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#PER CHI AMA: Death Progressive, Edenshade |
Alla faccia della globalizzazione, di internet e della facilità di reperire le notizie. Quando ho iniziato a scrivere la recensione degli Element of Chaos (da non confondere con gli omonimi americani), ho trovato sul loro sito l'anno di fondazione, il 2007, la città natale, Roma, e il genere che propongono, un improbabile "post-atomic avantgarde". Sicuramente starete pensando che diavolo mi servisse ancora, effettivamente poco nulla, ero curioso di sapere se avevano già fatto uscire un demo, un EP o quant'altro. Gira e rigira, ho capito che questo 'A New Dawn' segue, non proprio a stretto giro di boa, 'Utopia', quello che credo essere realmente l'album di debutto del sestetto capitolino, datato oramai 2013, che aveva riscosso pareri assai contrastanti. Freschi del contratto con la Agoge Records, i nostri si presentano con un album roboante fin dal suo incipit, affidato a "The Second Dawn of Hiroshima" che ci consegna una band che si muove con una certa disinvoltura all'interno dell'ambito thrash, death, progressive, modern metal e anche avantgarde, perchè no. Le componenti principali del disco si identificano in un corposo riffing di matrice scandinava, un'alternanza vocale tra pulito e growl, chorus catchy e una sapiente dose di synth che arricchiscono non poco la proposta dell'ensemble romano. Per certi versi, ho immediatamente associato il nome dei nostri a quello dei marchigiani Edenshade e al loro album di debutto 'Ceramic Placebo for a Faint Heart'. Man mano che vi addentrerete nell'ascolto del disco, avrete modo di scovare (e apprezzare) altre peculiarità del combo capitolino: l'uso classicheggiante del pianoforte in "Just a Ride", in una sorta di riedizione degli Angizia in salsa speed metal. Gli echi progressivi si fanno forti in "Nothing But Death", anche se il riffing chiama in causa i Meshuggah, sebbene il brano sia guidato da synth cibernetici. Una melodia quasi balcanica introduce a "Mutant Circus Manifesto", brano che poi spazia in territori più alternativi che arrivano addirittura a citare i System of a Down nella parte conclusiva (e tribale) del pezzo. Convincenti non c'è che dire, anche in chiave solistica, sebbene l'eterogeneità di fondo che permea il tessuto musicale di questo interessantissimo lavoro. "Coming Home" è ammaliante nella sua parte iniziale, quasi un omaggio ai Porcupine Tree, prima di esplodere in un death progressive e lasci spazio ad una barbara ondata di riff distorti e psichedeliche keys, che la eleggono inevitabilmente la mia song preferita. Il disco è buono, sotto tutti gli aspetti: songwriting, refrain, groove, orecchiabilità, freschezza, originalità di idee e potenza. Forse il rischio in cui possono incorrere i nostri è proprio quello di essere estremamente vari e forse nel tentativo di voler abbracciare un pubblico più vasto, rischino addirittura di non accontentare nessuno. Per fare un esempio, "Epiphany" viene proposta in chiave death/progressive, citando i Ne Obliviscaris in un paio di spunti di chitarra e poi riproposta remixata (che brutta parola remix in un disco metal) in una versione totalmente stravolta, al limite dell'Industrial/EBM. L'ultima corsa spetta invece a "The Butterfly Effect", brano che compariva già in 'Utopia', e che probabilmente farà storcere il naso al metallaro più estremo visto il tentativo di cantare in stile rappato su un tappeto ritmico un po' troppo confusionario. Una song di cui avrei fatto volentieri a meno, ma che comunque non influenza il mio giudizio finale su questo 'A New Dawn', a cui invito voi tutti a dare un oculato ascolto. (Francesco Scarci)