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lunedì 15 settembre 2014

A Tear Beyond - Beyond

#PER CHI AMA: Gothic metal, Elettro-industrial, How Like a Winter
Difficilmente cerco di lasciarmi influenzare nel giudizio su un lavoro dalla veste grafica del “contenitore”: il rischio che si corre sta nel soppesare il contenuto aprioristicamente, un po’ come se partisse in curva e pertanto con più strada da recuperare per farsi largo alle orecchie del fruitore, penalizzato a causa di una scelta magari “poco felice” in termini di veste grafica per mille motivi diversi... oppure l’esatto contrario, tanto fumo e niente arrosto. Mi rendo conto che quanto affermato risulterà pacifico ai più, ma lo metto nero su bianco ugualmente in questo contesto perché, per una volta, contenitore e contenuto vanno realmente a braccetto e la copertina racconta in anteprima cosa andremo ad ascoltare inserendo il CD nel nostro beneamato lettore. Benvenuti a teatro! Prego prego, prendete posto, le luci si spengono, il drappo rosso del sipario si apre e siamo improvvisamente catapultati in un’epoca dove il tempo si è fermato in un certo passato elegante, colto e ricercato, molto diverso dal nostro vivere quatidiano, e ritengo siano i termini giusti per descrive appieno, a mio parere, pure il carattere di questi ragazzi vicentini. Musicisti non di primo pelo, ma qui al debutto (ormai del 2012) con questa formazione ed il risultato racchiuso in queste note entusiasma nel suo essere maturo e a tratti decadente. Non lasciatevi intimorire dall’inflazionato termine “gothic”, usato per descrivere la musica dei A Tear Beyond, in quanto posso assicurarvi che questa etichetta risulta alquanto stretta, certo limitante, funzionale solo a dare un’indicazione superficiale sul gusto musicale dei Nostri; in realtà molti più elementi emergono all’ascolto, sempre calati in questa atmosfera da palcoscenico, pertanto parlerei molto più volentieri di “dramatic metal” o qualcosa di simile, ma in definitiva chi sono io per proporre categorie e quindi teniamocelo inter nos tra queste righe. Ad ogni modo, è indubbio il valore intrinseco del disco, meritevole di plauso per il ritmo fantastico che lo sostiene, così come i nove pezzi ne rappresentano i diversi atti di un dramma: l’intro omonima da favola, dove la narrazione parlata in italiano ci mostra il percorso da seguire (il concept dell’intero album, arricchito da uno scritto nella pagina centrale del booklet) avanzando nel buio a lume di una candela dalla fiamma flebile e traballante, l’energia di "Lullaby for My Grave" che ci presenta la band (o compagnia di teatranti, se preferite) in grande coralità, quindi le fantasie orientaleggianti di "By Tears and Sand (The Golem)" e così via. Un posto speciale nel mio cuore è occupato da "Rain on the Oblivion", probabilmente l’episodio più riuscito dell’intero album grazie ad un refrain tra i migliori ascoltati da un po’ di tempo a questa parte. Musicalmente emerge ogni singolo strumento e, finalmente, mi sento di poter apprezzare un intelligente utilizzo delle tastiere nel ricreare il sound così teatrale che mi ha fatto apprezzare questo disco. I ragazzi poi non lesinano anche su alcune scelte più elettroniche ed industrial ("The Hunt"), ma danno il meglio quando vestono realmente i panni da teatranti, in particolar modo il vocalist Claude Arcano, dal timbro profondo e carismatico che mi ha ricordato il meraviglioso cantato di Marco Benevento (The Foreshadowing e How Like a Winter, in particolare!), ma in grado di mutare forma verso un buon screaming, a rinforzare ulteriormente il concept di dualismo e confronto tra opposti alla base di tutta l’opera. Personalmente, nonostante rispetti la scelta del gruppo di utilizzare l’inglese come lingua cantata, avrei osato con qualche pezzo in italiano in più, data la grande resa che la nostra lingua può avere in ambito teatrale, ma sarà per la prossima volta. In definitiva forse l’unico vero difetto del disco è la sua durata, poco più di 36 minuti ma, mi perdonerete, direi poco male: siamo a teatro, quindi tutti in piedi, un bell’applauso e sentiamo la folla richiedere il bis a gran voce... speriamo che la band ce lo conceda a breve... ancora più bello. (Filippo Zanotti)

Narriamo dell'antico tempo, ciò che lo scribano disse, 
riguardo all'occulto vespero dell'esistenza 
e di ogni suo elemento, 
della Rosa, dell'Assenzio, dell'Ombra e della Luce, 
dell'Uomo pazzo e dell'Uomo assiso...

(Self - 2012)
Voto: 80

The Morningside - Letters From the Empty Towns

#PER CHI AMA: Death, Carcass, Death, Opeth
Della serie qualcosa è cambiato... o forse tutto. Questo il mio primo pensiero dopo esser rimasto totalmente basito all'ascolto di 'Letters From the Empty Towns', nuovo lavoro dei moscoviti The Morningside, da sempre portatori di un death doom malinconico, sulla falsariga di Saturnus e primi Katatonia. Non vi posso pertanto nascondere il mio shock quando "Immersion" esordisce nel mio lettore. Strabuzzo le orecchie e controllo il cd per verificare se magari sia stato commesso un errore o altro. Il vecchio sound dei nostri è quasi definitivamente scomparso per far posto ad un techno death carico di groove che solamente nella sua sezione solista può vagamente rimandare agli albori della band, per quelle sue nostalgiche melodie. Per il resto si tratta di una song nervosa sulla scia di 'Human' dei Death, si avete letto bene, anche come impostazione vocale. Che diavolo succede? "(One Flew) Over the Streets", il secondo brano, parte con tutte le potenzialità mirate a infondere oscure e rarefatte melodie, ma la ritmica dei nuovi The Morningside continua a richiamare i gods statunitensi capitanati dal ei fu Chuck Schuldiner, regalando peraltro ottimi spunti di un death metal complesso e articolato. Tuttavia questa è un'altra band, e non posso trascurarne il passato, avendone recensito i precedenti due lavori. Provo ad andare oltre e vedere che succede, se gli echi dei Katatonia si sono disciolti del tutto o ancora risiedono nelle corde del quartetto russo. Finalmente "Deadlock Drive" sembra riprendere l'oscurità tipica dell'ensemble di Mosca, addirittura pescando da 'Gothic' dei Paradise Lost. Il suono si conferma potente, robusto e carico di groove con le chitarre che dipingono finalmente lande gelide e la voce del buon Igor che si conferma sempre su livelli eccelsi. "Sidewalk Shuffle" è una traccia dalle forti reminiscenze carcassiane (periodo 'Heartwork') soprattutto a livello ritmico. Con "On the Quayside" i nostri continuano a regalare ottimi spunti di death metal progressivo, anche se una serie di brevi break acustici/voci pulite, fanno aleggiare lo spettro degli Opeth nell'aria. "The Traffic Guard" è una song dal bel tiro e dalle linee di chitarre abbastanza ruffiano, anche se poi la traccia nella sua parte centrale, si diverte nel giocare con tempi dispari e riff graffianti. Un breve intermezzo acustico ed è tempo per le conclusive "Ghost Light" lunga traccia che finalmente richiama al passato dei Katatonia e "The Letter", song semiacustica che chiude un album che sinceramente non riesco a capire se mi abbia deluso o mi abbia dato l'opportunità di ascoltare una nuova realtà musicale, una band che si muove sui binari del death classico (Death, Carcass) leggermente venato di influenze doom. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music - 2014)
Voto: 65

domenica 14 settembre 2014

Sergeant Thunderhoof – Zigurat

#PER CHI AMA: Stoner, Doom, Space Rock, Monster Magnet
Lo ammetto, dopo il primo ascolto avevo pesantemente sottovalutato questo disco, che mi era sembrato piatto e inultilmente prolisso. Se ne avessi scritto all’epoca, agli atti sarebbero rimasto le prove della mia clamorosa cantonata, perchè questo 'Zigurat' è un lavoro davvero magnifico. I Sergeant Thunderhoof sono un quartetto inglese di Bath che arriva all’esordio discografico (autoprodotto) con quello che loro stessi definiscono un EP, anche se dura circa 40 minuti, il cui nome è preso dalle piramidi tipiche della civiltà babilonese, che simboleggiavano la montagna sacra. Ed ecco quindi che 'Zigurat' è in effetti una piramide che getta le sue basi sulla roccia solidissima, per poi slanciarsi verso l’alto e svettare oltre le nubi, puntando lo spazio profondo. Quello che ai quattro riesce benissimo, infatti, è il connubio tra la sostanza magmatica dei loro riff di matrice stoner e doom, con la leggerezza psichedelica che riesce a sospingerli verso l’alto, quasi in assenza di gravità. Quello che abbiamo tra le mani è quindi un favoloso ibrido tra Sabbath, Moster Magnet, Black Label Society, caratterizzato però da fortissime propensioni space che lo elevano facilmente rispetto alla massa di produzioni solo apparentemente simili. Tutto è al posto giusto: un cantante come ce ne sono pochi, chitarre potentissime e raffinate allo stesso tempo, una sezione ritmica semplicemente devastante, il tutto valorizzato da una produzione e un suono impeccabile, tenendo conto del fatto che ci troviamo di fronte ad un lavoro autoprodotto. Ogni cosa è curata nel dettaglio anche nell’ottimo artwork del digipack, che contiene anche i testi, ricchi di riferimenti lisergici e psichedelici. La prima traccia, "Devil Whore", è forse la meno convincente del lotto, perché pur essendo estremamente godibile e potente, è anche quella in cui l’effetto deja-vu è più forte, ricalcando maggiormente i modelli di cui sopra. Subito dopo arriva, però, l’apice del disco: "Pity for the Sun" che inizia dilatata e liquida per poi esplodere in tutta la sua potenza con riff monumentali e ha la forza, dopo otto minuti senza cedimenti, di accelerare ancora verso il centro della terra. Indimenticabile. "Om Asato Ma Sadgamaya" è il brano piú breve, che stempera bene la tensione con le sue chitarre effettate e l’atmosfera molto 70’s, prima dei due lunghi trip conclusivi: "Lunar Worship" si erge maestosa e sorprende con le sue rarefazioni improvvise, mentre "After Burner" cresce piano sorretta da magnifiche chitarre e una voce sempre piú protagonista, per poi esplodere nel climax finale fatto di colate laviche e grida strozzate. Per concludere, quindi, un esordio spettacolare, che potrebbe aver sancito la nascita di una nuova stella. Ci auguriamo tutti che sia cosí. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 80

Hercules Propaganda - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Un tempo erano quattro, ora sono tre. Nascono nel 2010 in Germania e dopo un EP escono con questo album omonimo, disponibile anche in vinile. A questo punto immaginatevi di prendere i Village People (a livello di abbigliamento) e fonderli con i Kiss e con questo avrete un a prima idea di chi sono gli Hercules Propaganda (HP). Una rock band che fa Giganten rock (??), ovvero un mix di hard rock anni '70 e glam con un filo di frequenze basse in più che li vorrebbe anche nella scena stoner (ma di fatto non lo sono). Gradassi, tecnicamente bravi e con una voglia matta di suonare dal vivo, i giusti ingredienti per fare del power glam per attirare dolci donzelle (anche se ormai le groupies vanno in discoteca) e sudati bikers. Il groove c'è, i brani spingono e il sound è in linea con il genere, come in "Power to Rock". Brano più punk che rock, veloce e anche dinamico, risulta pieno zeppo di riff già sentiti. Poi la chitarra si prende le sue responsabilità e diventa solista, sfornando pregiati assoli che scuotono anche l'ascoltatore più svogliato. Basso/batteria tengono il passo e il vocalist possiede il timbro adatto per interpretare abbastanza bene la parte. Una sorta di Jack White vestito per una festa a tema un pò equivoco. "Electric Diva" spiazza chi ascolta perchè l'intro smaschera il lato funky della band, la chitarra arricchita dall'effetto wha scandisce il tempo e la band alterna riff a la Led Zeppelin in versione moderna. Il testo è un po' ripetitivo, ma il giusto per permettere al pubblico chiassoso di cantare facilmente con la band. Verso la fine ci stà pure un break psichedelico ed un'ultima cavalcata sempre in stile inglese anni '70. "Children of Satan" vuole essere una ballad strappalacrime, classica fino al midollo e che non si vergogna di mostrare tutte le influenze del caso. Dopo l'arpeggio pulito iniziale, si alternano riff veloci a la Iron Maiden, per dare una duplice identità alla canzone che altrimenti avrebbe arrancato per tutti i suoi sette minuti abbondanti. Troppi. Gli HP sono una band con una facciata ricoperta di paillettes su pantaloni di pelle che nasconde dei musicisti validi, fortemente influenzati da tutto ciò che è già stato in passato. Resta da capire se questo è tutto quello che si aspettano dal loro progetto, oppure no. (Michele Montanari)

(Fuzzamatazz Records - 2013)
Voto: 70

Structural Disorder - The Edge of Sanity

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Opeth, Dream Theater
Gli Structural Disorder sono una band progressive metal di Stoccolma, formatasi nel 2011. Dopo l'esperienza del primo EP, 'A Prelude to Insanity' (2012), offrono il loro primo full-lenght, 'The Edge of Sanity'. Un intro di sussurri e percezioni sonore scaglia direttamente l'ascoltatore a ricevere un pugno nello stomaco da "Rebirth", brano che lascia il segno per la sua immediatezza non priva di struttura. Scariche a blocchi dai ritmi irregolari si fondono alle striature progressive dalla tastiera di Jóhannes West, creando un connubio che sta a metà strada tra band come Meshuggah e Dream Theater. La voce di Markus Tälth passa dalle vocals pulite a un growl gutturale in un'alternanza tra i due stili che rimanda al frontman dei connazionali Opeth. Alla fine del cantato un lungo strumentale fa conoscere subito l'altra faccia più melodica e progressiva di questa band. E' ora la fisarmonica ad accompagnarci nel terzo brano "Peace of Mind", assieme alla voce pulita del vocalist. Questo duetto che rimanda a una vera e propria ballad spiazza positivamente, soprattutto per la collocazione del brano, ma a poca distanza dall'entrata di un'acustica ecco presentarsi a noi un pezzo bipartito, la cui seconda sezione è introdotta dalle tastiere che continuano anche successivamente all'entrata di tutti gli altri strumenti un giro ipnotico. Davvero dolci e intime le lyrics per un pezzo che trascende la classica semi-ballad metal, incontrando un genere quasi pop/rock. Il pezzo successivo, "The Longing and the Chokehold", dopo la perla minimalista precedente, è quasi come il risveglio da un sogno. Un riff rombante e aggressivo e una ritmica incalzante permettono appena di abituarsi al viaggio che sta per iniziare, per uno dei pezzi più significativi del cd. Nelle lyrics è il puro male a serpeggiare nella mente e a far tremare le membra, in una crisi psico-fisica interpretata da una linea strumentale potente e statuaria, impreziosita da molti stacchi e cambi d'atmosfera e da vocals altrettanto multiformi. Fantastico lo stacco di tastiere dopo il trillo alle chitarre a metà brano. Il finale, che è quasi una parata a ritmi cadenzati incessanti, rimanda a capisaldi death quali 'Deliverance' degli Opeth. "Funeral Bells" si dimostra un pezzo altrettanto aggressivo del precedente, ma le vocals, molto meno asservite alla musica, interpretano il testo in modo maggiormente espressivo. Alcune parti, come l'inizio, risultano quasi avantgarde e le altre, molto dirette e ruvide, strizzano l'occhio al thrash. Adrenalinica la parte finale, dal rombante tappeto di doppia cassa e la prolungata cesura vocale growl. E' il momento del primo strumentale dell'album. "Sleep on Aripripazol", nome curioso, derivante dal farmaco con il quale si curano schizofrenia e disturbo bipolare, quanto mai azzeccato visto che la band svedese presenta proprio due facce distinte nella sua musica: una dolce e l'altra aggressiva. Ed ecco un pezzo introdotto da un cadenzante ritmo di valzer in tempo ternario, in cui la fisarmonica (vero tocco di classe della band) fa da protagonista, assieme a scale cromatiche discendenti, arpeggi di tastiera e una base solida e dall'incedere pesante degli strumenti ritmici. Un intrigante stacco di basso di Erik Arkö e divagazioni melodiche di ogni sorta, accompagnano l'ascoltatore per un brano chiaramente e volutamente ipnotico. Chitarre in delay introducono "Corpse Candles", poi blocchi e poi ancora un cantato dolce ma intrigante e sofferto, mai sentito precedentemente nel cd. Parti in growl impreziosiscono momenti taglienti in un brano altrimenti più leggero nelle vocals, ma non certo nelle lyrics, che toccano riferimenti all'inferno dantesco. Di nuovo ritornano chitarre in delay e poi un calmo tema di fisarmonica con un basso davvero in rilievo e dal caldo suono, sulla base creata dalla batteria, poi un alternarsi di parti solistiche distribuite tra chitarra clean, basso e fisarmonica. Davvero meraviglioso l'assolo di chitarra conclusivo sulla potente base creata da batteria, basso e chitarra ritmica. Un brano davvero particolare e inaspettato che si affianca per importanza al quarto di quest'opera e forse lo supera. Subito l'inizio di "Child in the Ocean" riporta, prepotenti, le grigie e melanconiche immagini di 'Damnation' (Opeth). Ma poi l'associazione viene subito contraddetta da una sezione rabbiosa, crossover, quasi gridata dal vocalist verso la fine, e poi un altro cambio d'atmosfera, chitarre acustiche e cori dalle venature quasi pop/rock, e di nuovo le atmosfere iniziali, senza un attimo per abituarvisi. Un pezzo coraggioso, dato che può fare impazzire un'amante della varietà (come il sottoscritto), come far ubriacare e spiazzare chi non ama particolarmente le contaminazioni. "Sins Like Scarlet"...quando l'ascoltatore pensa di aver già ascoltato tutto ecco che viene stupito ancora da questo breve intermezzo sonoro parlato. Vengono ripresi temi e parti di testo già sentite precedentemente ma in veste nuova e distorta. Con inquietanti ambientazioni sonore e una recitazione da parte del vocalist che ricorda addirittura le stravaganze surreali di Mr.Doctor, vocalist e fondatore della band italo-slovena Devil Doll. Introdotto da una sezione strumentale, "The Fallen" si presenta con un materiale concettualmente simile a "Rebirth" ma una struttura più scorrevole, libera e dai contorni meno netti e di più d'ampio respiro. Un tema in delay di chitarra che viene poi ripreso da tutto l'insieme strumentale. Un assolo di chitarra ben confezionato precede uno stacco e una sezione sussurrata atmosferica minacciata da basso, scariche di chitarra ritmica e un ritmo cupo di batteria che continua fino al ritorno della parte iniziale a chiudere la struttura tripartita. Ora un secondo strumentale affascina le nostre orecchie. Una stupenda chitarra elettrica solista dipinge "But a Painting", un quadro fatto di suoni. Un momento breve ma intenso che riporta alla mente le evocative immagini create da Brian May nell'indimenticabile "Bijou, Queen" e incorona con un'aura di rispetto questa magnifica prestazione chitarristica. "Pale Dresses Masses", penultima traccia, con il suo incipit di delicate note stoppate alla chitarra clean accompagna in un'atmosfera completamente diversa, quasi prog rock e nel suo liricismo offre vedute di più ampio respiro. Le lyrics si fanno più distese, forse perché una mente tormentata ha finalmente trovato pace in ricordi belli e lontani che vivono di nuovo. La title track chiude quest'opera molto vicina a un masterpiece. E' un sunto di tutto ciò che è questa poliedrica band, rappresentandone il punto d'arrivo e la risoluzione del concept, la cui musica verso la fine è cambiata fino a toccare generi molto lontani da quelli proposti inizialmente. Nella parte iniziale dominano cori e ritmi distesi, fino a raggiungere uno stacco improvviso e tornare alla band che ha aperto il cd. Ancora un cambio d'atmosfera con l'improvvisa entrata di una chitarra acustica, la fisarmonica e poi un coro polifonico. Poi un ritorno al tema principale e un nuovo stacco con chitarra clean a note stoppate con delay, prima della parte conclusiva che chiude definitivamente quest'album di ben 70 minuti. Come una vera e propria suite, questo imponente pezzo si presenta come il più lungo del cd e dell'opera il più significativo. Possedere questo lavoro significa aver tra le mani un potenziale compositivo e discografico enorme, specie se considerata la giovane età dell'ensemble. La varietà del lavoro è davvero un punto di forza e denota una maturità a una voglia di sperimentare notevoli. Anche le capacità tecniche dei musicisti, come la batteria del non ancora citato Kalle Björk o la chitarra e piano di Hjalmar Birgersson, sono molto al di sopra della media, che pure, tra le band scandinave, è molto alta. L'unico margine di miglioramento, oltre che nella creazione di un sound il più personale possibile, sta nel songwriting, che spesso risulta un po' oscuro nei concetti e dispersivo nell'espressione, appunto doveroso, semplicemente mirato al miglioramento di una già ottima band. Molto semplice e d'impatto nella sua modernità l'artwork di Anton Näslund e Joel Sjömark, professionale il lavoro di mixaggio e produzione a cura di Scott Crocker. Una band che sicuramente merita di stare nella collezione di ogni appassionato di progressive nel senso più ampio e positivo del termine. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 85

giovedì 11 settembre 2014

Clawerfield - Engines Of Creation

#PER CHI AMA: Cyber Industrial, Djent, Tesseract, Meshuggah
La scena svizzera sta crescendo veramente tanto con band interessanti che si affiancano ai vecchi classici, Samael, Eluveitie o Coroner. Sto parlando di act quali Abraham, Fate Control, Voice of Ruin e per ultimi, questi Clawerfield di Thun. Sonorità fresche e cariche di groove arrivano dalla piccola cittadina svizzera. Un concentrato di suoni cibernetici che si coniugano alla perfezione col djent dei grandi act mondiali. Dopo l'intro "Nautilus", che comunque anticipa le sonorità del quartetto elvetico, ecco l'attacco di "Emotion Zero": bei riffoni a dettare i tempi, ottime keys che disegnano atmosfere tra il cyber, l'industrial e lo space metal, e le vocals di Adrian Wasser che si muovono tra un fantastico growling, il clean e l'effettato elettronico. Meshuggah, Scar Symmetry e Tesseract, l'influenza di queste band converge nel sound, assai notevole, dei Clawerfield. C'è chi parla di modern metal, chi semplicemente di djent, a me piace pensare che questi ragazzi, al secondo album, abbiano centrato in pieno il loro obiettivo, in qualunque modo vogliate definire il loro genere. 'Engines of Creation' è un lavoro ammiccante che saprà catturarvi con le sue melodie ruffiane, con la grinta di chi vuole riuscire nel proprio intento e sa che ce la può fare. "Halo" ne è la dimostrazione palese: song mid-tempo che coniuga il rifferama aggressivo nord europeo con bei chorus, melodie catchy e qualche frangente synth pop. Preoccupati del risultato finale? Niente paura perché il quartetto spacca anche se a risuonare nel mio stereo c'è la traccia più paracula dell'album, "Drop RMX - Redemption (Drop RMX)", song orientata sul versante elettro industrial EBM. Con la title track si torna a ritmiche serrate, stop'n go e harsh vocals. L'animo dei Meshuggah prende nuovamente possesso dei nostri anche se non tardano ad arrivare i coretti, le voci pulite e le tastiere (e un ottimo assolo) a mitigare il temperamento ribelle della band del canton Berna. A chiudere l'elegante digipack, ecco la feroce "Symbiosis" che martella che è un piacere, mostrandosi alla fine come la song più abrasiva dell'album, dal carattere più forte e compatto, che non si nega comunque al versante più melodico dei nostri e in cui maggiormente entrano in gioco le influenze dei Tesseract, soprattutto a livello di atmosfere. 'Engines of Creation' si rivela un gran bel disco che potrà conquistare non solo gli amanti di queste sonorità dall'animo futurista. I Clawerfield alla fine sono proprio una piacevole scoperta di quest'ultimo scorcio d'estate, non c'è che dire. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 75 

Numbers - Three

#PER CHI AMA: Progressive, Metalcore, Post-metal, Periphery, Protest The Hero
Si chiama 'Three', ma questo lavoro dei Numbers (da Seattle) è in realtà il loro vero debutto come full-lenght, dopo due EP. Carne al fuoco ce n’è parecchia, fornita soprattutto da voci e tastiere, suonate entrambe dal frontman Kyle Bishop. La voce passa dagli harsh vocals (gestiti in modo per nulla banale) del metalcore ad interessanti costruzioni melodiche – timbro pulitissimo, fantasia, melodie catchy quanto basta, ottima tecnica soprattutto nel registro più alto. Le tastiere (onnipresenti nei brani e in quasi tutti gli intro e gli outro) insistono particolarmente su costruzioni di pianoforte e strings, limitando gli inserti industrial, di synth e drums elettroniche a pochissimi episodi. Il risultato è particolarissimo: un pianoforte che arpeggia su riff appena spruzzati di math e sfuriate di doppia cassa, dona un colore completamente diverso al brano. Non pensate quindi ad un clone di Fear Factory e Pitchshifter: l’atmosfera generale è tutt’altro che cupa e oppressiva, e le scelte stilistiche sono decisamente più orientate alla melodia prog e al postcore moderno che al metal pesante. I tredici brani passano velocemente, rivelando l’intensa personalità del quartetto di Seattle e l’omogeneità del loro stile pur nel mash-up di generi. Si passa da pezzi più melodici (“Thruth Bender”, “Recreate”) con ritornelli indovinatissimi a violenti episodi metalcore (“Sicken”, “Shortly Broken”), senza mai perdere il filo. Capolavoro assoluto resta “Undertow”: oltre 11 minuti di brano in cui i Numbers lasciano il giusto spazio a ciascuno degli strumentisti, costruendo un’architettura sonora a cavallo tra ambient, prog, jazz e metal, che lascia senza fiato dal primo all’ultimo minuto. Il disco chiude con un altro piccolo gioiello, “Ghost in the Room” – penalizzata forse dalla posizione nella tracklist – in costante tensione tra Protest The Hero, elettronica e con un inserto jazz da antologia. Batteria, basso e chitarra svolgono un buon lavoro, intendiamoci, pur senza nulla di particolarmente originale. Ma senza tutta questa tastiera “classica” – che darà senz’altro fastidio ai puristi del metal – e le incredibili capacità vocali e melodiche di Bishop, temo che i Numbers sarebbero solo un gruppo come tanti altri. Bravi e originali. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 75

Ushas - Verso Est

#PER CHI AMA: Classic Rock, Deep Purple, Led Zeppelin
Questo cd sembra essere arrivato dal passato, direttamente dal cruscotto di una Delorean munito di flusso canalizzatore che va a whisky e sigarette. Dico questo perché 'Verso Est' è un concentrato di hard rock inglese vecchia scuola, senza tanti fronzoli a livello di post-produzione, ma basato esclusivamente su chitarre, ritmica e voce che sale senza timore. A questo bisogna aggiungere del sano rispetto per la cultura orientale, come il titolo dell'album suggerisce e tanti anni passati tra fumosi locali con gentili donzelle che danzano sui tavoli e bicilindrici che rombano nel parcheggio. Il quartetto romano ripercorre il meglio dei Deep Purple e Frank Zappa, cantando in italiano e stando ben lontani da stilismi moderni. I suoni sono molto classic rock, come si può capire già dalla prima traccia "Fuorilegge" che scorre veloce con bei riff di chitarra e il cantato che domina ovunque. La voce è matura, ma raggiunge tonalità alte e si diverte a giocare con arrangiamenti in continua metamorfosi. Anche l'assolo conferma le doti tecniche del chitarrista e la sezione ritmica corre a perdi fiato, sostenendo il gioco. Intro e outro con un bel rombo di bicilindrico, a conferma del legame che unisce la band e il mondo delle due ruote. "Io Non Sono Qui" ci va giù pesante con una batteria lineare, ma che batte a più non posso e chitarre a profusione per un altro brano classico negli schemi e nello sviluppo. I cori arricchiscono un testo leggermente ripetitivo, ma dopotutto non bisogna sempre infarcire le canzoni con tematiche filosofiche. "La Via della Seta" è una ballad che ripercorre un ipotetico viaggio da occidente fino alla Cina, cullando l'ascoltatore con suoni delicati e riff ricchi. Un'altra bella prova che mette in luce le doti poliedriche dei nostri quattro musicisti capaci di mettersi in gioco anche con brani meno energetici, ma comunque godibili. "Maledetta Notte" torna a scuotere i nostri timpani con riff distorti che viaggiano a fil di rasoio con batteria e basso, mentre la voce vibra e urla furente per tutti i tre minuti abbondanti della traccia. Breve break centrale che permette all'ensemble di riprendere la struttura iniziale e chiudere dopo poco. Indubbiamente una band che potrebbe insegnare molto a livello tecnico e sonoro, anche se non si sposta molto da quei gruppi che hanno fatto la storia del rock anni '70. Brani ben suonati e allo stesso semplici, senza pretese e desiderio di lanciarsi in qualcosa di nuovo seguendo le mode del momento. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2013)
Voto: 70