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sabato 5 settembre 2015

Atten Ash - The Hourglass

#PER CHI AMA: Death Doom, Daylight Dies, Rapture, primi Katatonia
Li avevo menzionati in occasione della recensione dei Norilsk; finalmente ho modo di parlarne più dettagliatamente grazie a 'The Hourglass', disco originariamente registrato nel 2012, ma che solo a febbraio di quest'anno ha visto la luce, grazie alla Hypnotic Dirge Records. Sto parlando degli statunitensi Atten Ash, trio del North Carolina, fautore di un sound che ha più di qualche punto di contatto con i conterranei Daylight Dies. Si inizia con "City in the Sea" che propone un sound vicino al death doom, anche se poi certe aperture melodiche (al contempo malinconiche) palesano piuttosto influenze che spazziano dai Katatonia di 'Brave Murder Day' ai finlandesi Rapture. E con questa attitudine death doom darkeggiante, gli Atten Ash finiscono per coinvolgermi sin da subito per quella loro vena oscura, sorretta da ottime melodie e brillanti assoli, che rendono questo loro debutto a tratti parecchio accessibile. Come sempre, desidero sottolineare che non ci troviamo nulla di originale fra le mani, anche se l'ottimo songwriting, sorretto dalle inevitabili growling vocals e da egregi arrangiamenti, contribuiscono a consegnarci un lavoro maturo e di tutto rispetto. "See You... Never" è un pezzo che strizza maggiormente l'occhiolino alla musicalità dei Saturnus e l'eccelsa produzione non fa altro che enfatizzare la qualità di un lavoro già di per sé assai buona; metteteci poi uno splendido assolo alla fine del brano e potrete godere anche voi delle qualità di questo ensemble a stelle e strisce. In "Not as Others Were" è da segnalare l'utilizzo delle clean vocals a cura di James Greene (un po' il factotum della band) che si contrappongono al cantato feroce di Archie Hunt. "Song for the Dead" (cosi come "First Day" o nella conclusiva e notturna titletrack) vede di contro, il totale abbandono delle voci death a favore di un cantato in grado di agevolare maggiormente un avvicinamento anche per coloro che non hanno molta confidenza con il death doom. Ancora una volta, la componente solistica e una discreta dose di suoni progressivi, intervengono a favore dell'ottima riuscita del disco. Lo stesso si potrebbe dire per la successiva "Born", song che a parte qualche grugnito qua e là, che ci sta peraltro davvero bene, farà la gioia degli amanti del doom alla Doom:Vs, complici anche la presenza di interessanti break crepuscolari. Insomma che altro dire, se non consigliare caldamente un'altra uscita targata Hypnotic Dirge Records: poche releases ma sempre di ottima qualità! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/attenashband

Sarpanitum - Blessed Be My Brothers…

#PER CHI AMA: Brutal Death Melodico, Mithras, Nile
Non sono mai stato un fan del death metal tout court, di quello fatto di chitarre arroventate, growling vocals paurose e sezioni di batteria che somigliano più ad una contraerea impazzita che a uno strumento musicale. Quando però c'è da essere obiettivi e togliersi il cappello di fronte ad una band eccezionale che propone tale genere, io sono il primo a farlo. Da quando mi sono imbattutto nel furibondo e quanto mai tagliente sound degli inglesi Sarpanitum, non ne sono più riuscito a fare a meno. 'Blessed be my Brothers...' si è consumato all'interno del mio lettore, fosse quello dell'auto o di casa. Il trio di Birmingham mi ha letteralmente conquistato con quel loro modo di suonare tanto debitore della scena inglese, Mithras in testa. Non a caso tra le fila del combo albionico milita proprio Leon Macey, chitarrista e batterista della band britannica suddetta. E parte dell'impianto sonoro che il buon Leon utilizza nella sua band principale, è stato trasferito anche nella matrice dei Sarpanitum. Ritmiche serratissime e acuminate come un rasoio, tirate a velocità supersoniche ma anche dotate di rallentamenti da brividi. Una intro strumentale a dir poco notevole e poi tocca a "By Virtuous Reclamation" farsi portavoce del marchio di fabbrica dei Sarpanitum: si tratta di una cavalcata di vorace ed epico death brutale, in grado di maciullare le carni ma anche di deliziare con mirabolanti aperture melodiche in grado di scatenare brividi mai ipotizzati per tale genere. Incredibile a dirsi di un disco che parte da solidissime basi death metal che poggiano sui dettami di gente del calibro di Nile o Immolation, o per rimanere in casa loro, di Napalm Death o Benediction. I Sarpanitum non sono degli sprovveduti e la loro eccelsa perizia tecnica rappresenta un biglietto da visita incontrovertibile che testimonia a più riprese la capacità e la sapienza di una band, di saper coniugare death brutale, melodia e alte, altissime dosi di epicità. L'album spacca letteralmente grazie a quei riff selvaggi, alle atmosfere che si rifanno ad un duo formato da Nocturnus e Melechesh, turbinii sonori di scuola Mithras, e spaventosi cambi di tempo conditi da altrettanto pazzeschi assoli, a cura di Tom Hyde. Detto della notevole traccia numero due, ce ne sono altre nel magnifico lotto che che vorrei citare: "Glorification upon the Powdered Bones of the Sundered Dead" è un bel mix tra Morbid Angel e Nile mentre "I Defy for I Am Free" è forse il pezzo più completo del disco con quel malinconico incipit, la sua veemenza nella sua parte centrale, e un assolo conclusivo a dir poco fotonico che vale probabilmente da solo il costo del disco. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Willowtip Records - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/sarpanitum

The Pit Tips

Kent

Forest Swords - Engraving
Greensky Bluegrass - When Sorrow Swim
Ben Frost - A U R O R A

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Francesco Scarci

Sarpanitum - Blessed be my Brothers
Stealing Axion - Aeons
Cradle of Filth - Hammer of the Witches

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Don Anelli

Delirious - Moshcircus
Expenzer - Kill the Conductor
Unleashed - Dawn of the Nine



giovedì 3 settembre 2015

Smash Hit Combo - Playmore

#PER CHI AMA: Rapcore/Metalcore/Djent
Prendete il rap. No, non il crossover alla Rage Against The Machine né la old-school del ghetto: proprio il rap, rap bianco ed europeo per carità, ma pur sempre rap. Però cantato in francese. Metteteci sotto una base di metalcore tecnico votata al groove – tipo Periphery o Protest The Hero, per intenderci. Aggiungete una spolverata di suoni elettronici, synth ruvidi e percussioni sintetiche. Salite sul palco addirittura in otto elementi (tre voci, due chitarre, basso, batteria e sampler/piatti). E, ciliegina sulla torta, cantate fondamentalmente di videogiochi. Sì, videogiochi. Questa è la stramba ricetta dei francesi Smash Hit Combo, formazione decennale addirittura al quinto full length (più un EP nel 2005). Musicalmente il disco sta in piedi: non c’è quasi niente di nuovo e originale, ma non si può certo dire che chitarre, batteria e basso non sappiano suonare. Ci sono groove ben fatti, riffing interessanti, palm-mute in abbondanza, mitragliate di doppia cassa, velocità; c’è in generale quel suono sintetico e tagliente tipico del metal più contemporaneo. I brani – tolti giusto un paio di lenti (“Quart de Siècle”, “Déphasé”, “B3t4”) – sono però davvero troppo uguali a se stessi per lasciare un segno, costruiti su una identica forma (“In Game”, “Animal Nocturne”, “Le Vrai du Faux”, “48h”) che alterna ritornelli aperti melodici, strofe rappate e bridge urlati a ripetizione. La differenza la fa l’uomo dietro l’elettronica, che dosa piuttosto bene scratch, effetti, synth, campioni e beat con un’originalità non facile da trovare nel genere. Per giunta, il lavoro è masterizzato perfettamente da Magnus Lindberg, già alla console per i Cult Of Luna. Il problema però sono i tre cantanti. Insipidi, noiosi, con un flow davvero troppo piatto per risultare anche solo vagamente interessante (l’episodio migliore? Il featuring di NLJ al microfono in “48h”). Diciamoci la verità: è già dura rappare da bianchi senza essere ridicoli (chi si salva? Beastie Boys, Rage Against The Machine? Certi Faith No More? Sicuramente non Eminem, né Fred Durst e l’allegra compagnia del nu-metal); rinunciare a qualunque presa di posizione sociale o politica nelle liriche per cantare di videogiochi, e per di più farlo in francese significa segarsi le gambe. Certe urla – “Je ne suis pàààààààààààààs!” – sono davvero imbarazzanti. Imbarazzanti. Peccato. (Stefano Torregrossa)

(CHS Productions - 2015)
Voto: 60

Round 7 - No Excuse

#PER CHI AMA: Hardcore Old School
I vicentini dell'East coast sono tornati con un nuovo album e questa volta prodotto dall'Indelirium Records, label italiana che da più di dieci anni si occupa di rock, punk e affini. Avevamo lasciato il quartetto con il loro EP e il precedente album, aspettando di vedere cosa mai potesse accadere e tra i vari live effettuati in giro per l'Italia, i ragazzotti hanno trovato il tempo per scrivere nuovi pezzi. 'No Excuse' riprende il buon vecchio hardcore in stile NY, con dodici tracce brevi e cariche come la tradizione vuole. Quindi nessuna evoluzione o voli pindarici verso suoni di più recente fattura (leggasi post-harcore, metalcore e quant'altro), ma tanta tradizione suonata con perizia e cognizione di causa. Adrenalina a fiumi quindi, che esplode in brevissimo tempo e vi farà riprendere in mano il jewel case (ottima la grafica) per controllare che si tratti veramente di un album italiano. Il cd apre con l'omonima traccia e subito i riff di chitarra vi investiranno come un treno in procinto di deragliare. La batteria e il basso creano un tappeto ritmico che in due minuti e mezzo circa annienteranno il vostra aplomb da brava persona e vi trascineranno in un headbanging liberatorio. Arrangiamenti ben fatti, nulla è lasciato al caso e nonostante la breve durata del brano, la band non si limita a usare un unico riff e togliersi il pensiero. I cori sono una perla perché rimarcano i cambi e aggiungono maggiore potenza al brano, come ce ne fosse bisogno. Bel brano che punta sull'impatto sonoro e meno sulla velocità d'esecuzione. I Round 7 vogliono mostrarci che ci sanno fare anche quando i bpm aumentano e allora passiamo a "Built on Lies", una sorta di lama impazzita che fa giustizia e ci libera dagli individui falsi che popolano il mondo. La batteria galoppa velocissima e il tocco sulle pelli e sui piatti è sempre preciso come un bisturi mentre il basso tesse le sue linee e fa capolino nell'epico break a metà brano. Le sei corde sono lodevoli, con i riff e gli arrangiamenti annessi a suonare una goduria per le orecchie, senza mai scadere nel banale e mantenendo sempre alto il livello di adrenalina. Grazie ai cori, il brano si arricchisce e guadagna in compattezza, ben fatto. "We Are" è inizialmente il brano meno hardcore del cd: ritmica e fraseggio distesi e duri, quasi ossessivi e ipnotici, ma al segnale concordato, si scateni l'inferno. La velocità raddoppia, gli strumenti s'infiammano e via come non ci fosse un domani. La voce porta con sé tutta la rabbia e la potenza dell'hardcore old school, grazie al timbro maturo; inoltre sa quando e come intervenire nel brano. Il pezzo migliore a mio avviso, meglio strutturato e dove la band è riuscita a concentrare tutto il proprio repertorio tecnico e artistico in poco più di tre minuti. I Round 7 confermano di essere un gruppo con le idee chiare, con il giusto bagaglio tecnico e pronti a far parlare di sé, soprattutto ora che sono sostenuti da un'etichetta solida e produttiva come la Indelirium Records. Aspettiamo con ansia i prossimi lavori, nel frattempo vi consiglio caldamente di andare a sentirli dal vivo, non ve ne pentirete. Dimenticavo: l' ultima traccia "Friends" è un omaggio a tutti gli amici che supportano la band e condividono il loro stile di vita basato sulla musica. Settantotto secondi dove ogni verso è cantato da persone diverse, elementi della band e non, compreso qualcuno che si è trovato casualmente in studio quel giorno! (Michele Montanari)

(Indelirium Records - 2015)
Voto: 80

martedì 1 settembre 2015

Hercyn - Dust and Ages

#PER CHI AMA: Post Black/Folk, Agalloch
Non mi nascondo, gli Hercyn li ho osannati in occasione del loro demo cd, 'Magda', un po' meno per lo split album con i There Roya, ma li stavo aspettando al varco. Finalmente esce in questi giorni il loro debut album, 'Dust and Ages' per cui sono assai curioso di saggiare lo stato di forma del quartetto del New Jersey, che tanto mi aveva impressionato per quel sound in stile 'The Mantle' degli Agalloch. Quattro i brani a disposizione, anche se il terzo è in realtà una lunga suite costituita da cinque momenti. Si parte con "Dust", pezzo semi strumentale di quasi quattro minuti che funge più che altro da intro, ove si subodora già la vicinanza ai mostri sacri dell'Oregon. È con "Of Ruin" che inizio a godere: chitarra acustica ed elettrica procedono sincrone, legate da un invisibile filo che serve a donare quell'impercettibile aura magica, di cui avverto 'Dust and Ages' esserne ampiamente avvolto. I suoni po' ovattati sono quasi un must nel genere, le vocals di Ernest Wawiorko sono molto simili a quelle di John Haughm degli Agalloch, ma poco importa. La musica degli Hercyn, pur essendo inevitabilmente derivativa da quella dei ben più famosi colleghi, preserva intatto quello spirito neofolk che avevo saggiato ai loro albori. I quattro musicisti partono poi con le tipiche incursioni malinconiche che si muovono tra il post black e il post rock. Lungo i 14 minuti abbondanti di "Storm Before the Flood" se ne sentono di tutti i colori: si parte da un approccio decisamente brutale, ma poco a poco, la band va in cerca della propria essenza naturistica e la struttura tipicamente black del prologo, lascia spazio ad un mid-tempo più ragionato e onirico, anche se a cadenza puntuale, il sound sfocia in rabbiose galoppate che trovano presto la pace in inebrianti break acustici dal forte sapore rock. A metà brano, e siamo al minuto 7'40" è la splendida abbinata chitarra acustica/basso a solleticare la mia fantasia, consentendomi l'abbandono a soffuse atmosfere rilassante. Ma da li a poco, ecco il rutilante incedere dell'armeria pesante a spezzare ancora una volta l'incantesimo con un riffing epico, che tuttavia non dilapida quello status emotivo che si era fin qui addensato nella mia anima e che troverà peraltro modo di accrescere anche nello spumeggiante assolo di questa lunga song. "Ages" chiude ahimè il debutto degli Hercyn, con 4 minuti e mezzo di delicati arpeggi e il soffice percuotere della batteria. Siamo alla fine di questa prima avventura ufficiale targata Hercyn, ma ne sono certo, sentiremo ben presto parlare di loro. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

Shepherds of Cassini - Helios Forsaken

#PER CHI AMA: Progressive/Alternative Post Metal, Tool, Porcupine Tree
Quasi due anni fa, facevo conoscenza con un interessantissimo combo proveniente dalla lontana Nuova Zelanda, i Shepherds of Cassini. Il quartetto di Auckland torna oggi sulla scena con un album nuovo di zecca e con un sound come al solito, ricco di contenuti peculiari. Poche le tracce a disposizione dei nostri (6) anche se la durata del disco si assesta sui 60 minuti. Le danze si aprono con la strumentale "Raijin", song che evidenzia la natura post metal a livello delle chitarre, costantemente influenzate da una sorprendente vena mediorientale, confermando quanto di buono già avevo avuto modo di ascoltare nel debut album. Il sound è comunque un saliscendi emozionale già da quello che dovrebbe essere il prologo di questo 'Helios Forsaken'. La seconda traccia è un coro di soli 45 secondi che ci introduce alla lunga suite "The Almagest". Quello che balza subito alle orecchie è una proposta che si muove tra il rock progressivo (alla Porcupine Tree), un che dei System of a Down (soprattutto a livello vocale), la già evidenziata vena orientaleggiante, echi dei Tool, e numeri da circo, affidati all'imprevedibile violino di Felix Lun, alle pulsazioni spaziali del basso di Vitesh Bava, ai funambolici giri di chitarra di Brendan Zwaan e all'esplosivo drumming di Omar Al-Hashimi. I quindici minuti della traccia ci conducono in un lungo viaggio che si sviluppa lungo tre sottotracce che abbracciano il prog, l'alternative rock, ovviamente il post metal e nell'ultima parte, quella che si spinge peraltro verso lidi più estremi, anche una vena rock anni '80, stile King Crimson. È l'ipnotico suono della batteria a farla da padrona nella successiva "Mauerfall", con un inizio in chiaroscuro, lento, suadente, ammiccante e atmosferico, con il basso in sottofondo a dispensare brividi a non finire. Il pezzo è quasi totalmente strumentale; giungono infatti a metà brano due urla sguaiate e la musicalità dei nostri vira prepotentemente verso lidi di tooliana memoria che ci tengono compagnia per una manciata di minuti prima di dirigersi verso un post rock malinconico, nella consueta girandola di tenui colori che gli Shepherds of Cassini sono in grado di infondere nella loro musica, e che ci condurranno a un finale dalla musicalità etnico-tribale. "Pleiades' Plea" inizia in punta di piedi, con la voce di Brendan a deliziarci in compagnia di chitarra e violino. Il brano è un pezzo rock molto delicato in cui assurge al ruolo di protagonista, oltre alla voce del vocalist, l'indemoniato e carismatico violino di Felix. Il finale, musica stratificata inebriante, è affidato a una roboante ritmica che esalta le caratteristiche tecniche dell'act oceanico. Gli ultimi 14 minuti e trenta sono di competenza della title track, song in cui l'approccio post metal torna a farsi sentire più forte, la voce si materializza addirittura in una veste growleggiante, con le chitarre sempre più pesanti. Ma è la solita manciata di minuti che devia come una scheggia impazzita che trova puntualmente modo di volgere verso mille altre sonorità: un rock mediorientale, un break post rock con la voce di Brendan tornata pulita e sofferente, schizofrenici e sincopati cambi di tempo con il vocalist ancora mutevole nella sua performance. E poi la calma, che non preannuncia ovviamente nulla di buono. Il sinistro violino ci prepara al gran finale che non tarda a venire, con divagazioni ipnotiche, suoni oscuri, aperture ariose, growling vocals e tutto e il suo contrario! Pazzeschi! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

lunedì 31 agosto 2015

Defleshed - Reclaim the Beat

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash
Quando c'era da spaccare, i Defleshed non si tiravano certo indietro. Il quinto lavoro degli svedesi (prodotto da Daniel Bergstrand - In Flames, Meshuggah, Strapping Young Lad) si conferma infatti come sempre furioso con dodici macigni, di breve durata (36 minuti) ed elevata intensità, a travolgermi, violentando le mie orecchie e frantumando le mie ossa. Il rullare spaventoso della batteria s’insinua nella mia testa, rischiando di mandare in frantumi il mio sistema nervoso. Una chitarra pesantissima sorregge il massacro prodotto dalle pelli di Mathias Modin, che ha fatto un lavoro mostruoso su questo 'Reclaim the Beat', album oramai del 2005, ma sempre attuale nei suoi suoni furibondi. La voce di Gustaf Jorde, si conferma poi, una delle migliori nel genere. A livello di adrenalina rilasciata e di violenza profusa, non c’è nulla da discutere sul cd dei Defleshed, l'ultimo prima dello split definitivo dell'act di Uppsala. L’unica pecca è che, come spesso accade per il death puro, i brani si assomigliano un po’ tutti. Ho dovuto, infatti, attendere l’ottava traccia, “Red hot” e la successiva “May the Flesh be With You”, per percepire un qualcosa di leggermente diverso dal resto dell’album: un accattivante (per favore passatemi il termine) chorus, un timido assolo e un differente refrain, caratterizzano infatti queste due songs. Per il resto, è il classico disco trita budelle di uno degli act più dirompenti della scena death metal. Solo per amanti del genere. (Francesco Scarci)

(Regain Records - 2005)
Voto: 65