tortuoso e feroce di "Argwaan", che delinea per sommi capi la proposta del combo belga: un riffing efferato in salsa punk black costituisce il background su cui si muovono i nostri, da cui si ergono le vocals incomprensibili e spietate del cantante. La song, nei suoi oltre otto minuti, va dritta al sodo, tagliente più che mai con una crudezza vocale data da uno screaming che di umano ha ben poco, e in cui gli accenni di melodia si dimostrano merce assai rara. Non c'è spazio per sprazzi di luce o di un barlume di speranza nel sound degli Ande. Anche se "Gebukt" è più compassata nel suo incedere, le sue fattezze sono spettrali, amplificate poi da una voce dilaniata e da vertiginose accelerazioni post-black, interrotte da ipnotici giri di chitarra black doom. Non è proprio una proposta facile da digerire quella contenuta in questo primitivo e misantropico 'Het Gebeente'; c'è un che dei Darkthrone nelle linee di chitarra di Jim, anche se poi influenze post e una leggera vena atmosferica, contribuiscono a prendere le distanze dall'ensemble di Fenriz e soci. "Oud En Vet" è interessante per un tribale break down centrale ma anche qui poi la rigidità delle ritmiche, cosi come la mancanza di melodia o di qualche orpello stilistico che permetta un ascolto più easy-listening, rendono questa traccia cosi come la successiva "Leeg", davvero montagne insormontabili. Ci pensano ancora una volta gli ostici intermezzi ambient (a tal proposito complicato è il finale ambient drone affidato a "Uittrede") a dissipare qualche nube e rendere l'ascesa verso il picco, un po' meno difficoltosa. In realtà, ancor più che le pause atmosferiche, credo che siano le accelerazioni post black a conferire una maggiore accessibilità a questo disco. Buffo da credere, ma 'Het Gebeente' non è certo un album per tutti, neppure per molti a dire il vero, forse solo per pochi mefistofelici intimi. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 marzo 2017

The Red Barons – Together

#PER CHI AMA: Rock/Blues/Post Grunge
Uscita un po' acerba quella di 'Together' dei transalpina The Red Barons che, nonostante la bella e facoltosa voce di Oriane si perde nei meandri del già sentito, non proprio originale ma sempre vivo classic rock, fatto con passione e impegno. Capiamoci, a creare il misfatto non è l'incapacità dei musicisti ma una produzione sommaria, che non appaga la verve dei musicisti, attempata e senza mordente, che rincorre atmosfere air metal anni ottanta, quando la band avrebbe bisogno di entrare in un ambiente molto caldo, retrò e vibrante stile Blues Pills (guardatevi la performance live su TV7 FR, sulla loro pagina facebook), come nella bella e intrigante "Brunch", dallo stile esotico e introverso dove Oriane si mette veramente in mostra, sfiorando le vette di una Skin in perfetta forma. Dietro ad ogni album c'è sempre un lavoro enorme, anche se capita a volte, soprattutto nelle produzioni di questo tipo, che per svariati motivi vengano offuscate le buone idee e le capacità, non si centrino le giuste sonorità, snaturando poi musiche che hanno bisogno di un suono reale e naturale, con un tocco vintage, dinamico e moderno. Il contesto sonoro creato dal quartetto francese ha delle potenzialità, giostrato in una costante atmosfera post grunge con influenze rock blues, e caratterizzato da una voce sublime che potrebbe essere paragonata, in taluni momenti, anche alla mitica voce dei primi irraggiungibili Pentangle dell'omonimo album del 1968, cosi ipnotica, intensa e calda. Quello che stona in questo lavoro uscito sotto la guida della Dooweet Agency è, come già detto, la gelida interpretazione del suono della band, che non entra mai in sintonia con la voce, nemmeno nello stacco in levare sulle ali di una Patty Smith d'annata. La preparazione è buona, i generi da cui attingono i nostri sono parecchi, molte le idee anche se da focalizzare, il groove, di estrema importanza in una band con queste caratteristiche, c'è ma non è esposto con il dovuto maniacale senso dell'esibizionismo. L'esperimento in campo metal della conclusiva "The Life" mette poi in risalto i limiti di una band che deve ancora crearsi una vera identità. Guidati da una voce così carismatica, nei momenti più ipnotici, si vede nitida all'orizzonte la potenzialità di riuscita e il bersaglio sembra a portata di mano con una semplice e leggera opera di affinamento del suono. Grandi le potenzialità dunque, ma penalizzate da una produzione non eccezionale. Comunque vada, vi suggerisco di ascoltare quest'album, alcune song non suonano affatto male. (Bob Stoner)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/trbarons

lunedì 6 marzo 2017

Zorndyke - Witchfun

#PER CHI AMA: Thrash/Death Old School, Nunslaughter
A distanza di quattro anni da 'On Mayor Altar's Edge' tornano gli Zorndyke con quest'ultimo 'Witchfun'. Ultimo non tanto perché sia la loro ultima release discografica, ma perché effettivamente si son sciolti dopo la sua pubblicazione. Leggendo il booklet c'è un certo sentore di un disco d'addio, con i lunghi tempi di (de)composizione e produzione dell'opera, i saluti ai dimissionari della band i quali hanno contribuito alla creazione del disco, e le foto delle loro numerose avventure. Ma c'è stranamente anche la presentazione di due nuovi membri e questo lascia uno spiraglio di incertezza (nonostante in Encyplopaedia Metallum sia cambiato lo status in "split-up"). Parlando di cose più concrete, la sensazione e gli umori, che emana la band padovana non sono cambiati nel corso del tempo, anzi probabilmente si sono resi leggermente più cupi con quest'uscita. L'artwork a matita rappresenta al meglio la musica fetida che i nostri propongono, e i titoli delle tracce sono tutti riconducibili al fare occulto e alla stregoneria di diversi immaginari. "The Brown Jenkin" è la bestiola della strega Keziah nel racconto 'I Sogni della Casa Stregata' di Lovecraft, "Osculum Infame" è il saluto rituale al demonio, mentre la traccia di apertura non poteva che essere "Haxan", come l'omonimo film-documentario svedese sulla stregoneria che negli ultimi anni è stato saccheggiato da un notevole numero di band, soprattutto in ambito doom. Essa è un'introduzione lenta, pesante con accelerazione thrash, tutto il contrario della potenza che fuoriesce dalle successive "Ten Thousand Needles" e "Reavers Of Their Eternal Sleep", che accennano ritmiche veloci e selvagge con sonorità classiche stile speed/thrash anni '80. Queste sonorità hanno prevaricato la componente crust punk del precedente lavoro, componente che non manca nemmeno in questo lavoro ma che risulta decisamente meno marcata. Il disco si alterna così tra suoni oscuri e produzione pessima, sfuriate death, cavalcate crust e puntatine chitarristiche thrash. "Be Bewitched" è la prova principe della violenza di questa band, in cui la voce mostra spasmodici cambi tra growl e scream ed insieme alle ritmiche furiose, dispensa inattesi sberloni sonori. L'ultima "Unctorial March" è forse il punto più alto di questa stregoneria con il suo sviluppo e il suo trasudare sulfureo. Come dico spesso, il ritorno a sonorità vecchia scuola ha creato tante band valide e altre un po' meno, il che contribuisce a distinguere i musicisti dai perditempo. Io sono il primo che non sopporta la semplicità, ma in certi casi la si può trascendere, e qui la conclusione è univoca: attitudine. Musica veicolo di bestialità, musica non curante del resto, musica per suonare e godere del suonare. E se non ci sono questi prerequisiti non c'è metal estremo vecchia scuola. Cari saluti ai Zorndyke. (Kent)

(Baphomet in Steel - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/ZORNDYKE-53181357269/

Birnam Wood - Warlord

#FOR FANS OF: Stoner Rock/Metal, Kyuss, Fu Manchu
Fresh off their last release, Massachusetts stoners Birnam Wood have continued to spread their massive, comprehensive sound that adds to their medieval-based imagery that was a part of their works up through their present offering. For the most part, that means this is kept to a relatively simple formula of heavy droning riff-work and plenty of swirling reverb-laden rhythms, all done with solid melodic croons over the simple paces which features the fuzz-riddled production so familiar in the genre for nearly every track here. Given that there’s very little leeway within the tracks as the only difference between everything is either a mid-tempo charge like the title track or slow, sprawling epics such as ‘Wizards Bleed’ or ‘Two Ravens,’ so it tends to give off its hand quite easily in terms of stylistic approaches. While this style would surely have rated a little higher on a full-length with more opportunities to impress, the fact that it's so short and is only these four tracks does lower it slightly. (Don Anelli)