#PER CHI AMA: Post metal, Sludge, Isis, Cult of Luna |
Di questa band mi aveva già incuriosito il nome, potete ben immaginare quanto poi sia diventato più suggestivo procedere alla sua recensione scoprendone la provenienza: Sud Africa. Che spettacolo; chissà se là dove le onde dell’Oceano Atlantico si infrangono contro quelle del Pacifico si respiri un’aria diversa, più ispiratrice? Da quanto si carpisce dalle prime note, direi proprio di si. Ragazzi, di nuovo fuori carta e penna perché qui di carne al fuoco c’è n’è molta e non voglio che ancora una volta vi lasciate scappare un cosi ben fatto cd. Partiamo da quello che è il sound di base della compagine sud africana: un ispiratissimo post rock super dilatato sulla scia dei migliori Isis, ma non solo. Il terzetto di Pretoria è riuscito a creare un coinvolgente e avvolgente lavoro che mi fa ben sperare per il futuro prossimo, quando nel 2010 uscirà il secondo capitolo del combo Afrikaans. Se siete degli amanti delle atmosfere psichedeliche alla Isis qui c’è pane per i vostri denti: atmosfere soffuse, squarciate da vetriolici riff di chitarra e corrosive vocals. Si parte con un oscuro post rock che lascia presagire che ben presto qualcosa di interessante accadrà ed è cosi in effetti, perché dopo un avvio abbastanza rilassato, con la comparsa anche di una eterea voce femminile nella terza traccia, il lavoro diventa più aspro e duro con chiari riferimenti di matrice “swedish” (Cult of Luna su tutti, ma anche qualche giro di chitarra di Meshuggahiana memoria). Intrigante, pachidermico, misterioso, disperato, “Which I Hope to Live For” ci consegna una band davvero capace, in grado di stupirci con trovate interessanti (alcune parti tribali di batteria) e da assaporare assolutamente tutto di un fiato in cuffia in una stanza completamente buia. Emozionanti, deprimenti, desolanti, questi sono solo alcuni degli aggettivi che si possono affibbiare alla band dell’emisfero sud, neanche vivessero nella tundra scandinava. In alcuni passaggi si rivelano ancora un po’ acerbi come nella sesta “Nation of Spears”, dove il retaggio hardcore si fa sentire più che in altre parti, ma poi nella seconda parte della traccia ecco la band ritornare ad ammorbarci con le sue visioni da fine del mondo. Doom, psichedelia, post rock, rimandi ai Pink Floyd (ascoltate “You’re Yellow not Golden”), sludge, trip-hop, post-hardcore, tutto questo si ritrova all’interno del sound di questi meravigliosi The Ocean Doesn’t Want Me, vera e propria scoperta di questo autunno infuocato. Geniali… (Francesco Scarci)
(Self)
Voto: 75