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martedì 23 agosto 2016

Drought - Rudra Bhakti

#PER CHI AMA: Black Esoterico, Deathspell Omega
L'Avantgarde Music non sbaglia un colpo: da quando ha rinnovato il proprio roster con realtà del sottobosco internazionale, ha infilato una serie di release davvero eccellenti. Non ultimi questi Drought, la cui origine risiede probabilmente nel nostro paese, che se ne escono con questo ritualistico EP di debutto intitolato 'Rudra Bhakti'. Inequivocabilmente, già dal titolo i richiami alla religione induista sono palesi, in quanto Rudra rappresenta proprio una delle divinità più antiche della civiltà vedica, simbolo di ferocia e distruzione, elementi che si traducono poi nella ferale proposta di questi misteriosi musicisti. E l'ingresso nel misticismo dei Drought si compie già attraverso la opening track, un lungo pezzo ambient che prelude alla efferatezza dissipata invece nella seconda "Fire Breathing (Urdva Kundali Arise)", in cui i nostri brandiscono le armi, le innalzano al cielo e attaccano con una rabbia inaudita attraverso una forma estrema di black metal caustico che chiama in causa in primis i Deathspell Omega, e si articola attraverso ritmiche contorte e assassine, killer vocals, in quello che loro stessi definiscono black tantrico. La truculenza dei nostri prosegue nelle serratissime ritmiche di "Reveal the Unlight (Sudden Awareness)" fino a giungere alla lunga e conclusiva "Collapse of Maya (Transfiguration of the Warrior)", che parte piano ma divampa ben presto alla velocità di un incendio che inghiottisce la boscaglia. Spaventosi, a tratti anche ieratici, soprattutto in quelle parti più d'atmosfera e glacialità che minano le fondamenta della spiritualità umana. Aberranti. (Francesco Scarci)

Devon - S/t EP

#PER CHI AMA: Post Rock, Alternative, Red Sparrowes, Deftones
Gli svizzeri Devon si affacciano al mercato attraverso l'instancabile Cold Smoke Records e durante il 2015 rilasciano questo EP dall'omonimo titolo, composto da quattro brani influenzati da post rock, postcore e alternative rock. Il risultato è un suono frastagliato e muscoloso che non affonda sulle usuali dinamiche del post rock ma ne usa solo le atmosfere più rarefatte e intense per incrociarle con quel tipo di attitudine sonora alla Deftones degli ultimi lavori. Il brano d'apertura, dal titolo "Tulsa", con il suo incedere ipnotico e maestoso, mostra subito l'attitudine modernista della band alpina, scodellando una carrellata di riff acidi e psichedelici senza traccianti vintage o stoner, dalla spinta poderosa che ammicca anche al nu metal e a certe sonorità colte volte ai Kinski o agli Arbouretum. "Krash" apre ad una breve traccia dal sapore quasi post grunge, dove compare anche la voce, prima narrante e vissuta, poi sofferente, e sfocia successivamente in un finale carico di rabbia postcore, che unito al modo particolare e potente della band di intendere il post rock, permette al quintetto svizzero di avvicinarsi di molto al concetto sonoro dei conterranei Ogmasun. Sicuramente il tono drammatico, rude e potente in stile Isis/Neurosis del cantato, dona parecchio spessore alla musica della band elvetica, cosa che rende ancora più appetibili i movimenti in chiaroscuro delle composizioni, che nei brani "Ij" e "Tattoo" assumono connotati ben definiti grazie anche a delle chitarre più velatamente romantiche, soniche, sferraglianti e ricche di pathos che aprono ad un finale esplosivo, degno di band prodigiose quali Defeater, Cheatahs e gli immortali Jesu. L'organico sonoro di questo disco non è facile da catalogare, meno potenti dei Neurosis ma sicuramente più dinamici dei languidi e formidabili Mogwai, i Devon sanno anche proporre un hardcore alternativo come quello dei francesi Sofy Major, immaginandoli calati in una cover dei Red Sparrowes, tutto questo in sole quattro tracce ben suonate e di buona qualità. Aspettandoli al traguardo dell'album completo per avere ulteriori conferme su di una band molto preparata e tutta da seguire, gustatevi intanto questi quattro pezzi. (Bob Stoner)

(Cold Smoke Records - 2015)
Voto: 70

https://soundcloud.com/cold-smoke-records

Vow of Thorns - Farewell To The Sun

#PER CHI AMA: Black Doom Atmosferico, Agalloch
Amanti degli ahimè defunti Agalloch fatevi sotto: i canadesi Vow of Thorns seguono infatti palesemente i dettami della ben più famosa band dell'Oregon, con quello che è il loro album di debutto sulla lunga distanza, 'Farewell To The Sun'. Sebbene l'inizio quasi rockeggiante di "Meeting on the Astral Plane" possa ingannare, quando l'arcigna voce del frontman si accomoda dietro il microfono, ecco aleggiare lo spettro di John Haughm e soci. Tuttavia, il sound dei quattro dell'Ontario si muove su binari ritmici più che altro orientati all'heavy metal, con sprazzi di cupa malinconia relegati a momenti atmosferici o deliziosi e dilatati arpeggi acustici, confezionati con gran gusto. E la lunga opening track ci regala infatti lunghe fughe strumentali che inevitabilmente scomodano facili paragoni con 'The Mantle' dei già citati Agalloch (per la cronaca missaggio e mastering sono fatalità a cura dell'ex Agalloch Jason Walton). La band mi convince appieno, pur risultando evidentemente derivativa nei confronti dei gods della costa pacifica. "Great Abomination" è un pezzo che evoca il black metal dei Melechesh, anche se nella sua parte centrale ci colloca sull'orlo del dirupo con un vertiginoso break che puzza di post-metal. “Farewell To The Sun Part I” è un breve pezzo strumentale che introduce alle successive due sue parti, in cui è ancor più forte l'influenza degli Agalloch, grazie ad un sound che a livello di chitarre, non fa altro che dipingere ossessivi stati di desolazione, vero marchio di fabbrica dei pionieri di questo genere, con un utilizzo ridondante, quasi ipnotico, di loop chitarristici di matrice post rock, a cui fanno seguito da contraltare, pericolose scorribande in territori post black. Ecco emergere lungo il copioso minutaggio dell'album, il costante alternarsi delle varie sfumature del post, con rock, metal e black a rincorrersi in un riffing contorto e severo, su cui si stagliano i taglienti vocalizzi del cantante. Una spruzzata di funeral doom, ed eccovi servita anche la terza parte della title track, prima dell'abbandono conclusivo alle lunghe, soffuse e sofferte melodie della finale "Doomed Woods", oltre dodici minuti di epiche vibrazioni, suggestivi paesaggi e deprimenti emozioni, che suggellano, con un certo successo, la proposta del quartetto dei Vow of Thorns. I più accreditati eredi degli Agalloch? La storia avrà modo di dircelo... (Francesco Scarci)

(Foresta Dweller Inc. - 2016)
Voto: 75

https://vowofthorns.bandcamp.com/

lunedì 22 agosto 2016

Moke's - S/t EP

#PER CHI AMA: Alternative/Garage Rock, Wolfmother, The Bellrays
La band parigina si presenta con un primo, vero e proprio EP, pieno di speranze e potenzialità per il futuro. Dopo un demo del 2013, i Moke's si sono immersi nelle registrazioni di un omonimo album per cercare di captare e fermare le vibrazioni acide emanate dalle loro esibizioni live, colte dal vivo nel precedente album del 2014, 'Live in Phalsbourg'. Questa operazione riesce solo in parte, perché i Moke's fanno riferimento a quel tipo di gruppi la cui dinamica rock, sanguigna e primordiale, è difficile da racchiudere in un album, cosa che fu impossibile per gli MC5 al tempo e che tutt'ora riesce difficile per qualsiasi ensemble che abbia caratteristiche simili. Diciamo subito che i Moke's, capitanati dalla deliziosa voce di Agnès, sono bravi e suonano con passione una forma di vintage rock rimodernato con i sentori dell'alternative e dell'acid rock di matrice '70s. La sola cosa che poco convince di questo disco indipendente, è la forzata declinazione stoner usata per il mixaggio e la registrazione dei brani, tralasciando poi tutta la potenzialità commerciale e garage di cui è dotata la band, girando sempre intorno al sound di realtà grandiose come The Bellrays o Gorilla (quelli belli e sconosciuti di 'Maximum Riff Mania') e se vogliamo parlare anche di psichedelia, dovremmo guardare il versante europeo dello stoner nelle vesti dei mai dimenticati On Trial (vedi il brano "Swamp" con tutta la sua verve psichedelica), che di certo non rientrano negli standard del genere suonato oggi, oppure, citando il rock, ci spostiamo verso i mitici Thee Hypnotics per arrivare ai Wolfmother (ascoltate "Don't" per farvi un'idea). Relegarli a ruolo di semplice stoner rock band è riduttivo, con una vocalist di questo calibro, piena di glam e aggressività, con una chitarra che risale le scale del vintage garage rock con una naturalezza incredibile, riff allettanti e intriganti, una sezione ritmica che pulsa come se venisse direttamente dalla fine degli anni settanta, ed un groove sempre carico di una gradita orecchiabilità, di chiara e ovvia derivazione che non risulta mai banale o lasciata al caso, sarebbe delittuoso. Per questo mi spingo a dire che i Moke's dovrebbero osare di più focalizzando il loro sound verso derive di matrice rock che da un lato sprigionino la loro formula garage/'70s mentre dall'altro, aiutino il quartetto a liberarsi dal sound imprigionante, fuori luogo e schematizzante dello stoner rock. Con la spinta heavy rubata alle Crucified Barbara e alle Girlschool, l'attitudine vocale tra Janis Joplin, Linda Perry e le stupende The Runaways, i Moke's, blues/rockers acidi per vocazione, hanno tutte le carte in regola per maturare, trovare una strada sonora che li renda del tutto unici, per regalarci un nuovo mito rock da venerare. Cinque brani, ventidue minuti dinamici, energici e fantasiosi, da inserire in quell'universo che fa capo alla corrente sempre più emergente del vintage rock. Da tener d'occhio! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

https://mokes.bandcamp.com/

Sedulus - The Sleepers Awaken

#PER CHI AMA: Psych Stoner, Baroness, Isis
Pochi colori in copertina per i Sedulus, act britannico in attività dal 2005. Sembra un tramonto visto dall’orlo di un asteroide in orbita nello spazio aperto. Non a caso 'The Sleepers Awaken' ci arriva attraverso l'etichetta When Planets Collide, fucina di rabbia sperimentale planetaria. La band è talentuosa e con le idee chiare, il suono ricorda Tool, Russian Circles e Baroness, la cosa che forse ancora manca è la coesione artistica che a volte non permette ai brani di esprimere a pieno le proprie potenzialità. Vale la pena iniziare subito a sentire il disco che apre con “Sycamore” potentissimo brano in pieno stile sludge. Dal primo pezzo già si evince la propensione della band alla complessità compositiva dei brani, all’aggressività e alla psichedelia. La cavalcata prosegue con “Machinations”, che presenta un tappeto di chitarre rugginose che rispondono ad una linea di voce a metà tra ISIS e Melvins. Le strutture dei pezzi non sono mai semplicistiche, si passa infatti da parti ritmicamente serrate ad aperture decisamente più blande, impreziosite da arpeggi riverberati e profondi tonfi di basso. La composizione come detto è audace tanto che a volte le song sembrano andare fuori dal tracciato, minando la comprensione del pezzo. L’attenzione rimane comunque alta, sempre ridestata da cambi di dinamica e da una buona spettacolarità tecnica dei musicisti. Altro aspetto che salta all’orecchio sono i suoni ed il metodo di registrazione, per cui sembra in qualche modo tutto un po’ lontano. Certo, l’impressione di essere su un satellite che orbita intorno alla Terra è riuscita, ma forse all’opera avrebbe giovato più definizione e presenza del suono che tuttavia rimane decisamente di qualità. Approdiamo alla terza traccia che porta un nome stranamente italiano “Nomadi del Mare”: si tratta di un viaggio strumentale su un veliero fantasma nella Via Lattea assolutamente da sentire. La traccia successiva chiude la prima parte del disco, e si chiama “Things We Lost in the Fire” e trasporta l’immaginazione per mezzo di voci e chitarre effettate che fluttuano a mezz’aria. La parte più riuscita del brano è la strofa: presente, decisa e brillantemente arrangiata. Anche il break dipinge scenari apocalittici sormontati da una linea melodica vocale in pieno stile Aaron Turner. Pecca del brano è il ritornello: da un punto di vista melodico forse non proprio azzeccato, sembra che non sia esattamente l’evoluzione naturale della strofa. Ma anche con questo difetto “Things We Lost in the Fire” rimane uno dei miei pezzi preferiti. Si passa alla seconda parte ora, aperta da una traccia ostinata e orientaleggiante. Sembra di vivere una sessione di meditazione ma non nella quiete di un parco o di un tempio, ma esattamente in mezzo al caos insensato e chiassoso di una metropoli. Ad ogni modo si tratta solo di una breve pausa, “Colonise” infatti non lascia scampo. Potenti riff sludge e una voce aggressiva e perentoria esortano a non lasciarsi abbattere e avere la forza di reagire sempre, “We Must Stay Strong” si grida nel brano. Anche qui si ha la percezione lontana che alcune parti non seguano il giusto susseguirsi delle cose, tuttavia il brano risulta piacevole e trasmette una notevole quantità di energia. Eccoci alla epica “Foxhole”: si inizia con una bassa intensità, la musica evolve tra voci pulite e frequenti pause sceniche davvero assai riuscite, sia nella scelta delle note che delle dinamiche. Il pezzo poi esplode in tutta la sua potenza in tre episodi trainati da una voce sporca e mono-nota e da un profondo e denso fango, che alla fine la elegge come il pezzo più interessante dell’opera. L’ultimo passaggio strumentale “Redshift” è forse il più riuscito: frequenze basse, percussioni ancestrali che vanno a formare un ambiente sonico e spaziale ma allo stesso tribale e terreno. La chiusura “Heat Death”ci dà il giusto commiato riassumendo in sé tutte le migliori qualità dei Sedulus. Dopo un intro supersonico dove chitarre e basso si intrecciano rivelando una grande emotività, atterriamo successivamente su di un suolo ostile di un pianeta privo di ossigeno e poi di nuovo si riparte a fluttuare nel vuoto verso il prossimo pianeta sconosciuto. 'The Sleepers Awaken' è un disco ruvido e intenso che lascia intravedere talento e inventiva e crea inoltre alte aspettative per la prossima opera dei quattro britannici. (Matteo Baldi)

(When Planets Collide - 2016)
Voto: 70

https://sedulus.bandcamp.com/

Haiden - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Sludge, Mastodon, Russian Circles
Primo lavoro per gli Haiden, un EP della durata di poco più di venti minuti, in cui questo trio belga propone un post-metal strumentale, anche se mi viene leggermente forzato definirlo tale poiché il sapore che deriva dall'ascolto di questo lavoro omonimo risente molto del polveroso sound desertico statunitense e di una certa vena progressive. Al primo ascolto infatti, il lavoro dietro alle pelli mi ha ricordato quel prog anni '70 tipicamente italiano che si mescola al funky-jazz, di cui possiamo trovare il suo apice nelle colonne sonore dei film polizieschi. Inutile dire che i due chitarristi seguono strade dicotomiche. Le composizioni, a differenza di altri loro colleghi dediti a questo genere strumentale, non sono lunghe, ripetitive o strazianti, ma sorprendentemente eterogenee sia come struttura che come idee. Idee, che forse risulteranno fin troppe nell'evoluzione del dischetto; e anche se alcune davvero buone, faticano talvolta nell'amalgamarsi tra loro alla perfezione. Ad ogni modo, il risultato che ne deriva è decisamente ammirevole per un EP di debutto orientato a sonorità già esplorate e sfruttate fino allo sfinimento. I primi secondi di "Harae" aprono il disco con riffs ridondanti e sonorità calde, graffianti, sature, tipicamente stoner. La seconda, "Chabe", si distingue invece per l'iniziale cavalcata sottovoce alternata a bruschi cambiamenti di dinamica e ritmo, mentre le successive "Valken" e "Mimas" giocano, rievocando i Neurosis, su ritmi tribali e chitarre a tratti noise e dissonanti. L'ultima song, "Hekla" (chissà se il titolo si riferisce al nome del vulcano islandese/ndr), è la traccia più particolare del disco, e lungo il suo scorrere possiamo trovare ampie bordate sonore, eclettici arpeggi, fulminei cambi di tempo. In pochi minuti, questo debut ci propone una rassegna di pensieri frizzanti e vivaci, nonostante la patina data in sede di mastering sia volutamente cupa e chiusa. Tecnicamente, il gruppo di Gent avrebbe ancora molte cose da dire e potrebbe di certo dare ancor di più; non ci resta che aspettare un full length in cui sono certo che il psichedelico trio raffinerà non poco la propria proposta. (Kent)

giovedì 4 agosto 2016

Veuve - Yard

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, OM
Lo stoner spopola e la scena italiana sta vivendo un momento particolarmente produttivo, nonostante sia in largo ritardo rispetto a quella americana e svedese. Oggi parliamo dei Veuve, un trio friulano che si butta a capofitto nel mondo fatto di sabbia, cactus e acidi con il loro primo full length, 'Yard' appunto. L'etichetta e studio di registrazione The Smoking Goat Records ha ottimo fiuto e ha pensato bene di reclutare i nostri tre impavidi eroi del fuzz sotto la loro ala e noi non possiamo che essere contenti che il loro incontro abbia dato la luce questo digipack contenente otto tracce che colano stoner vecchia scuola unito a sonorità shoegaze, soprattutto dovute a un cantato che richiama atmosfere etere e spaziali. Il bello dei Veuve infatti sta nell'ottimo impatto sonoro caratterizzato dalle distorsioni solide e ruvide del genere, in contrasto ad una timbrica vocale inaspettata. "Days Of Nothing" è l'esempio lampante di questo sodalizio curato e sviluppato con saggezza dall'act friulano. Basso e batteria sono incalzanti sin dall'inizio, i riff di chitarra sono puliti e non si affidano solamente al muro sonoro, cercano piuttosto fraseggi e melodie per catturare l'orecchio smaliziato dell'ascoltatore. Ovvi rimandi ai Dozer e ai Truckfighters sono facilmente identificabili, ma se si guarda lontano, i Veuve trovano un loro stile che diventa presto trascinante. Il mood etereo del cantato si trasmette anche agli assoli di chitarra e crea un'amalgama bilanciata e credibile, come accade in "Mount Slumber" dove la band rallenta il ritmo e si concentra su atmosfere spirituali, puntando sulla ripetitività dei riff e su una ritmica ossessiva. In questi sette minuti abbondanti verrete accompagnati dal groove degli OM appesantito il giusto dalle sapienti mani dei nostri musicisti. L'assolo post rock finale poi è la goccia che farà traboccare il vostro equilibrio mentale e farvi cadere nell'oblio assoluto. "Pryp'jat'", ovvero la città fantasma nata dall'incidente nucleare di Cernobyl, è la traccia che chiude questo ottimo lavoro. Corrosiva, polverosa come le strade di quel luogo dimenticato da Dio, la canzone scarica un elevato quantitativo di decibel, grazie anche agli intrecci di chitarra che grazie alla sovra-incisione, si può permettere maggior libertà sonora. Il basso non spicca in termini di frequenze, ma è l'elemento determinante a creare il suono che contraddistingue i Veuve, cosi come la sezione ritmica che trasuda groove ad ogni pattern. Sul finale percepiamo un sintetizzatore che ci porta indietro agli anni ottanta e sembra essere stato messo alla fine di tutto per avvertirci che in futuro potrebbe tornare. Noi lo speriamo, perché questo album è veramente ben fatto e ci aiuta ad aggiungere un'altra band alla nostra collezione. Se i Veuve faranno tesoro del lavoro fatto per 'Yard', il prossimo album sarà spettacolare, ci scommetto una buona birra fresca. (Michele Montanari)

(The Smoking Goat Recording - 2016)
Voto: 75

https://veuve.bandcamp.com/album/yard

The Pit Tips

Francesco Scarci

Toska - S/t
Negative Voice - Cold Redrafted
(EchO) - Head First Into Shadow

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Don Anelli

Mortillery - Shapeshifter
Defiled - Towards Inevitable Ruin
Horror Chamber - Eternal Torment

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Kent

Have a Nice Life - Deathconsciusness
Asylum Party - Borderline
One Life - The Crowning