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domenica 23 settembre 2012

Handwrist - All Flesh is Grass and All its Grace is as the Flower of the Field

#PER CHI AMA: Post Rock, Progressive, Psichedelia
Un titolo più corto era chiedere troppo? Sicuramente i portoghesi Handwrist rischiano di vincere il guiness dei primati per il titolo dell’album più lungo, che in realtà, non è altro che una citazione del Libro di Isaia estrapolato dalla Bibbia Ebraica. Lp di debutto (all’attivo anche un EP) per l’act di Lisbona, che nelle otto tracce a disposizione, crea un qualcosa di onirico, visionario, psichedelico, di non cosi semplice catalogazione. “Sailing Stones” sembra infatti una versione di “The End” dei Doors in preda a degli acidi ancor più pesanti, con una base ritmica che affonda sicuramente le proprie radici in suoni post rock, ma in cui ad assurgere il ruolo di totale protagonista è la chitarra, mentre le vocals, sono relegate in secondo piano. Il sound dei nostri è complesso, avvolgente, ricco di riferimenti biblici (il testo della seconda traccia, “The Tree of Knoledge” pesca infatti dalla Genesi), dall’indole mutevole ed imprevedibile, espressione di un rock settantiano e blues, associati a sonorità moderne. Quello che ne viene fuori ha un che di indomabile, con le harsh vocals che si sovrappongono ad uno space rock; peccato perché vocals più vellutate avrebbero potuto conferire un risultato ben più apprezzabile, ma questa è la musica, quindi largo spazio all’inventiva degli musicisti e questi Handwrist sembrano averne parecchia. Ubriacato dai suoni chitarra e organo, procedo col mio ascolto, sempre più convinto che l’album che ho per le mani sia quello della reincarnazione di Jim Morrison e soci, peccato solo che il buon vecchio Jim non cantasse in growl i suoi brani. Proseguo e la musica di questi portoghesi mi concede tanto spazio alle mie elucubrazioni mentali con un sound cerebrale, a tratti ambient, in altri frammenti di impossibile catalogazione, ma per me questa, è solo manna dal cielo. Ce ne siano di band che abbiano voglia di sperimentare come questi folgorati sulla via di Damasco, che rispondono al nome di Handwrist. Se siete sempre più curiosi di capire come il rock si sposi con growling vocals o come possano finire suoni mediorientali nello space o post rock che sia, potrete scaricare gratuitamente l’album dal sito bandcamp dei nostri e poter godere appieno anche voi della recalcitrante proposta degli Handwrist. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80

mercoledì 19 settembre 2012

Evadne - The Shortest Way

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian
Ancora Solitude Productions ad allietare quest'ultimo scampolo d'estate, che nonostante i vari Caligola o Nerone, ha ormai assunto i connotati di una gelida stagione invernale. Arrivano questa volta dalla Spagna i nuovi interpreti del death doom europeo, con quello che rappresenta il loro secondo lavoro, “The Shortest Way”. Gli Evadne sono l’ennesima buona band in questo sempre più affollato panorama, in grado di proporre un sound cupo, atmosferico e al contempo epico e maestoso, che vede anche negli svedesi When Nothing Remains, un’altra preziosa e valida alternativa. Anche qui come per i colleghi svedesi, l’influenza principale rimane quella dei Draconian, con un sound sicuramente meno statico, rispetto a quello dei colleghi oltre la ex cortina di ferro, pregno comunque di mestissime melodie, cosi come il genere richiede, ricco delle consuete ed ormai immancabili parti acustiche che creano quelle strazianti atmosfere e dalle ferali e profonde growling vocals, che in taluni casi (l’inizio di “This Complete Solitude” o di “Gloomy Garden”), non disdegnano neppure il cantato pulito, che contribuisce sicuramente a donare ancor più tristezza ad un lavoro che al termine delle sue otto lunghe tracce, non fa che lasciarmi con un tormento nell’animo. Bravi da un punto di vista compositivo, abili come musicisti, intelligenti nel miscelare il death doom più depresso con accelerazioni più death oriented, quasi a ridestarmi dall’ascolto ormai intorpidito e soffocante delle sue tracce, gli Evadne si confermano eccellenti esponenti di una scena in continuo fermento. Però vi prego, ora lasciatemi tornare in spiaggia a lanciarmi nella mia ultima “Macarena” estiva, l’inverno può pure aspettare… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 70

http://www.evadne.es/

martedì 18 settembre 2012

Black Hate - Los Tres Mundos

#PER CHI AMA: Black Ritualistico
Chi pensava che il black metal fosse morto, dovrà ricredersi, perché mai come in questo periodo mi sono capitate fra le mani cosi tante release provenienti dall’oscuro sottobosco, tutte peraltro di grande personalità ed intensità. I Black Hate non fanno eccezione e pur provenendo da un paese, che in termini musicali, non è proprio all’avanguardia, il Messico, sanno stupirmi e spingermi a ravvedermi su questa mia superficiale concezione. “Los Tres Mundos” è un album di notevole spessore, che combina elementi di black dedito alla fiamma più nera, con del ritualistic metal (e il mantra di “Ika-ni un-na” ne è l’emblema), il tutto avvolto da una cappa di suoni funerei, dove non mancano neppure le sfuriate black death (“Subconsciente”). “Los Tres Mundos” non è un lavoro affatto facile da ascoltare, assimilare e farsi piacere; deve essere ascoltato più volte per poterne cogliere la sua concezione musicale e quella lirica, con un concept album che esplora il tema della lotta dell’uomo contro il sentimento implacabile e pervasivo. E la musica cosi nervosa e disperata, cosi distante dagli stilemi classici europei o nord americani, si mostra per l’appunto alquanto personale, a partire dal bestiale cantato in lingua madre (abbastanza tipico per le band centro e sud americane), ad una ritmica che, pur presentandosi con la classica chitarra ronzante, riesce in taluni casi ad aprirsi in parti arpeggiate (ne “La Ultima Solución” mi sembra addirittura di sentire gli Opeth, cosi come pure in qualche intermezzo acustico), in altri casi il black dei nostri assume connotati suicidal black, come nella deprimente “Glorious Moments” (il mio pezzo preferito), che si mette in luce anche per un break centrale e un assolo quasi pink floydiano. Splendida. Si assoli signori, nell’album se ne ritrovano parecchi e non di matrice estrema, ma di scuola heavy metal, proprio come i vecchi Iron Maiden erano in grado di deliziarci nei loro meravigliosi dischi negli anni ’80. Davvero interessante questo lavoro; magari ci sarà ancora da smussare qualche angolo qua e là (tipo la prolissità dell’affascinante title track) per delineare maggiormente una propria personalità, ma i nostri sono sulla strada giusta, cosi come accadde un paio d’anni fa, agli svedesi Shining, probabilmente illuminati sulla “via di Damasco”, ottenendo una certa notorietà e successo. Davvero una bella scoperta questi Black Hate: decisamente continuerò a tenerli sotto stretta osservazione. Suggestivi. (Francesco Scarci)

Morphing Into Primal - Principios de Autodestrucción

#PER CHI AMA: Swedish Death, Thrash, Speed Metal
Interessanti i riferimenti alla psicanalisi freudiana che ci conducono al titolo della release di quest’oggi, il cui idioma spagnolo ci potrebbe indurre a pensare a qualche band sudamericana, ma il cui genere (death melodico) e monicker, mi spingono invece inequivocabilmente verso i nostri cugini di Spagna. I Morphing Into Primal sono una band di Ciudad Real che, con questo "Principios de Autodestrucción” giungono al loro debutto, uscito poco più di un anno fa, che ci consegna un lavoro di arrembante death (di scuola svedese) e thrash metal (stile americano). Citavo nella prima riga il riferimento alla psicanalisi freudiana e proprio al principio di pulsione di vita e pulsione di morte, desunti dal pensiero di Empedocle, sul dissidio cosmico tra bene e male, amore e odio, potrebbe ispirarsi quest’opera. La furia distruttiva del death, quello melodico ed energico, quello che vede in Dark Tranquillity ed Arch Enemy, sembrerebbe rappresentare la maggiore fonte di ispirazione dei nostri guerrieri; tuttavia il quartetto iberico, nel corso della release, intraprende un proprio percorso che ci permette di esplorare altri territori, come lo speed metal di “It’s Time” (l’unica traccia cantata in inglese), un qualcosa che non sentivo da tempo immemore. I nostri spingono per tutto il disco come forsennati grazie ad una ritmica costantemente spinta a manetta, grazie ad un drumming martellante (opera di Chus) e a killer riffs, ben eseguiti dalle due asce Luis e Arturo, mentre il vocalist Jose (niente male) alterna un cantato in growl con qualche altra divagazione estemporanea, in territori più oscuri. “Mi Valkiria” è un’altra traccia che non concede tregua, un’epica cavalcata con un riffing di chitarra assai catchy ed una melodia che velocemente si incunea nella nostra scatola cranica fino ad imprimersi nelle nostre teste. Melodia, si tanta, violenza forse ancor di più, ma costantemente tenuta sotto controllo, linearità e semplicità dei brani, rappresentano i punti cardine di "Principios de Autodestrucción”, un album che pur non inventandosi nulla di nuovo, ha comunque il pregio di lasciarsi ascoltare e conquistare tutti gli amanti di sonorità swedish death, ma anche brutal, basti infatti ascoltare “Renuncio a la Fé” per capire di cosa stia parlando. Insomma, un album senza tanti fronzoli, ideale per l’uomo che non deve chiedere… mai. Incazzati. (Francesco Scarci)

Novel of Sin - Sound of Existence

#PER CHI AMA: Deathcore, As I Lay Dying, Neaera
Il Kjeragbolten: un antico molare norvegese, un cariato dente di roccia che sta per cadere. Incastonato tra le mandibolari Kjerag Mountains, è sospeso sull'orlo dell'abisso a circa mille metri di quota sopra il nulla. Lì mi trovo, in piedi, in una posizione dall'infinita energia potenziale e, indomito, guardo giù, di sotto. Avverto la scarica adrenalinica impossessarsi famelica del mio corpo ma mantengo il controllo. Mi giro, come niente fosse e sorrido alla gente che si trova a poca distanza me e da quel "molare". Su vicine "gengive" di roccia, la gente, mi osserva, impaurita o ammirata. Nessuno mi dice niente ma leggo, nelle loro menti, la pazzia che ognuno di loro mi attribuisce. Fuori resto serio ma dentro... dentro già me la rido. Tutti si mantengono a debita distanza. Estraggo con nonchalance, da quello che ho camuffato come un semplice zaino Invicta, i miei auricolari ed il mio paracadute. È vietatissimo il base jumping da quel punto ma me ne frego, ormai ci sono ed indietro non ci torno. Già sono preda dei psichedelici vocalizzi di "728(16)102" breve preludio a "Voices, Prayers and Remembrances", prima vera track di questa release: "Sound of Existence" dei ravennati Novel of Sin. Pochi secondi ed una testata da 20.000 chilotoni deflagra nelle mie sinapsi: plettrate non lente ma comunque poco veloci e dalla potenza incisiva. La distorsione è tale che ho difficoltà a trattenermi dal pogare. La melodia, contagiosa, mi vedrebbe scatenato nell'headbanging più sfrenato ma no, devo restare serio. Il lancio è una specie di rito. Il mio rito. Torno allora indietro di pochi passi accompagnato dalle octopiche note di "Alone Through the Tides". Pause ad effetto intercalate tra i breakdown che ne rallentano il ritmo, un voluttuoso accoppiamento con i ripetitivi accordi di chitarra, una batteria martellante e l'alternanza tra scream e growl, danno vita ad una particolare, viscerale, amalgama che vede, quale ingrediente segreto al posto del mercurio, l'intercalare di crash e splash. Dietro di me, intanto, poco più in là, l'invitante precipizio mi seduce, mi sussurra, quasi avverto la voce di Trilly, fata dell'aria dell'Isola Che Non C'è: io però, sono un Peter Pan particolare, un Peter Pan sul quale la polvere di stelle non ha effetto alcuno e che non ha bambini sperduti da salvare. I piedi ce li ho ben saldi a terra. Adesso. Ululanti spire di vento, mi corteggiano, lambiscono, attirano. Poco sotto, l’abisso, semi offuscato dall'umida nebbia crepuscolare, m'invita al più dolce dei tuffi. Un salto da mille metri ad accarezzare, quasi con mano, un affilatissimo profilo di roccia spinti anche dalle incontrollabili, repentine, brusche, raffiche di vento. Eolo non è dalla mia, quel giorno. Lanciarmi da lì. Che bella idea m'è venuta. Mi giro infatti di scatto e, soggiogato dalle tonanti rullate di "A Key For Nowhere" corro deciso e mi getto nel vuoto. A braccia aperte. A volo d'angelo. Una capriola in avanti e poi giù di testa, in picchiata, braccia tese lungo i fianchi. Non la vedo più, la gente, ma me la immagino terrorizzata farsi sempre più piccola lassù, sopra di me. Il vero spettacolo, che dura pochi istanti, è lì, nell'aria. Osservo il suolo approssimarsi sempre più. Comincio a distinguerne bene i particolari. Non ho ancora aperto il paracadute: lo faccio adesso, sulle melodie di "Fragile" che questa release ripropone anche in chiusura in una versione remixata dai Demon Kids. Tocco dolcemente il suolo facendomi cullare da "Extinguish". Ad estinguermi, poco dopo, ci pensano infatti gli sbirri: giù di sotto non era il suolo ad attendermi: c'erano lì loro ad aspettarmi, per farmi una multa, non da 20.000 chilotoni sull'Atollo di Bikini ma da 4.000 Euro nel mio portafogli. (Rudi Remelli)

(Kreative Klan)
Voto: 70

domenica 16 settembre 2012

Dark End - Grand Guignol Book I

#PER CHI AMA: Black Symph, Dimmu Borgir
Ormai dovrei considerare i Dark End quasi come degli amici, dato che li seguo qui dal Pozzo, fin dal loro cd d’esordio e oggi mi appresto a recensirne il terzo capitolo, quello della loro potenziale consacrazione. Continuando il percorso intrapreso con “Assassine”, i nostri continuano nel fare passi da gigante e progredire, sviluppando e articolando il proprio sound in modo incredibile. Mentre i maestri, i Cradle of Filth intendo, si stanno aggrovigliando su loro stessi, nella più totale involuzione, ecco che i discepoli della band inglese, invece prendono le distanze dalle origini del male, creando qualcosa di un po’ più originale, sinistro e quanto mai sinfonico, nella loro pur sempre conclamata malvagità. Il primo libro del Grand Guignol, si apre come ogni santo disco di black vampiresco dovrebbe fare, con un bel giro di tastieroni gotico-sinfonici, prima di attaccare con la ferocia di “Aeinsoph: Flashforward to Obscurity”, un bell’inno di musica rosso sangue, orchestrale e tirato al tempo stesso, con lo screaming animalesco di Animæ, vero punto di forza della band, insieme al tastierista Antarktica, abilissimo maestro dietro alle keys; e comunque in generale, a livello tecnico, ai Dark End non manca più nulla. Tornando alla componente vocale poi, non posso non esimermi dall’elogiare Fearbringer, guest vocals, per la sua performance nella quarta traccia, “Spiritism: the Trasmigration Passage”, dove la sua tonalità è molto vicina a quella di ICS Vortex, quando era nei Borknagar, spettacolare, mentre nell’ultima “Dawn: Black Sun Rises” sembra la risposta italiana a Vintersorg. Tornando alla prova musicale (quella lirica la lascerò sul fondo), la proposta della band emiliana viaggia costantemente sui binari del black sinfonico, offrendo un prodotto insuperabile a livello tecnico-compositivo, che potrebbe essere paragonabile a quanto fatto dai Dimmu Borgir, nel periodo di mezzo, quello più orchestrale per intenderci, senza mai tralasciare comunque la malvagità, che si evince, non solo da ritmiche serratissime, ma anche dai momenti più lenti e oscuri che popolano l’album. “Grand Guignol Book I” rappresenta un nuovo esempio di quanto sia in crescita il metal di casa nostra, e di quanto una band del sottobosco possa avere ampie possibilità di crescita, attraverso un genere di nicchia. Abili musicisti (mostruoso il drumming), raffinati tessitori di melodie e taglienti ritmiche (splendidi gli affilati assoli), il sestetto si dimostra essere ottimo anche come paroliere, costruendo un concept album intrigante, che partendo dal diario di Heinrich Himmler, maestro occultista e guida esoterica-spirituale del Terzo Reich e dalla figura di Cristo, secondo personaggio del racconto, traccia una sorta di parallelismo tra le due figure e la loro destinazione finale, il male per l’ufficiale e il bene per il Messia. Un viaggio affascinante che correrà attraverso l’occultismo, la spiritualità e gli antichi rituali magici; ma lascio a voi il gusto di scorrere attraverso gli scritti e le immagini contenute all’interno del booklet misterioso e pieno di sorprese di questo lavoro. Eccellente svolta! (Francesco Scarci)

(Arcane Witchcraft Cover)
Voto: 85
 

Dustbloom / Huldra - Split Cd

#PER CHI AMA: Post Hardcore, Post Metal, Sludge
Non conosco i Dustbloom, ma sicuramente conosco bene gli Huldra, che ho avuto modo di recensire su queste stesse pagine, in occasione del loro primo lavoro. Ed ora, quello che mi ritrovo fra le mani è uno split cd in compagnia dei Dustbloom, con i quali si dividono tre tracce a testa e una addirittura scritta insieme. Ma andiamo pure con ordine, iniziando con l’analizzare il genere proposto dai Dustbloom, che aprono con le prime tre song; forse a causa dell'impostazione vocale del cantante, ho immediatamente l’impressione di sentire una sorta di Placebo/The Mars Volta, in versione hardcore. I suoni ammiccano decisamente a qualcosa di commerciale anche se in certi frangenti di “High Art”, è un po’ il caos a prevalere. L’esito comunque è abbastanza soddisfacente, sicuramente non di facile digestione per il sottoscritto. Con “Translucent Winker”, cerco maggiori conferme, che puntualmente non arrivano, perché fatico ad individuare in modo preciso, affibbiando un’etichetta per intenderci, la proposta dei nostri. Potrei sicuramente cavarmela con post hardcore, viste le vocals screamo e le ritmiche nervose dei nostri, ma sicuramente potrebbe essere riduttivo, visto l’intermezzo schizoide, fusione di più stili, che i nostri piazzano nel mezzo del brano e che ne fanno salire enormemente le “azioni” e la mi attenzione. Ci riprovo con “Paradise (is a Sleveless Straightjacket)”, ma i nostri mischiano ancora le carte, suggerendomi a questo punto di tenerli costantemente monitorati, in quanto la proposta si conferma decisamente intrigante. La palla passa agli Huldra, band statunitense che già nutre di tutto il mio rispetto ed interesse, che nei suoi 17 minuti a disposizione, ci offre “An Apparition”, un affascinante brano che continua a mostrare l’amore della band americana per i maestri del post, Neurosis e Isis su tutti, ed io non posso far altro che applaudire di fronte a tale proposta. Il sound degli Huldra prosegue sulla stessa linea del precedente lavoro, alternando frangenti esplosivi ad altri più ragionati, notturni ed introspettivi. “Dusk Hymn” funge da ponte di collegamento tra la prima e la terza traccia, “Nocturnal Wings” che apre come sempre in modo cauto, lento, con sognanti tocchi di pianoforte, in grado di regalarmi ammalianti suggestioni oniriche, prima che si scaldino i motori e i nostri attacchino con la consueta ritmica distorta (dove in sottofondo si sentono anche delle timide ma stralunate tastiere) e le roboanti growling vocals. Chiude lo split “There aren’t People to Unsee and Things to Undo”, song che nasce dalla collaborazione a quattro mani di Dustbloom e Huldra, che vede il vocalist dei primi prendere l’iniziativa e stagliarsi su una psichedelica base acustica. A metà brano, ecco irrompere la pesantezza delle chitarre e il ruggito degli Huldra affiancarsi allo screamo dei Dustbloom, prima di abbandonarsi alle dolci note conclusive che chiudono questo interessantissimo split cd, che mi ha dato modo di conoscere un’altra band proveniente dal panorama post-hardcore e trovare nuove conferme invece dagli amici degli Huldra. Monitoriamoli insieme. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

A Million Dead Birds Laughing - Xen

#PER CHI AMA: Avantgarde, Death, Arcturus
Si possono amare secondo voi Napalm Death e Arcturus? Certo, prese distintamente le due band, la cosa è possibile, essendo io un amante sia del combo britannico che del sound d’avanguardia dei norvegesi. Quando si prendono invece i 2 generi, il grind e l’avantgarde, e li si combinano insieme, beh il risultato può riservare inusuali sorprese. Gli A Million Dead Birds Laughing (letteralmente “un milione di uccelli morti che ridono”, un nome e un perché aggiungo io) ci offrono un album dalle deliranti idee ed elevatissime aspettative che ci spara, una dopo l’altra, 14 tracce (che si aggirano sempre sul minuto e mezzo due di durata) di folle grind/death, combinato appunto all’avantgarde. Ecco se posso fare un nome del passato, probabilmente  potrei aver trovato gli eredi dei disciolti Carnival in Coal o dei finlandesi The Wicked e non potete capire quale sia la mia gioia nello scoprire quest’ensemble proveniente dall’Australia e che ora andrò a suggerire a qualche etichetta amica. Non posso fare un track by track vista l’esigua durata delle song e la linearità con cui, partendo da “Nest”, si arriva in un battibaleno alla conclusiva “Zombie”, dopo un suggestivo e abbordante cammino di quasi 29 minuti, che alla fine non fa altro che lasciarmi stordito, disorientato e un po’ agonizzante al tappeto, totalmente inconsapevole di cosa mi sia accaduto. Forse un autotreno mi ha investito, o una caduta nel vuoto di 10 metri con successivo tonfo per terra, che mi costringe all’immobilità, un pugno in pieno volto da un peso massimo del pugilato, non lo so, non mi interessa, quel che è certo è che le emozioni suscitate da “Xen” sono impagabili. Le chitarre, ma in generale le ritmiche, sono al fulmicotone, con una prova dirompente del drummer Dean, un vero e proprio killer dietro alle pelli; splendide comunque le linee melodiche create da questo folle quartetto, meravigliosa la voce di Adam, nelle sue versioni scream, growl ed epic clean, coadiuvato poi dalle backing vocals di Sean e Ben; affascinante poi il booklet fumettistico del cd. Insomma “Xen” è un album davvero esaltante, a cui non darò un voto ancor più superlativo, esclusivamente perché lo vorrei riservare per il nuovo capitolo, che mi aspetto molto presto di ascoltare. Ora mi vado a cercare il precedente e introvabile lavoro, voi intanto ascoltatevi questo. Matti da legare, ma fenomenali. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85