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martedì 15 aprile 2014

Colossus of Destiny - In Lesser Brightness

#PER CHI AMA: Sludgecore, Mastodon
Ed è arrivato il giorno del giudizio anche per loro: i Colossus of Destiny, band parigina, si presenta con questo lavoro intitolato “In Lesser Brightness”, che si snoda in un tortuoso percorso composto da post-metal, sludge, prog rock; dico subito che i “nostri” ragazzi non fanno nulla per evitare di prendere la strada principale e cercare percorsi alternativi, andando piuttosto sul sicuro scegliendo sentieri già battuti in precedenza da molti altri gruppi. Sono 6 le tracce che compongono questo dischetto, nel mio caso imbustato in un semplicissimo packaging promo e quindi esente da fronzoli inutili; sinceramente, appena vista la copertina, ho pensato di trovarmi di fronte ad un disco di prog e anche di quello piuttosto classico. Puntualmente smentito dalla partenza della prima traccia “Dismay in Empty Eyes” che però, per una strana coincidenza, rimane la più prog del lotto. I riferimenti ad altre formazioni sono subito chiari e sembra proprio che i transalpini facciano veramente poco per nasconderli. Mastodon, Isis e Baroness le influenze più chiare, mentre io ho trovato anche qualcosa dei primi Incubus nei suoni e nelle atmosfere; per carità, non voglio certo sminuire il lavoro fatto dal gruppo, che rimane assolutamente di rispettabile valore. Infatti la qualità complessiva rimane alta, i ragazzi sanno quel che fanno e lo fanno piuttosto bene. Con gli strumenti ci sanno fare eccome, ascoltate ad esempio la mia preferita “Heavy Loads”, dove i ritmi accelerano e le melodie si fanno incisive; oppure la successiva title track, dove l'ombra dei Mastodon è davvero ingombrante ma sicuramente piacevole (per me che li amo particolarmente poi...); non voglio di certo dimenticare la conclusiva “Naked & Unbound” che farà scuotere più di una testa. Lavoro di veloce assimilazione, grazie a composizioni non troppo complicate e melodie piuttosto orecchiabili; niente di epocale, ma di certo un buon lavoro. Menzione particolare per l'ottimo lavoro svolto in studio dai tecnici, perché il disco gode di una produzione ben al di sopra della media. Parere personalissimo: non mi convince la voce del cantante, rauca e abbastanza monotona, capace di poche modulazioni. Nel complesso un buon lavoro, che non mi ha colpito particolarmente e che però ha una caratteristica: si lascia ascoltare molto facilmente. A voi scoprire se si tratta di un pregio o di un difetto. (Claudio Catena)

(Self - 2013)
Voto: 70

domenica 13 aprile 2014

Lili Refrain – Kawax

#PER CHI AMA: Rock sperimentale, Dead Can Dance, Glenn Branca, Alan Parson
Ottimo debutto su SubSound Records della chitarrista e performer romana, Lili Refrain che con questo primo lavoro del 2013, dal titolo 'Kawax', si estrae dalla massa sfornando un album alquanto misterioso e mistico a cavallo tra Dead Can Dance e certa musica progressiva/sperimentale di qualità. Niente è inteso nella forma tradizionale del rock, dagli echi nei loop di chitarra che ricordano il The Edge di 'The Unforgettable Fire' in veste spettrale e post atomica, alle voci corali a metà tra i cori delle mondine e la sperimentazione chirurgica di un'altra mitica performer italiana, Stefania Pedretti meglio nota per il suo progetto solista, ?Alos. Non ci stancheremo mai di ripetere e sottolineare la forma ascensionale di questo gioiellino sonoro che in "Nature Boy" tocca l'epicità trascendentale del duo anglo-australiano composto da Lisa Gerrard e Brendan Perry, con una prova vocale degna della migliore Bjork intinta nel nero più oscuro e che oscilla di continuo tra le teorie sonore di Alan Parson e l'avanguardia di Glenn Branca, senza dimenticare un uso tribale delle percussioni e le escursioni acustiche dalla cristallina, ammaliante e decadente bellezza. Composizioni al limite del cinematografico e impossibili da classificare, gloriosi accenni di musica classica e, sparsi qua e là, sapori di canto lirico maestosi rendono le composizioni indescrivibili e senza tempo. I brani solo volubili e facilmente ci si può imbattere, ora in chitarre pesanti, ora in forme psichedeliche dal buon gusto progressivo in stile ultimi Yes e il tutto sotto i raggi del sole mistico di certa world music di classe. "Goya" è un brano altamente contagioso, una forma di plagio ai Rolling Stones di "Paint it Black", perfettamente riuscito e realizzato come se venissero ascoltati in un'altra galassia, e intrinseco in questa ruberia, troviamo anche un canto meraviglioso venuto a noi da un altro mondo. Quindi, diamanti sciamanici come "Tragos" o "666 Burns", brani dall'atmosfera tolta ai migliori incubi di David Lynch e dei Sunn O))), risulteranno imperdibili per chi cerca un approccio assolutamente libero verso la musica progressive d'atmosfera e la colta sperimentazione alchemica. Arrendetevi, non vi resta che ascoltarlo, ne vale assolutamente la pena! (Bob Stoner)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 85

The Orange Man Theory - Giants, Demons and Flocks of Sheep

#PER CHI AMA: Death/Grind, Brujeria
Al ritrovamento di questo album nella mia cassetta postale, ero particolarmente contento causa il fatto che in uno storico e defunto locale live del vicentino, trovavo perennemente in bagno il loro adesivo con sottoscritto "Satan Told me I'm Right" (ed un gruppo con uno slogan del genere non può che starmi simpatico). Dopo il primo approccio con questa loro opera però, ho cambiato decisamente la mia opinione. Ciò che mi rende più astioso l'ascolto di questo terzo album della band romana sono principalmente i suoni, causa una voce preponderante su tutto, un'infima chitarra ed un basso enormemente distorto; la produzione però non è scarna e zanzarosa, bensì freddamente chirurgica e molto (troppo) carente di basse frequenze, anche su volumi sostenuti. A ciò purtroppo si aggiunge l'impasto sulle frequenze causato dal basso e dalla chitarra che non permette di cogliere facilmente i tecnici fraseggi dei due, oltre che dalla batteria, resa estremamente secca dalla produzione, della quale però si riescono ad apprezzare pienamente i notevoli giochi ritmici. Dal punto di vista compositivo, le tracce sono per lo più rapide e grooveggianti, ad eccezione di "If I Could Speak", un sapiente mix di grindcore, death metal moderno, un pizzico di noise e strutture southern rock. Altro punto fermo del songwriting sono gli innumerevoli cambi di tempo e le adrenaliniche aperture che occupano l'opera nella quasi totalità. 'Giants, Demons and Flocks of Sheep' è un disco molto vario, che troverà terreno fertile tra gli amanti della musica estremamente movimentata ed aggressiva; personalmente, sarei molto curioso di vederli live con un buon impianto a supporto. Li aspetto. (Kent)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 65

sabato 12 aprile 2014

Grown Below - The Other Sight

#PER CHI AMA: Post-metal, Isis
A distanza di quasi 3 anni dalla mia recensione di 'The Long Now', ecco ricapitarmi tra le mani, per mia somma gioia, il secondo full length dei belgi Grown Below. E confermo immediatamente le sensazioni positive che ebbi nel 2011, dopo l'ascolto della opening track, "New Throne". Il quartetto di Anversa ha centrato nuovamente l'obiettivo. Otto minuti e più di atmosfere sognanti all'insegna di un sound post-, a tratti rock e in altri più marcatamente metal, di influenza Isis, si sveleranno infatti all'ascoltatore. Il disco parte aggressivo con delle chitarre massicce e ipnotiche, che ben presto cedono il passo ad un suggestivo e notturno break centrale; l'effetto che lascia è quello di passeggiare tra le strade deserte di una città, la notte, in un mix di solitudine e libertà. Qui la voce pulita di Matthijs (capace anche di scorribande growl e scream) regala senza dubbio potenti vibrazioni. "My Triumph" attacca con la tribalità del suo drumming magnetico, un caldo basso in sottofondo, una chitarra che timida lascia qualche segno nell'etere e poi di nuovo la suadente voce (a tratti esaltante) del frontman belga. Ma questo lo sapevamo già, l'avevo già scritto in occasione del loro debut. Il sound minimalista dei Grown Below si alterna con quello più roboante dei nostri anche se in questa release maggiore spazio viene lasciato ad una componente dark acustica come nella strabiliante seconda metà di "My Triumph", forse la traccia più riuscita dell'album e quella che lascia intravedere ottime prospettive in chiave futura. "Phantoms" si dischiude offrendoci seducenti frammenti di musica oscura, tipicamente figlia del post rock moderno che ha il pregio di cedere anche a sfuriate elettriche da brividi. E per questo, ho la pelle d'oca alta un dito. "Reverie" è un altro esempio della classe del 4-piece di Anversa: ancora sonorità ammalianti, tenui e rilassate che esploderanno ben presto in nebulose tempeste metalliche che in questa traccia arriveranno addirittura a sfiorare il funeral doom nel finale. Ottimo ritorno questo 'The Other Sight', per una band da cui ora mi aspetto il salto di qualità definitivo. (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records - 2013)
Voto: 80

Grieving Age - Merely the Fleshless We and the Awed Obsequy

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Esoteric
Perplesso… molto perplesso. Posso solamente definirmi così dopo l’ascolto provante di questo doppio CD, che rappresenta la seconda opera studio dei Grieving Age, sestetto di ragazzoni arabi… eh, già, arabi! Peccato che, se non lo avessi letto sul booklet, mai lo avrei pensato, andando a collocarli mentalmente in tutt’altra geografia, dato lo spirito doooom che pervade questo disco. Quanto appena affermato può apparire un plagio bello e buono nei confronti di altre recensioni sul medesimo album e gruppo perfettamente consultabili in rete, ma vi assicuro che si tratta solo della logica considerazione spuntata nella mia mente dopo aver completato con notevole sforzo questa maratona pesantissima della durata di ben due ore. Tutto in quest’album è lungo, troppo lungo: il titolo, i titoli dei singoli pezzi, il minutaggio, lo sconforto del recensore di turno. Scordatevi qualunque riferimento al Medioriente: qui si entra in un tunnel marcio in caduta libera, che ben presto si apre in un vero e proprio abisso di melma e fastidio, giacché questa è la prima sensazione che ha evocato nelle mie orecchie il pezzo d’apertura, tale “Merely the Ululating Scurrilous Warblers Shalt Interminably Bray”; e di raglio si tratta, in definitiva, perché il cantato del buon Ahmed a questo assomiglia, sporco, sgraziato e lacera-corde vocali, ma anche monotono e un po’ troppo spesso senza variazioni di sorta. Questo vale pure per le sonorità e tutto quello che rappresenta l’incedere dei cinque (SOLO cinque) pezzi che compongono l’intera opera. Ma è necessario essere onesti: i ragazzi sanno il fatto loro e di sicuro non ci troviamo di fronte a pivelli o musicisti della domenica, perché sulla tecnica esecutiva non si può discutere. I singoli strumenti suonano come dovrebbero suonare in ogni album funeral doom che si rispetti e la scelta di non appoggiarsi a troppi tappeti sonori, magari ridondanti, aggiunge valore (e toglie speranza) al tentativo di ricreare una landa sonora desolata e desolante, al limite del sulfureo. D’altro canto, va da se che quasi due ore di musica, spalmate in sole cinque canzoni, relega questo album ad una sorte da “lavoro di nicchia”, dedicato ai più temerari, musicalmente disperati o masochisti proni a torture lente e prolisse. Non vi è nulla di male nel produrre monoliti di tale entità, a patto di essere in possesso di un’ispirazione tendente al divino ma, nonostante tutta la buona volontà profusa dai Nostri, l’obiettivo non è stato raggiunto. La sensazione è spesso di smarrimento sonoro, dove risulta facile perdersi e confondersi sul che cosa si stia ascoltando, così come quale sia il pezzo o addirittura il CD inserito nel lettore. In parole povere, è facile perdere il segno e, ahimè, il rischio di deconcentrarsi è molto alto. A parere di chi scrive, questo rappresenta solo un demerito. In definitiva, cosa dire? Assolutamente non da ascoltare in auto o durante cazzeggi vari, perché la dose di attenzione da dedicare al lavoro è notevole. Se si tratta di un mezzo passo falso o di un capolavoro incompreso, lo lascio a voi come quesito. Per quel che può valere (molto poco), il consiglio che mi sento di dare è uno solo: accorciare, accorciare e snellire. Dopo ne possiamo riparlare… (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2013)
Voto: 60

Fate Control - Random Survival

#PER CHI AMA: Swedish Death, In Flames, Soilwork, Slipknot
Freschissimo di stampa, arriva sul mio “tavolo anatomico” questo dischetto, pronto ad essere sezionato e analizzato in tutte le sue parti. Subito un elogio alla casa discografica che accompagna il supporto da un bel libretto di presentazione con tanto di lettera personalizzata; anche per quello che riguarda l'artwork, ci si imbatte in un curatissimo digipack di alto blasone. Quante volte, però, la qualità del contenitore non rispecchia quella del contenuto? Molte, forse troppe...ma vi anticipo subito che, fortunatamente, questo non è uno di quei casi. Il sestetto della vicina Confederazione Elvetica è al suo debutto su CD, da segnalare nel 2012 l'uscita online del singolo “Knockout”, pezzo comunque contenuto in questa release; usciti indenni da qualche cambio di line-up, il gruppo entra in studio, sempre nel 2012, per registrare questo disco. La gestazione è stata piuttosto lunga, considerando che le tracce sono 9, non contando il minuto “d'atmosfera” della intro. Ultramoderni, perfettamente calati nei panni dettati dagli ultimi trend in campo metal, i Fate Control sanno il fatto loro e si muovono sinuosi tra riferimenti agli ultimi In Flames, agli inarrivabili Meshuggah e agli ormai famosi Soilwork; dopo qualche recensione, forse avrete imparato a conoscermi, non è certo il genere che preferisco, ma la qualità va riconosciuta sempre e premiata. Il disco scorre impetuoso, solido, praticamente perfetto sotto il punto di vista formale; i suoni sono spettacolari (da grande band, merito di Daniel Bergstrand, produttore delle band sopraccitate), gli strumenti sono padroneggiati con mestiere, l'uso delle vocals miscela parti in scream e growl alle più confortanti clean, che occupano il ruolo di protagoniste considerando la totalità delle linee vocali. Nulla da dire, in negativo, ci mancherebbe. Nulla da dire, purtroppo però, di estremamente positivo. La famosa “Terra di mezzo” sembra aver attirato questa release, nel senso che questo 'Random Survival' non si muove dal guano che lo intrappola; lo spunto per spiccare un grande salto in alcuni momenti c'è eccome, ma questo grande salto non avviene durante lo scorrere dei minuti. Ricordiamoci che stiamo parlando di un debutto e quindi, forse anche troppo prematuramente mi aspettavo quel qualcosa in più; il disco ad un ascolto superficiale, sembra essere migliore di quando, invece, ci si concentra e si vuole andare a fondo. La struttura di tutte le tracce è sempre la stessa: belle intro, strofe incazzate e serratissime, ritornelli di ampio respiro e molto orecchiabili rigorosamente in clean vocals; una formula collaudata ok, ma che tende ad appiattire il tutto. Comunque, nel complesso la qualità si sente, va solo migliorato il songwriting di quel tanto che basta a far venire fuori tutta la personalità del gruppo; sono certo che con qualche “chilometro” in più, anche questo aspetto verrà sistemato. La testa ve la farà muovere comunque parecchio questo CD e preparatevi per le top del lotto: senza dubbio “E.K.I.A”, dove qualcosa mi ha ricordato i Lacuna Coil, la più classica “Fukushima” , la già citata “Knockout” e la migliore di tutte (ovviamente per chi scrive), quella “You Shall Fall” che da sola alza di un punto la valutazione complessiva del disco (complice la presenza di Bjorn "Speed" Strid). Il mosaico Fate Control richiede ancora qualche tessera da smussare e sistemare al meglio, ma nell'insieme i ragazzi svizzeri hanno fatto un buon lavoro; la strada è ancora lunga e tortuosa, ma con questa tabella di marcia i nostri arriveranno senza troppi patemi abbastanza lontano per guardarsi alle spalle, ed accorgersi della tanta e bella strada percorsa. Curiosissimo, li aspetto alla prossima prova che dovrà confermare quanto di buono c'è su 'Random Survival' e, se possibile, migliorarlo. (Claudio Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70

venerdì 11 aprile 2014

April Weeps - Outer Calm, Pain Within

#PER CHI AMA: Death/Gothic, Tristania, Trail of Tears
La Slovacchia non è solo un'ottima fucina di band brutal death; i giovani April Weeps ce lo confermano con il loro debut del 2013, 'Outer Calm, Pain Within', una 11-track di suoni gothic death. "Sacrificial Rite" apre robustamente questo loro debutto, contraddistinto da una sezione ritmica bella potente, coadiuvata dal grosso vocione di N, presto affiancato dai soavi vocalizzi di una dolce (e sembrerebbe anche molto carina) donzella, Marta. Facile pertanto intuire che questo dualismo vocale servi a rendere più abbordabile la proposta del 7-piece di Dunajská Streda. Nella seconda track, "Dream-Master", salgono in cattedra, al fianco della coppia indemoniata di asce, anche le tastiere di Stronghold, in un pezzo veloce e lineare, il cui punto debole risiede ahimè, nella performance della bella Marta, fuori dal contesto sonoro dei nostri. Capisco che la band miri a seguire le orme di act quali Trail of Tears o Tristania (peraltro, entrambi gli ultimi album delle due band norvegesi, sono peccaminosi), ma manca ancora qualcosa, quel qualcosa che tuttavia sembra emergere nella terza "Buried", che anche sul fronte vocale del gentil sesso, mi convince appieno. Ottime e ammiccanti le linee melodiche delle chitarre, che tuttavia non sembrano cedere a nessun tipo di compromesso. Echi gotici si miscelano a epiche galoppate, prese in prestito dal melodeath dei Children of Bodom. L'album scivola veloce, complici anche le non siderali durate dei pezzi, che si assestano sempre sui 4 minuti e mezzo. La title track ha un iniziale mood oscuro, ma poi il pezzo evolve, con le chitarre che si rincorrono in progressivi vortici di colore e partiture di musica classica. "Forever Falling" è la classica song dove si vogliono mettere in luce a tutti i costi, le qualità della vocalist, in una sorta di semi-ballad indolente, dove neppure il growling di N riesce a salvarne l'esito conclusivo, reso tuttavia interessante per lo splendido assolo finale. Insomma, avrete capito che non sono il fan numero uno della giovane fanciulla slovacca anche se giungo alla conclusione che la sua timbrica la si odia o la si ama. Purtroppo rientro nella prima categoria, ma non mi lascio traviare e quando mi metto all'ascolto della lunga e ipnotica "Shards" (bello il giro di basso iniziale, molto AtomA nel suo approccio), decido di assegnarle la palma di mia song preferita dell'album. Tenebrosa, vibrante e coinvolgente, il giusto compromesso tra il gothic alla Nightwish e il death metal dalle venature doom. Stranamente il disco inizia a decollare da questo punto in poi con una serie di pezzi non affatto male: la liturgica "Waiting for the Sun", la malinconica "In a Hurry" o la devastante "Positive Energy", mitigata solo dalle eteree vocals di Marta, responsabile invece della tremenda riuscita di "Faded Memory". A chiudere il disco ci pensa lo straziante pianoforte di "Pass Away", che dimostra una quanto mai apprezzabile maturità del combo slovacco dal punto di vista del songwriting, ma che mostra qualche ingenuità da smussare. Un comunque piacevole esordio. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 70

mercoledì 9 aprile 2014

Vangough - Between the Madness

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Dream Theater, Opeth
I Vangough vengono dagli Stati Uniti, e propongono un progressive rock dall'anima davvero coinvolgente e passionale, ma anche sperimentale e vario, merito sicuramente del vasto background dei musicisti che hanno creato quest'album, 'Between The Madness', terzo full-lenght della band. Quest'impressione permea l'intero lavoro, che porterà l'ascoltatore a percorrerlo tutto d'un fiato attraverso le sue 12 tracce, legate da un concept profondo e ben strutturato. E impressione è forse la parola più adatta a descriverne le modalità d'ascolto, dove la musica diventa luce e colore come anche ombra e monocromia. I pezzi sembrano nati dall'estro di un pittore che dipinge in melodie, armonie e ritmo sulla tela della partitura ed è originale il tocco dell'artista. Il concept album di questa band fa ripercorrere un atto dopo l'altro le passioni e le sofferenze umane. Attraverso la voce narrante del vocalist, che sa come infondere al suo ottimo timbro colori dolci così come aggressivi, attraverso una sezione strumentale che merita di essere analizzata nel particolare oltre che nell'insieme, che è quanto di più espressivo e magnetico la vera musica possa dare. 

È davvero difficile spiegare quest'opera senza toccare uno per uno i brani che la compongono: l'opening track, "Afterfall", cattura per il suo carattere cangiante e la scorrevolezza della linea vocale, che qui è resa dal vocalist particolarmente sentita e sofferta. Complici anche un ottimo arrangiamento della parte ritmica strumentale e una grande varietà di spunti tematici che, toccando tutti gli strumenti, mantengono viva l'attenzione su un pezzo che sicuramente rompe il ghiaccio in maniera più che decisa ed efficace. Profondo e angosciante il songwriting, che riesce, con parole poetiche, a descrivere la sofferenza di un uomo e una donna, compagni di vita, dopo una grande perdita, quella di un figlio. Il testo dipinge con vivide immagini e desolate sfumature la disperazione di queste due anime, fino alla preghiera finale, che ha nel suo crudo realismo una potente forza evocativa. 

L'album prosegue con "Alone", brano che mescola con gusto ed efficacia atmosfere diverse e contrastanti. Dopo il raffinato intro, il brano si fa teso e potente: chitarre ritmiche distorte eseguono incollate al basso un riff possente, subito seguite da una precisissima linea di batteria, in un gioco di controtempi che ricorda i colleghi Meshuggah per le ritmiche, che vengono presto variate e alternate a escursioni chitarristiche. Introdotta da vocalizzi sul precedente tema inizia quasi subito la prima strofa, che cambia totalmente le carte in tavola. Il cantato si fa più suadente di ciò che ci si potesse aspettare e la prima strofa si presenta descrittiva: vicoli illuminati di notte dai lampioni, un'atmosfera onirica e cupa come la solitudine del protagonista. Il tutto circondato da una musica che va oltre il genere proposto dal gruppo, in un coinvolgente giro di basso di Jeren Martin che si staglia su una batteria dal groove eccentrico, sovrincisioni corali poste nei punti giusti che dialogano con il solista e un leggero accompagnamento di piano sullo sfondo. Dopo un cambio ritmico vi è una sezione strumentale che contiene una delle parti più espressive e commoventi dell'album, dove una chitarra leggermente distorta, quasi jazz, è accompagnata solamente dal piano elettrico, su cui poggiano anche gli archi, per un gioiello strumentale che ricorda le suggestioni fusion del John Petrucci solista, per un brano che può senza dubbio esser considerato un masterpiece. 

Il concept si sviluppa con "Separation", pezzo nelle cui lyrics si aggiunge rabbia alla sofferenza, dove il male si scontra con il bene e il protagonista chiede disperatamente aiuto tra le convulsioni del suo animo morente. Brano che fonde una forte anima rock, specie nei suoi maestosi chorus, con tendenze avantgarde, lunatiche e instabili, in particolare nelle sezioni strumentali. La trama si avvia verso sentieri tortuosi con "Infestation", un capitolo dell'album piuttosto oscuro e carico di significati simbolici. Nel testo infatti, sono presenti alcune allusioni bibliche, mescolate a spunti personali dai molteplici picchi di genio. Dal punto di vista musicale il brano si presenta come una semi-ballad dalla struttura generalmente tripartita, con una sezione strumentale centrale molto vicina per stile a gruppi prog metal quali i Dream Theater. "Schizophrenia" è un pezzo molto più diretto dei precedenti e anche il testo abbandona qualsiasi filtro mettendo allo scoperto emozioni terribili ormai raffreddate nell'animo di chi le ha vissute. Si presenta come un pezzo vario e dai molti spunti interessanti: la parte introduttiva comincia nervosa e piena e si calma poi nella prima strofa, dal sottofondo melodico quasi inquietante, per poi tornare possente in un continuo gioco di alternanza tra parti calme e acustiche e parti piene e corali ad arrangiamento pieno. Il pezzo, dopo le ultime riprese dei temi principali si scatena in un magistrale assolo dalla forte connotazione conclusiva, con un finale che sfuma in un fade out che accompagna al brano strumentale successivo. 

Brani come la title track trascinano in un mondo dal sapore esotico e ultraterreno, riuscendo solamente con chitarra acustica, violino e violoncello a creare quell'aura misteriosa e lucente che talvolta solo la musica strumentale può evocare. Grande gusto classico in una struttura compositiva aperta dove il bellissimo tema proposto dal violino (di Justus Johnston) viene poi ripreso dal violoncello (di Jose Palacios). Il tutto è accompagnato da una chitarra acustica dal grande riverbero armonico in una variazione e riproposizione di una melodia che riporta alla mente perfino suggestioni rimandanti alla musica slava, complici soprattutto l'uso di scale modali e intervalli eccedenti da parte degli strumentisti ad arco. Questo è l'unico lavoro composto a quattro mani da Withrow e Martin. Uno strumentale che segna idealmente uno spartiacque tra la prima parte dell'album e la seconda, ridonando calma e un barlume di idilliaca spensieratezza all'ascoltatore per il proseguimento del viaggio interiore. 

Oramai la metamorfosi interiore è avvenuta, "Vaudeville Nation" si presenta con un testo cinico e sarcastico, a tratti perfino distruttivo e sprezzante, il cui testo di riferimento è 'Il Signore delle Mosche', di William Golding. Dal punto di vista musicale questo brano si presenta tra i più vicini al genere progressive metal, basandosi su riff davvero possenti e un'atmosfera cupa data soprattutto dalle roboanti chitarre ritmiche sposate a un basso e una batteria che lasciano poco spazio a divagazioni per concentrarsi su un ruolo molto più d'impatto. "O Sister" colpisce dritto nel segno, lasciando semplicemente inebriati di questa esperienza a fine brano. Un pezzo che prende una strada diversa rispetto ad altri capitoli di quest'album, accostando al sentiero sperimentale una ricerca più diretta al cuore dell'ascoltatore. Così per la musica come per le lyrics. Questa canzone è un'elegia, un tributo commosso all'anima di una sorella che se n'è andata via, verso il mare dell'infinito... Così la musica abbandona ogni pretesa terrena e si racchiude nella sua più discreta semplicità accompagnando un canto dolce e disperato al tempo stesso; seguendone l'andamento emotivo. 

La traccia "Thy Flesh Consumed", strumentale come "Between The Madness", trascina per la sua sperimentalità e per l'uso di effetti coinvolgenti e ben resi dall'eccellente lavoro di editing. Vi son presenti affascinanti suggestioni che strizzano l'occhio ai canadesi Unexpect sotto alcuni aspetti (come l'uso delle dissonanze, dell'effettistica, dei violini e del netto e disorientante uso di contrasti dinamici e timbrici). "Useless" riprende alcune tematiche di "Vaudville Nation" ma a livello musicale se ne distacca, proponendo una visione più varia anche in termini stilistici. Addirittura propone all'inizio uno stile quasi funk, con un basso in primo piano, una batteria elettronica e un parlato a più incisi leggermente sussurrato. "Depths of Blighttown" è un pezzo strumentale sinfonico, dall'intro quasi "medievaleggiante" in alcuni spunti armonici, mentre le melodie rivelano un'attrazione per il cromatismo. La parte successiva, introdotta da pizzicati agli archi, espone invece il tema principale, che appare come una variazione della figurazione a due note presente ai violini in "Thy Flesh Consumed". Il pezzo si presenta però, a differenza di quest'ultimo, dalla struttura a ripetizione e variazione tematica (più simile a "Between the Madness"); con una intensificazione nell'orchestrazione, che qui con molte sovrincisioni simula la presenza di un'orchestra vera e propria, al procedere del brano strumentale. 

La track conclusiva, "Corporatocracy", si presenta come un brano cinico nel testo e ipnotico nelle soluzioni strumentali. Il pezzo si fonda infatti su una ripetizione sempre nuovamente arrangiata del riff acustico iniziale (che sotto l'aspetto armonico e dell'incedere cromatico ricorda l'uso delle chitarre negli Opeth) e il quanto mai geniale giro di batteria eseguito da Kyle Haws. Un brano che abbandona qualsiasi ricerca di orecchiabilità per puntare su altro, cioè il coinvolgimento quasi ossessivo dell'ascoltatore in spire musicali avvolgenti, ostinate. Importanti e caratterizzanti sono le percussioni, presenti in questo pezzo in modo più fondante che in altri e influenzanti per approccio anche i giri di batteria intesa in modo classico. Anche il cantato non presenta una linea vocale ben definita, essa segue infatti in questo caso l'incedere musicale, un brano in conclusione non banale, dato che il pezzo finale di un full-lenght ha sempre l'onere di lasciare un'impronta del tutto. Il nuovo album dei Vangough, 'Between The Madness', è l'ultimo progetto in studio di una band che s'impone come una delle più coraggiose, eccentriche e versatili nella scena dell'Oklahoma, e sicuramente crescerà ancora in importanza e popolarità, traendo forza dal contributo e l'esperienza dei migliori musicisti sul campo. Un album consigliabile a chiunque voglia ascoltare un'ottima musica dai contenuti concettuali che manifestano i più reconditi e oscuri sentimenti umani. Un lavoro mirabile e stupefacente, che non fa perdere mai l'interesse all'ascolto e trasporta in un mondo simbolico ma vicino a chiunque sappia ascoltare e capire le cose con apertura e profondità. (Marco Pedrali)

(Self - 2013)

Voto: 95