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mercoledì 21 novembre 2012

Locus Neminis - Weltenwanderung

#PER CHI AMA: Black Symph., Limbonic Art
Black sinfonico… merce rara al giorno d’oggi, dove la contaminazione va per la maggiore, nuovi generi si sono aggiunti e si è dimenticato il passato, le radici dalle quali sono nate le nuove tendenze. Gli austriaci Locus Neminis non fanno altro che rimettere in auge ciò che è stato, modernizzandolo, personalizzandolo ed aprendo a nuovi spiragli di progressione futura. L’intro di “Spiegelbild Der Vergangenheit” sembra uscire da un lavoro dei Negura Bunget, per poi iniziare a pestare grazie al rullare furibondo di un drumming inferocito. Fortuna che qualche tocco di pianoforte stempera un po’ l’aggressività della band di Linz, altrimenti mi avrebbero annichilito dopo i primi mortiferi tre minuti, in cui si raggiungono velocità che vanno oltre la barriera del suono. La cosa intrigante è che tutta questa malvagità dissipata è totalmente pregna di melodia, che si esplica anche attraverso uno splendido solo conclusivo. Pollice verso, non c’è che dire. Il tutto confermato anche dalla title track, che a parte confermare l’irruenza, stile contraerea, in chiave batteristica, non fa che esaltare la brillante proposta dei nostri, bravi in sede esecutiva, quanto in quella compositiva con delle eccellenti melodie, aperture atmosferiche di scuola Limbonic Art, un riffing appassionato e delle vocals grondanti malvagità allo stato puro, sia in formato growl che in chiave scream. La bontà del sound dei Locus Neminis prosegue anche con le tracce successive: un’apertura che sa di suoni black depressive appare in “Wenn Die Nacht Den Tag Verdraengt”, song in cui il drumming impetuoso di Ramiz se ne sta finalmente accuccia e il brano vive di tenebrosi sali e scendi e le parti orchestrate si sprecano. I riferimenti al sound sinfonico ma glaciale di metà anni ’90 sono palpabili, ma il tutto assume connotati positivissimi nella proposta dei sorprendenti Locus Neminis. “Ein Neuer Anfang” ha un inizio oscuro con la voce di Xarius, quasi sussurrata; poi un esplosione di suoni e colori, con una ritmica che galoppa impazzita come nel migliore degli album death metal. Un menzione a parte la voglio fare ad Antimaterie, che grazie alle sue tastiere ariose sorregge tranquillamente il fardello della martellante performance del drummer, il resto lo fanno i due axemen, indiavolati a graffiare con le loro strepitanti chitarre. Gli ultimi sussulti da citare sono per “Totes Licht”, un brano in cui il black dell’act austriaco vola in cielo, nello spazio e acquisisce un’imprevedibilità ed impalpabilità aliena, che nuovamente ha indotto un trasalimento durante la mia scrittura e l’infinita traccia conclusiva (24 minuti e passa) che risponde al nome di “Die Begegnung” che ripropone il feeling maestoso, epico e orchestrale dei Dimmu Borgir più ispirati di “Stormblast” per poi concedersi apparentemente ad un finale ambient (ho pensato che la band volesse raggiungere la durata complessiva di 66 minuti), nascondendo in realtà nella sua coda, una ghost track spettrale, di una ferocia inaudita e dall’attitudine maligna. Certo c’è ancora qualche accorgimento da settare qua e là: una migliore impostazione vocale e decisamente, il ridimensionamento delle velocità ultrasoniche della stramaledetta batteria (a volte ci sta correre dei forsennati, ma non di certo per tutto l’album), per il resto “Weltenwanderung” si candida ad essere una delle sorprese più positive di questo 2012. E che il regno delle tenebre avanzi pure… (Francesco Scarci)

domenica 18 novembre 2012

Betrayal at Bespin - Rains

#PER CHI AMA: Post Rock Sperimentale, Archive, *Shels
Non avrei dovuto recensirlo questo disco, ma mi sono reso conto che sarebbe stato un peccato madornale se vi foste persi un lavoro di grande interesse qual è “Rains”, cosi come lo era stato il precedente “Diary of a Dead Man Walking” che nessuno di voi avrà mai sentito nominare, ma che a me mi aveva entusiasmato non poco. Abbandonate le suggestioni southern del passato cd, i finlandesi Betrayal at Bespin, si lanciano in una rivisitazione assai meditativa ed evocativa del post rock, in una chiave estremamente raffinata ed originale, che esula da tutte le proposte fin qui analizzate dal sottoscritto. L’album si apre con il sensuale sax di “Strange Days” e il primo pensiero che faccio è se questi Betrayal at Bespin sono gli stessi che avevo sentito nel 2010 o se ho preso una cantonata con un gruppo omonimo. L’irruenza southern carica di groove degli esordi, ha infatti lasciato il posto ad un sound mellifluo che ricorda gli inglesi Archive nella loro veste più dolce e delicata. Non riesco a trovare alcun punto di contatto col passato, che sembra essere stato spazzato via con un colpo di spugna dalla rivoluzione musicale del seven pieces finnico. C’era già un che di particolare in “Diary of a Dead Man Walking”, che lasciava presagire l’unicità di questa band, ma qui, cari i miei lettori, la band propone un che di emotivamente destabilizzante. Ascoltavo “Cherbourg” una mattina mentre andavo a lavoro, guidando lungo le sponde del lago della mia città; il cielo era grigio, e la musica fluiva piena di malinconia nelle casse della mia autoradio e quando ho sentito i passaggi centrali di questo pezzo, e la pelle d’oca si palesava sulle mie braccia, mi sono detto che avrei dovuto recensirlo, sebbene il cd me lo fossi comprato. Echissenefrega, ho pensato; se un album è figo meglio dirlo al mondo e condividere questa gioia con chi come me, ha la passione della musica. Il mare, l’acqua, la pioggia, sono tutti elementi che contraddistinguono e si odono in questo “Rains” ed eccole le onde infatti che aprono “Atlantic”, song vellutata ed eterea che riesce a mettere a proprio agio chiunque con il suo incedere in stile *Shels, soffuso, strumentale e in cui fa la sua comparsa anche una tromba e un violino che rendono il tutto più sinfonico, come se una vera orchestra facesse parte del cuore pulsante della band. Per carità i nostri sono in sette, più tutta una serie di ospiti che si susseguono nel corso di questa intrepida release, che mi fa gridare al miracolo. Comunque a poco a poco, per la sfortuna dei Betrayal at Bespin, sono riuscito a ritrovare delle possibili fonti di ispirazione per la band, o un punto di riferimento per chi si volesse avvicinare alla proposta del combo lappone. Parti acustiche, lunghe fughe completamente strumentali (credo che solo in qualche sporadica occasione ci sia la presenza di un/una vocalist), parti al limite del trip-hop, atmosfere pink floydiane, inserti di archi, sassofono o altri strumenti a fiato (tromba e clarinetto) compaiono qua e là nell’evolversi di un disco, che definire metal, sarebbe la più grande tra le bestemmie. Una volta c’erano i Betrayal at Bespin, band di musica estrema molto sperimentale, oggi ci sono i Betrayal at Bespin, ensemble di musica quasi esclusivamente sperimentale, ma di grandissima personalità. Pertanto, se non avete paura di mettervi alla prova con questo genere di sonorità (gli estremisti si astengano, vi prego), fate in modo di reperire la vostra copia di “Rains”, un album che non vi deluderà assolutamente. Consigliatissimo. (Francesco Scarci)

(Avenger Records) 
Voto: 85

martedì 13 novembre 2012

Necromanther - Between Mankind and Extinction

#PER CHI AMA: Swedish Black/Death, Dissection, Unanimated
Chissà perché, ma da sempre ho erroneamente associato il Portogallo ai Moonspell e ad un sound gotico ed oscuro, cosi quando ho ricevuto questo cd, ed ho letto il nome della band, Necromanther, ho immediatamente pensato ad un qualcosa, musicalmente parlando, legata all’alchimia, al misticismo e a suoni eterei. Mai avrei immaginato di trovarmi di fronte una band dedita ad un black death, nella vena svedese di Dissection o Unanimated; potrete pertanto immaginare la mia sorpresa nel ritrovarmi fra le mani i suoni taglienti, e al contempo melodici, di questo “Between Mankind and Extinction”. Sin dalla sua apertura, “Opal”, la band risente, in lungo e in largo della tradizione swedish, pur mostrando anche una certa intelligenza artistica, curata dal buon Valter Abreu, mastermind di questo combo lusitano, qui supportato da Stefan Sjöberg in tre tracce e da Claudio Frank in “To Reign in Dusk”. Come sempre, facciamo immediatamente chiarezza perché di certo non siamo di fronte allo svolgersi di sonorità originali, rimangono pur sempre derivative di una corrente che lentamente va offuscandosi, soprattutto dopo la scomparsa dalle scene dei mitici Dissection. Comunque quello che i Nostri ci offrono è un qualcosa che cerca di divincolarsi dalla morsa di un genere pur sempre tradizionalista, e cosi, fa certo specie sentire l’inserimento di qualche tastiera all’interno di una matrice chitarristica corrosiva. Cosi come invece non mi stupiscono i rallentamenti e qualche squarcio acustico, che fungono come interruttore di quei frangenti in cui Valter accelera un pochino di più sull’acceleratore (“A Sacred Passage”). A differenza degli heroes svedesi, non ritroviamo ritmiche esageratamente veloci, anzi il tutto è estremamente controllato dal musicista portoghese, che si permette il lusso di uno splendido giro di chitarra all’ingresso di “Peak of Imagination” che mi ha ricordato i defunti Sarcasm e poi una portentosa aggressione ritmica contribuisce a rendere questo il mio pezzo preferito dell’album. È la volta di “Sungrave”, traccia che parte tranquilla, con una linea di chitarra melodica ben definita, su cui, da li a poco, si staglia una rabbiosa ritmica e le vocals maligne di Valter, a cui va un grosso applauso per la sua espressività sia in formato growl che soprattutto più stridulo, e magnetica la parte centrale, con un breve break che sembra influenzato da sonorità mediorientali. Il black qui cede il passo ad aperture heavy progressive e il tutto assume dei contorni totalmente differenti, con un assolo che si incastra alla perfezione nella matrice sonora di questo album. Il lavoro piano piano prova a percorrere una propria strada, cercando di staccarsi dagli schemi rigidi imposti dal genere: in taluni momenti il polistrumentista lusitano ci riesce anche, in altri tende forse a rimanere troppo ligio ai suoi doveri. Un contrabbasso apre “Toneless Scarlet”, poi la song si instrada su una ritmica quasi thrash, per poi lanciarsi, con la successiva “A Portrait of Obscurity” verso anfratti più prettamente death metal. Insomma in “Between Mankind and Extinction”, c’è molta carne al fuoco, che di certo accontenterà un po’ tutti gli amanti di sonorità estreme, tuttavia ricoperte da un pizzico di suoni progressive. Credo che ci sia da lavorare sodo ancora un po’, ma di certo Valter ha dimostrato di essere sulla strada giusta, per ottenere ottimi risultati. Da seguire nella sua evoluzione artistica… (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Shiftlight - Distance

#PER CHI AMA: Post/Death Doom, Isis, Saturnus
Dopo ben cinque demo, di cui il primo uscito ormai nel lontano 2000, finalmente gli svedesi Shiftlight vedono la luce e giungono al tanto agognato album di debutto. “Distance” è un lavoro di sette brani per una durata di 37 minuti, una mezz’ora abbondante di suoni all’insegna di un death doom assai ispirato, perché contaminato da sonorità post. Magnetico. Il suo risultato l’ho raggiunge quasi istantaneamente, colpendomi diritto al cuore con la miscela di suoni rabbiosi e pacati di “Blinded”, che mi conquistano, e mi inducono poi alla riflessione con “End”, ed al suo passo ultra ritmato, alle vocals nerborute del bravo Mattias, ma soprattutto alle melodie di fondo create dalle pesanti ed ipnotiche chitarre, in taluni frangenti addirittura travolgenti e trasudanti un pesantissimo groove. Se proprio vogliamo pensare ad un nome, potremo immaginare una creatura mitologica creata dalla fusione di Isis, Tool e Saturnus. “Endeavour”, come da copione, dà ancora risalto al fraseggio chitarristico dell’act scandinavo, con un arrangiamento che conquista per la semplicità con cui scorre, poi per la comparsa di un chorus pulito e per concludere con un’ambientazione in pieno stile post metal, seguendo le orme dei maestri di Boston. Un arpeggio di chitarra accompagnato da basso/piatti di sottofondo, apre “Black River”, song che percorre ancora le orme dei maestri statunitensi, cosi come sarà per il resto del lavoro, in cui vorrei elogiare l’intimistico break centrale di “Subways” inserito in uno scosceso ed irto saliscendi di chitarre e vocals gutturali. “Wound” si apre con un bel basso, e prosegue con un giro di chitarra abbastanza “tooliano”. A chiudere questo sorprendente lavoro, ci pensa la più tranquilla “Mountain Under the Sea”, che in sottofondo esibisce il folkloristico suono della ghironda, quello strumento medievale a corde azionate da una manovella, il cui feeling inneggia qui invece ai danesi Saturnus. “Distance” è un lavoro che ha saputo rapire la mia attenzione per le emozioni che trasmette e le atmosfere che è in grado di creare, quindi non posso far altro che consigliarvelo a scatola chiusa. New sensation from Sweden… (Francesco Scarci)


(Kamarillo) 
Voto: 75


domenica 11 novembre 2012

Abbas Taeter - Oblio

#PER CHI AMA: Black Death, Rotting Christ
Torna il side project di Mancan degli Ecnephias, dopo ben quattro anni di silenzio da quell’“Infernalia”, che ottenne non pochi consensi dalla critica, ma non troppa fortuna in termini di risposta del pubblico. Speriamo in questa nuova opera, in cui non solo gli addetti ai lavoro, ma anche i fan, possano dare una chance all’ottimo musicista lucano. Veniamo comunque ai pezzi di questa seconda release, che tra l’altro racchiude anche “Vetusta Abbazia” e “Obedimus”, già viste nel debut album. Un’oscura intro recitata, apre “Oblio”, poi una raffinata chitarra e l’inconfondibile vocalizzo di Mancan attaccano, decretando l’inizio di questo viaggio esoterico-spirituale. Maestosi, sinfonici, epici ed eleganti, ma anche violenti, estremi e malvagi: questi gli aggettivi che potrebbero sintetizzare tranquillamente i contenuti di “Oblio”. Immediatamente rimango conquistato dalla miscela feroce tra death/black e musica classica, il tutto cantato in lingua italiana, che mi fa propendere per un pollice alto, per la scelta amletica che da tempo assilla il bravo vocalist italiano. “Preda” è una song oscura, che vede nelle sue accelerazioni ed in spettrali giri di chitarra, i suo punti di forza, con la voce roca di Mancan a ringhiare nel microfono. Di sicuro, si noterà una maggiore propensione da parte del musicista lucano a forzare a livello ritmico, rispetto alla sua band madre, orientata ormai verso lidi più gotici; tenete comunque presente, che una larga componente melodica è ben presente anche nei solchi di “Oblio”, grazie alla elevata presenza di inserti di pianoforte. La costituente occult doom emerge con “Rito dei Fuochi Pagani”, soprattutto a livello delle liriche che mostrano, come se ce ne fosse stato bisogno, l’interesse profondo del mastermind di Potenza, in tematiche occulte. “Dannati dall’Oblio” è un bell’esempio di black death furente, che vede comunque sempre emergere nel suo fluente incedere, una sostanziosa parte sinfonica (di scuola Limbonic Art) ma pure, ed è ciò che più riesce a scompormi maggiormente, drappeggi di chitarra di stampo classic rock. Forse ai più questa cosa sfugge, troppo spesso focalizzati sulla componente estrema di questa release, ma in realtà, devo dire che le partiture rockeggianti saranno alla fine, ciò che rendono ancor più suggestivo questo lavoro, ancor più dei chorus, che si ritrovano anche negli Ecnephias (e che in questo li rende forse troppo simili), e che qui ritroviamo ad esempio nel breve intermezzo, “Antico Sentiero”. “Sanctus in Tenebris” è una celebrazione delle tenebre e dell’oscurità, tematica da sempre estremamente cara all’artista della Basilicata, e che ancora una volta pongono in risalto l’epicità di “Oblio”, frammista alla furia devastante delle sue ritmiche; ma occhio perché anche qui, il black death dirompente, viene spazzato via ancora una volta da divagazioni, che definirei occult rock. Un altro intermezzo acustico e ci si avvia lentamente verso la conclusione, con un organetto che apre “La Notte del Culto” e ne popola, a mo’ di incubo, anche il suo incedere. L’alone mistico dei Rotting Christ (quelli primordiali), da sempre fonte di ispirazione dei nostri, aleggia leggero anche nelle note di “Oblio”. “Vitriol”, che vede la presenza dietro le tastiere di Sicarius, è la song che alla fine prediligo dell’album: spettrale, violenta e maestosa, strano si trovi in chiusura, ma questo testimonia comunque che l’album mantiene una qualità medio alta per tutta la sua durata. Grazie Mancan, portatore delle tenebre. Ottimo ritorno. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 80 

The Gathering - Downfall

#PER CHI AMA: Death/Doom, Celtic Frost
Attenzione! Prima di procedere nella lettura di questa recensione, rispondete alle seguenti domande: siete dei fan sfegatati dei primissimi lavori dei “The Gathering”? di quelli che se vi capita di ascoltare il loro “Always...” vi coglie un attacco di nostalgia canaglia? Pensate che Anneke van Giersbergen (sospiro) come unica voce li abbia rammolliti? Non vedete di buon occhio il mitico “Mandylion” (a me piaceva da matti, nostalgia canaglia) e ancora meno “How to Measure a Planet”? Se avete risposto “sì” ad almeno due di queste domande, potete continuare nella lettura. Questo è un prodotto dedicato agli ammiratori senza remore del gruppo. Altrimenti potete tranquillamente passare oltre che non mi offendo... vabbé un po’ sì. Vi sembra di riconoscere questo album? Avete ragione, infatti si tratta di un ri-edizione di “The Falling - The Early Years”, una loro raccolta del 2001. La Vic Records la ri-pubblica cambiando scaletta e aggiungendo un sacco di extra, alcuni dei quali davvero rari. Le tracce presenti si rifanno ai tempi in cui i nostri producevano un oscuro doom/death metal e le voci femminili erano solo “backing vocals”. Tracce in cui esce il desiderio di creare atmosfere rarefatte ed evocative di sensazioni oscure. Il disco si apre con le prime sei tracce che derivano da un promo del 1992 di “Almost a Dance”; scopro che qui il cantante non è il Niels Duffheus della versione finale dell’album, ma il growler originale Bart Smits. Per me è una bella sorpresa, non ho un gran ammirazione per Niels e forse Bart, sebbene pure lui non fosse particolarmente adatto al desiderio di quei tempi di cambiamento della band, avrebbe dato a “Almost a Dance” un’anima diversa, chissà. Va be’, dicevamo? Ah già, si continua poi con canzoni presenti nella prima edizione del ciddì. Derivano dai demo “An Imaginary Symphony” (1990), “Moonlight Archer” (1991) e da altri inediti. Spicca la cover di “Dethroned Emperor” dei Celtic Frost, ulteriore indizio sulle loro origini. Si prosegue quindi con una serie di registrazioni di performance dal vivo. Una parola sulla qualità del suono: visto quando sono stati registrate, non è per niente male. Cosa ci rimane alla fine di questa cavalcata nei primi vagiti dei “The Gathering”? A me viene naturale confrontare questa raccolta con ciò che lo ha seguito. Il risultato è un sensazione un po’ divertita mista ad una nostalgia distaccata. A coloro che han sostenuto il gruppo fin dagli esordi, e magari poi abbandonato, questa riedizione regalerà sicuramente emozioni più forti. (Alberto Merlotti)

(Vic Records)
Voto 60 

The Reset - Progenitor

#PER CHI AMA: Djent, Progressive Death, Tesseract, Meshuggah
Un grazie a Simone Saccheri (chitarrista degli (Echo)) per avermi suggerito questa giovane band proveniente da Orlando (Florida), autrice di un buon EP d’esordio, capace di miscelare ritmiche brutal death con le sonorità polifoniche del djent (scuola Meshuggah), con spaventosi cambi di tempo, il tutto eseguito in poco più di 12 minuti di tempesta elettrica. Il lavoro si apre con la strumentale “Materia” che permette immediatamente di identificare il genere proposto dall’act statunitense; la song cede il passo, dopo un paio di minuti di bombardamento a tappeto, stemperato solo da ipnotiche keys, alla ancor più ferale “Relativity” che con le sue chitarre ribassate, il growling oscuro di Steven McCorry, e il suo dilaniante incedere psicotico e al contempo efferato (grazie ad una ritimica mega serrata), ha lo stesso effetto di una pesante bastonata dietro alle ginocchia, mi ha piegato in due. La terza “Satcitananda” apre come il ruggito di un leone, ma con la sorpresa di clean vocals (stile Tesseract), con le chitarre che persistono nel loro gioco ubriacante di fraseggio e passaggio da una parte all’altra delle mie cuffie, portandomi al più totale disorientamento. Ancora l’effetto che percepisco al termine di questa song è quella di essere stato incappucciato, fatto girare decine di volte su me stesso, qualche bastonata qua e la, e poi, tolto il cappuccio, mi ritrovo collassato sul pavimento. La conclusiva “Imperium” continua su questo binario, ma sembra la meno convinta del lotto (anche in fatto di vocals non del tutto convincenti), comunque apprezzabile il lavoro in fase tecnico-compositiva, che conferma che per proporre un simile genere, sia necessario avere le palle quadrate. Veloci ma essenziali. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Decapitated - Organic Hallucinosis

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Della serie, riscopriamo vecchi album del passato, mi domando se ci sia qualcun altro che mi voglia prendere a scarpate nel culo quest'oggi? Dopo i Krisiun ecco recensire un’altra bastonata per i miei oramai delicati timpani: trattasi questa volta dei polacchi Decapitated e del loro album edito dall’Earache, “Organic Hallucinosis”: poco più di mezz’ora di furia omicida miscelata alla perfezione con le ritmiche sincopate tipiche dei maestri Meshuggah e di altre trovate strampalate che potrebbero accostare la band ad altri mostri sacri quali Cephalic Carnage o Cryptopsy. L’evoluzione musicale iniziata in “Nihility”, prosegue in questo capitolo, il quarto, proiettando la band, guidata dal nuovo cantante Covan (ex Atrophia Red Sun), ad essere una delle più belle realtà del metal estremo. Il quartetto polacco continua a crescere (e le release successive l'hanno poi dimostrato) e si sente: sono infatti abili nel miscelare la brutalità del proprio sound con divagazioni avantgarde e i tipici stop’n go dei master svedesi. Il tutto poi, fatto con un’invidiabile tecnica individuale, nonostante la giovane età dei nostri, rende il lavoro ancora più appetibile. Buona la performance vocale di Covan che, prendendo le distanze dai gorgheggi tipici del genere, interpreta i brani con assoluta personalità. Assoli al fulmicotone, velocità al limite dell’umano, melodie dissonanti, furenti blast beat, accelerazioni mozzafiato, elucubrazioni chitarristiche e atmosfere snervanti, accompagnate da una equilibrata produzione, completano ulteriormente, uno dei lavori più interessanti tra quelli usciti nel 2006. Sebbene non ci troviamo di fronte ad un capolavoro che brilli per originalità, devo ammettere che la proposta dei nostri è risultata davvero spiazzante per il sottoscritto; bravi, ma ne sono certo, c’è ancora spazio per migliorarsi... (Francesco Scarci)

(Earache Records) 
Voto: 75

Krisiun - AssassiNation

#PER CHI AMA: Brutal Death
Che sonora mazzata nei denti ragazzi... ecco in poche parole cosa racchiude l'album dei brasileiros Krisiun, il sesto della loro esplosiva discografia: 46 minuti di ferocia inaudita, decisa a perforare i nostri sempre resistenti (ancora per poco) timpani. Il combo sud americano non si allontana di molto dal proprio tipico stile techno-brutal-death, che oramai contraddistingue la band, fin dal lontano debutto del 1993: un sound compatto, solido e rovente, suonato costantemente con un’elevata perizia tecnica. Disumano è il lavoro alla ritmica, con una batteria rutilante, precisa e variegata a costruire atmosfere annichilenti e claustrofobiche; le debordanti ritmiche, ricche di cambi di tempo, constano di selvagge chitarre laceranti, efficaci nel creare un muro sonoro insormontabile, che si alternano, con imprevedibile naturalezza, a momenti d’insana tranquillità, quasi a preannunciare l’arrivo della tempesta, fatta d’impeccabili assoli che giocano molto spesso, a rincorrersi l’un con l’altro, nell’arco dei vari brani. Musicalmente i Krisiun sono accostabili agli Hate Eternal, anche se gli ultimi lavori del combo statunitense non mi avevano convinto completamente, per una certa immobilità di fondo; al contrario, l’ascolto di “AssassiNation”, si è rivelato davvero entusiasmante. L’assalto sonoro profuso dal platter, targato Century Media, e coadiuvato dall’eccellente produzione ad opera di Andy Classen, consacra definitivamente il trio, guidato dai brutali grugniti di Alex Camargo, quale migliore band nel genere. Consigliatissimi agli amanti del genere. Devastanti... (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 80