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sabato 8 aprile 2017

Zerozonic - S/t

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, Pantera, Machine Head, Konkhra
Con curiosità mi appresto ad ascoltare questo lavoro omonimo dei Zerozonic, band norvegese di Kristiansand, località “balneare” scandinava, una sorta di Rimini del Mare del Nord. La cover, invero un po’ banale, ben lascia intendere di cosa si andrà a trattare. Non appena il primo riff dell'opener track “It Never Dies” scatena le sue furie, capiamo subito che abbiamo sotto mano un prodotto altamente professionale. Chitarre taglienti, batteria aggressiva e digitale al punto giusto, insomma una registrazione a dir poco convincente e del tutto ben calibrata per accentuare il songwriting pesante e violento della band, che vanta peraltro tra le sue file di membri dei Blood Red Throne. Le coordinate stilistiche sulle quali la band norvegese si muove sono il classico groove – post thrash che tanto aveva scaldato i cuori dei metallers a metà anni '90. Anche nella seconda traccia infatti si susseguono ritmi cadenzati a sfuriate (sempre comunque bilanciate e razionali) come impazzava nell’era post 'Far Beyond Driven'. Avete presente “Weed out the Week” dei Konkhra? Ebbene questo lavoro dei Zerozonic non stenterei a collocarlo proprio sul filone di quell’album datato 1997. Il tempo sembra essersi in effetti fermato a 20 anni fa. Anche quando le tracce si fanno meno granitiche e assumono atmosfere cangianti ("Pushed Away"), il mood resta inesorabilmente nineties, tra Pantera, Machine Head ed epigoni vari. Nella power ballad “I Walk Away” i richiami al Phil Anselmo di “Cemetery Gates” appaiono più che evidenti. I nostri ce la mettono davvero tutta per regalarci preziosismi e tenere viva l’attenzione. Accurato ad esempio risulta il lavoro vocale, con growl e harsh in alternanza, clean vocals ben eseguite e comunque mai stucchevoli. La precedenza nella composizione sembra tuttavia attribuibile al gran lavoro chitarristico, riff al fulmicotone s'intersecano a preziosi assoli (demodè ma che emozioneranno i palati più nostalgici) e ad arpeggi da antologia del metal. La band appare protesa consapevolmente verso strutture talora progressive ("Instrumentalis") nelle quali si palesa tutta la preparazione tecnica del gruppo scandinavo. In sostanza dobbiamo riconoscere ai nostri il gran merito di aver confezionato un album davvero serio, competente e certosino. Nulla sembra lasciato al caso e on stage la band promette di essere coinvolgente e di sicuro apprezzabile. L’unico feedback di miglioramento che mi sentirei di poter dare è di cercare un po’ di uscire dal “bello calibrato” e di osare talvolta ad attingere al sublime, sporcarsi le mani con un po' di sana “ignoranza” o “follia”. Evitare cioè di essere bravi a tutti i costi per poter cosi uscire allo scoperto con tratti più artistici ed intimi. Per il resto l’album risulta nella sua totalità ineccepibile, gradevole e sicuramente consigliabile sia agli amanti del power-groove-thrash, sia a chi ama la tecnica e il songwriting elaborato. Se fosse uscito nel 1997 saremmo sicuramente qui ad osannarlo. (Zekimmortal)

(Self - 2017)
Voto: 70

venerdì 7 aprile 2017

When Icarus Falls - Resilience

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Russian Circle
Sapete vero che cos'è la resilienza? Se ne parla molto spesso oggigiorno, ossia della capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Non so se gli svizzeri When Icarus Falls si siano trovati di fronte a tale situazione, ma hanno pensato bene di chiamare il loro secondo full length proprio 'Resilience'. I nostri si sono presi tre anni per rilasciare un nuovo lavoro, da quel precedente EP 'Circle', recensito proprio dal sottoscritto su queste stesse pagine. L'attesa come sempre ci ha ripagati, in quanto le cinque tracce contenute in questo cd, rilasciato dall'onnipresente Czar of Bullets, ci consegnano una band in stato di grazia, capace di confezionare delle gemme di post rock/post metal che definirei crepuscolare, intellettuale, raffinato ed impegnato. Premessa iniziale: mixing e mastering dell'album sono ad opera di Magnus Lindberg (Cult of Luna), non certo un pivello qualunque. Si parte con l'ipnotico sound di "One Last Stand" con le sue linee di chitarra circolari, dilatate, soffuse, ariose, timide e compassate, che per oltre dieci minuti vi coccoleranno come in una ninna nanna, in cui si percepisce però una tensione profonda, in grado di creare un evidente stato di ansia. Non sono sufficienti i vocalizzi rassicuranti (in parlato) del frontman a placare quello stato di angoscia che lentamente sale in gola, qualcosa di ammorbante è pronto ad esplodere e lo fa ad un minuto e mezzo dalla conclusione con un ingrossamento ritmico da paura, in un brano che ha modo di chiamare in causa Cult of Luna, Russian Circle, Tool e The Ocean. Il sereno torna ad apparire in cielo dopo la tempesta con la più breve "Into the Storm" che, nonostante un titolo poco rassicurante, garantisce oltre quattro minuti di melodie ben più distese, evocanti questa volta i God is an Astronaut, anche se il finale si fa più rabbioso, almeno per ciò che concerne il versante vocale. State forse storcendo il naso perché su due pezzi ho citato mille influenze? Lasciate perdete, ce ne fossero di band di questo calibro che condensano gli insegnamenti dei maestri in modo cosi completo e coinvolgente. Con "The Lighthouse" si inizia anche a spingere a tavoletta per quanto riguarda la pesantezza dei suoni, con un riffing che da etereo e guidato dalle tastiere, inizia a farsi più grosso, cosi come i vocalizzi, ben più rabbiosi (ed in growl), anche se sul finale c'è un cambio repentino sia a livello ritmico che vocale, a rendere la song ancor più intrigante. Con la title track si torna a percorrere le atmosfere contemplative del post rock, in una lunga traccia completamente strumentale. Rimane ancora "A Blue Light", gli ultimi 12 minuti di un disco griffato, in grado di regalare ottime melodie, lunghi squarci malinconici, suoni dilatati che s'intervallano con scorribande più nevrotiche e accelerazioni improvvise, vocals strazianti e disperate che lasciano percepire tutta la tristezza insita in un album che non deve per alcun motivo passare inosservato. Peccato solo che per il tour europeo non passino dall'Italia. (Francesco Scarci)

(Czar of Bullets - 2017)
Voto: 80

https://www.facebook.com/whenicarusfalls/

giovedì 6 aprile 2017

Soundscapism Inc. - Desolate Angels

#PER CHI AMA: Progressive Post Rock, Anathema, Mogway
Devo ammettere che al primo ascolto, il secondo album dei Soundscapism Inc., datato 2016 e distribuito via Ethereal Sound Works, non mi aveva colpito granché. Questo è il progetto solista di Bruno A., musicista eclettico tuttofare, ottimo chitarrista, programmatore e cantante (aiutato peraltro in tre brani dalla voce del fidato Flavio Silva). Riascoltando più volte il lavoro, soprattutto in un religioso stato di isolamento che mi ha permesso di addentrarmi per benino tra le note eteree e le rarefatte atmosfere espresse in questo 'Desolate Angels', mi sono accorto alla fine, con la complicità di una benevola sensazione, di aver scoperto una piccola perla musicale, ricercata e assai intrigante. Difficile collocare il musicista lusitano (membro anche dei Vertigo Steps) in un qualsivoglia filone musicale, ma se proprio lo si deve fare, a mio avviso l'unico matrimonio artistico lo vedrei con la neo-psichedelia, arricchita da forme di visionario post rock, cariche di colori boreali e memore di sconfinati e rilassati paesaggi sonori, cari a certa musica a cavallo tra il folk e l'ambient. Se "Zwinchenspiel I" sembra una b-side dimenticata in un cassetto da The Edge, chitarrista degli U2, in epoca 'The Unforgettable Fire', nella title track lo spettro dei Coldplay si affaccia mostrando fortunatamente il suo volto meno zuccherino e decisamente più intriso di allucinazione e intensità, avvicinandosi sempre più all'evoluzione progressiva e cinematografica tipica dei Mogway, per una decina di minuti all'insegna della libera fluttuazione nel cielo. La musica dei Soundscapism Inc. è un viaggio alla scoperta del proprio io, come lo stesso autore afferma e ditemi se non si può essere toccati nell'anima dall'intro di "Man in the Glass", che trasuda il sound degli inglesi Bark Psychosis da tutti i pori, per poi penetrare gli angoli più gradevoli dei migliori Mercury Rev, mantenendo sempre una costante originale interpretazione del verbo psichedelico. Centratissima poi la copertina di "floydiana" memoria, coerente con la proposta dell'artista portoghese, ora piazzatosi in pianta stabile a Berlino. Tutto è suonato con eccellenza e la qualità sonora è ben ricercata e particolare, non necessariamente in linea con le produzioni stucchevoli del post rock di oggi, forse più realista e vicina ai mitici Godspeed You! Black Emperor, sempre e comunque carica di personalità. "February North" è incredibilmente vicina alle ballate acustiche che mozzano il fiato negli ultimi capolavori degli Anathema, ricreando quella stessa angelica atmosfera, ovviamente rivista nel mondo alchemico dei Soundscapism Inc.. Senza dimenticare tocchi eterei di cosmica redenzione e granelli di sabbia lunare rubata dal repertorio filmico del grande Vangelis con intrinseca ma velata ammirazione per caldi suoni ambient e vintage trafitti dalla moderna psichedelia e dal folk. Senza dubbio una scoperta assai interessante, stimolante e vera, un originale meltin pot che vi aprirà le porte dell'anima, un artista che vive di luce propria e in tempi come questi non è poco. Massima ammirazione per i Soundscapism Inc., massimo rispetto per questo notevole 'Desolate Angels'. (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2017)
Voto: 80

https://soundscapisminc.bandcamp.com/releases

Lost In Kiev - Nuit Noire

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, God is an Astronaut
Secondo lavoro sulla lunga distanza per questo quartetto parigino. 'Nuit Noire' si presenta come una sorta di concept, un “inno alla notte”. Una serie di odi alle notti piene di sogni, ma anche di solitudine, che spesso finiscono per diventare esperienze mistiche. Le radici del suono dei Lost In Kiev affondano in profondità nel terreno del post rock strumentale più classico, richiamando di volta in volta nomi altisonanti quali Mogwai o God is an Astronaut. Le nove tracce si susseguono immergendosi l’una nell’altra senza soluzione di continuità, confondendo i limiti e giocando con i sensi e le percezioni, ora offuscandoli ora amplificandoli. Dei quattro francesi piace in particolare la gamma espressiva che riescono a coprire, dosando sapientemente le alternanze tra “troppo pieno” e “troppo vuoto”, preferendo invece giocare sui mezzi toni, sui crescendo e le atmosfere fortemente cinematografiche. Non stupirebbe, infatti, se questo lavoro fosse una colonna sonora, per via della sua forza suggestiva non indifferente. Quasi interamente strumentale, a parte qualche punteggiatura vocale, per lo più sussurrata, il disco si dipana lungo brani fortemente percussivi dalla struttura circolare ("Narcosis" e "Insomnia") mettendo in bella mostra synth atmosferici e un basso martellante che richiamano sfumature wave, alternati ad altri in cui le chitarre si fanno più presenti e distorte ("Nuit Noire" e "Resilence") e si fa ancora più interessante quando si sporca di glitch e di elettronica scura e pastosa ("Somnipathy" e "Emersion"). 'Nuit Noire' si rivela in definitiva un disco che, per quanto possa essere considerato “convenzionale”, spicca per una cura del suono, delle atmosfere e dei dettagli davvero ragguardevole, riuscendo alla fine ad elevarsi al di sopra della media delle produzioni a lui assimilabili. Ottimo lavoro, confermato peraltro da un sold out raggiunto in pochissime settimane. (Mauro Catena)

mercoledì 5 aprile 2017

Abominable Putridity - The Anomalies of Artificial Origin

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Per combinazione mi viene in mente quel super coglione di Lester Bangs che nel sessantanove si (re)inventa la definizione "heavy metal" per raccontare una esibizione live dei Blue öyster cult. Esotermia, sudore, energia, reggiseni. Il rock trasmuta l'anticonformismo in emanazione. Si isola, in un certo senso. Vent'anni dopo salta fuori il death metal, la frontiera estrema dell'heavy metal. E poi il brutal death metal, la frontiera estrema del death metal, e infine lo slam brutal death metal, la frontiera estrema del brutal death. Letto questo articolo decidete di aprire youtube e mettete su il secondo album delle Abominevoli putrescenze. Slam metal moscovita, dalla Russia. Non è strano: lì c'è una fervida scena underground, pare. Il disco dura meno di ventisei minuti. Il tempo di una cacata senza fretta. Controllato la carta igienica? Ok, andiamo. Per tutto il tempo basso-chitarra-batteria faranno la stessa cosa all'unisono, cioè TRRRRRRRRR. Come il vostro deretano, del resto. Poi c'è la voce. Un ibrido tra un maiale che viene sgozzato, un tombino rigurgitante merda liquefatta, il rumore del modem ISDN che vi si è rotto nel novantanove e, naturalmente, il vostro deretano. Mettete su "Remnants of the Torture" e ascoltatela seguendo il testo disponibile su darklyrics.com. Vi divertirete, ve lo assicuro. (Alberto Calorosi)

(Brutal Bands - 2012/ Unique Leader Records - 2015)
Voto: 60

https://abominableputridity.bandcamp.com/album/the-anomalies-of-artificial-origin

Genus Ordinis Dei - The Middle

#PER CHI AMA: Symph/Melo Death, Insomnium
Ho avuto modo di conoscere questa band poche settimane fa in occasione di un'intervista radiofonica. I Genus Ordinis Dei (G.O.D., sarà un caso?) sono una band di Crema assai determinata nel raggiungere l'obiettivo grosso. Partiti come tutte le band con la normale gavetta, i nostri hanno rilasciato un full length d'esordio ed un EP: è proprio con il primo album che i quattro lombardi hanno attirato su di sé le attenzioni dell'etichetta danese Mighty Music, che ha ristampato quel debutto, 'The Middle', che oggi andiamo ad analizzare. Premesso che stiamo parlando di musica uscita originariamente nel 2013 e che è stata concepita ancor prima, quello che appare chiaro fin dai primi minuti è che nelle nostre mani abbiamo un buon esempio di death metal, carico di groove e di melodie ammiccanti. Lo si capisce immediatamente con "The Fall", pezzo iper ritmato che mette in luce una tendenza a sfruttare ottime linee di tastiera che smorzano il growling demoniaco di Nick K (sicuramente da migliorare), cambi di tempo a più riprese e anche una certa vena malinconica in quei delicati tocchi di keys che evocano un che dei finlandesi Insomnium. Un bel giro di tastiere apre la terza "Word of God" in una traccia che sembra essere uscita da uno qualsiasi degli album degli Eternal Tears of Sorrow, anche se rispetto a quest'altra band finnica, l'act italico mantiene più preponderante la componente death metal in un rifferama compatto ed affilato, che fa largo uso di blast beat ma anche di devianze metalcore. Tuttavia le orchestrazioni lentamente guadagnano spazio, e vanno ad ammorbidire la prestanza ritmica dell'ensemble; un bell'assolo, tipicamente heavy metal, chiude una traccia onesta e piacevole. Dicevamo delle crescenti orchestrazioni: in "My Crusade" diventano quasi predominanti, sebbene gli strali chitarristici e quella voce che continua a non convincermi appieno. Apprezzabili comunque i cambi di tempo, che rendono la traccia assai varia, ove ancora una volta, si rivela notevole la sezione solistica. Un intermezzo sinfonico e si arriva a "Path to Salvation", altra song in cui si apprezza il connubio vincente tra riff graffianti, montagne di groove ed enormi quantitativi di tastiere sinfoniche. Non si può certo gridare al miracolo, non c'è proprio aria di novità nelle tracce di questo comunque onorevole album, anche se c'è sempre da tener presente il periodo in cui è stato scritto, perciò concedo l'attenuante di un lavoro concepito ormai un lustro fa. Ancora una manciata di tracce da ascoltare: l'epica "Cadence of War", che ripercorre (o forse anticipa) quanto fatto dagli Ex Deo con il loro tributo all'antica Roma, è una traccia che vede un cantato assai differente a metà brano e sfodera un largo break di tastiere nella coda conclusiva. "Ghostwolf" ha un suono bello potente e tirato, un mix tra Swedish sound, deathcore e death finlandese, in cui a lasciarmi però perplesso sono quei vocalizzi più urlati. Con "Battlefield Gardener" si picchia davvero pesante e sembra discostarsi da quanto suonato fin qui, in quanto le tastiere svolgono un ruolo ben più marginale, mentre le due asce affilano non poco le loro chitarre e si sfidano in una rincorsa che mischia feralità, tecnica, dinamica e ricerca melodica. Si giunge cosi alla conclusiva "Roots and Idols of Cement" e i G.O.D. hanno ancora modo di divertirsi con un riffing instabile e pesante, interrotto solo da quegli ottimi synth e orchestrazioni, vero valore aggiunto per quest'interessante band che ha sicuramente ampi margini di miglioramento, soprattutto dopo aver sostenuto un lungo tour europeo in compagnia dei Lacuna Coil. Per ora ci accontentiamo di questo 'The Middle' in attesa di ascoltare il nuovo lavoro, a quanto pare schedulato proprio per quest'anno. Se ne sentiranno delle belle. (Francesco Scarci)

(Mighty Music/Target - 2016)
Voto: 70

martedì 4 aprile 2017

Goodbye, Kings - Vento

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Vanessa Van Basten
Da quando Argonauta Records si è affacciata sul mondo della musica, parecchie band meritevoli di attenzione sono venute a galla ed i Goodbye, Kings (GK) sono sicuramente una tra queste. Originari di Milano, il sestetto ha esordito nel 2014 con l'autoproduzione 'Au Cabaret Vert', importante meta raggiunta tramite un primo EP e una demo, che lasciavano già intendere che non ci troviamo di fronte ad un progetto banale. I GK sono un piccolo esercito votato al post rock e non solo, pur dovendo confrontarsi con una scena italiana ed internazionale assai attive, riescono a distinguersi con uno stile raffinato e trascendentale che ricorda i Godspeed You! Black Emperor ed i King Crimson. "How Do Dandelions Die" è la prima traccia di 'Vento' e grazie ad uno sviluppo in crescendo con grosse reminiscenze prog, ammalia l'ascoltatore con suoni perfettamente bilanciati ed atmosfere eteree. Il lieve soffio del vento iniziale ci colloca al di fuori della nostra reale posizione, sopra una nuda scogliera a picco sull'oceano calmo del mattina, mentre il tocco leggero sulle corde di chitarra fanno riemergere ricordi lontani come un grande cetaceo che torna in superficie accompagnato dallo sbuffo liberatorio. Gli accordi distorti di chitarra sopraggiungono lentamente per dare man forte ad una struttura ripetitiva ed ipnotica. In "Shurhuq" si progredisce di livello, e l'opera diviene un ensemble minimalista dove il pianoforte diviene il protagonista della sua stasi, colma di tristezza ed in cerca di un pertugio di salvezza. La naturale continuazione sfocia in "The Tri-state Tornado", con basso e batteria che si fondono in un grande ed unico battito che accelera per lasciare poi spazio alle chitarre. Queste proseguono nella ripetizione ciclica del loro riff per poi calare, tornando al battito di apertura che scema nella chiusura del piano. Molto bello il duetto finale tra quest'ultimo e la chitarra pulita. La magnum opus è probabilmente "The Bird Whose Wings Made the Wind", una canzone di ben quindici minuti che riassume il concept dell'album. Ritornano le folate di vento, una timida chitarra si fa spazio tra la forza della natura e vince grazie alla sua caparbietà, come una goccia che scava nella dura roccia grazie allo scorrere del tempo. Tutto è semplice, emozionale fino al midollo, una lunga sonata che s'innalza progressivamente scavando nel nostro io primordiale. La seconda parte si arricchisce della sezione ritmica fatta dal basso che coesiste visceralmente con la grancassa adibita a cuore pulsante dell'intera struttura. L'incursione delle chitarre, distorte e volutamente distanti, aggiunge grinta in forma eterea ed effimera, una sorta di sogno iperrealistico che la mente dell'ascoltatore forgia a suo piacimento fino alla conclusione in fade out che affida la chiusura alle sferzate del vento. "12 Horses" è il brano più carico, l'incipit è potente e spazza via le precedenti introduzioni shoegaze per lasciar spazio al furore imbrigliato nell'animo dell'esercito battente bandiera meneghina. Il tono si abbassa, il piano duetta con melodie rovesciate dal delay delle chitarre, generando una ritmica complessa e impossibile da solfeggiare, ma poi il tutto si distende con brevi sprazzi lineari. Se 'Vento' è appunto un concept album incentrato su questo elemento naturale, il brano in questione è sicuramente la sua rappresentazione in termini di potenza ed energia. In generale l'album ricorda i passati Vanessa Van Basten, un duo genovese che ha lasciato un segno indelebile nell'undergound italiano, di cui i GK hanno saputo far tesoro degli insegnamenti. Un lavoro semplice, dal grande impatto sonoro ed emotivo, eseguito con passione ed estrema cura nell'uso dei suoni. Da vedere in concerto, sicuramente un'esperienza unica da assaporare sospesi tra sogno e realtà. (Michele Montanari)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://goodbyekings.bandcamp.com/

It's Everyone Else – Heaven is an Empty Room

#PER CHI AMA: Industrial/Digital Hardcore/Electro Noise
A fine novembre del 2016, la Noise Appeal Records ha fatto uscire l'album di debutto del duo sloveno degli It's Everyone Else. Un lavoro ritmicamente intenso, carico di violenza selvaggia e distruttiva, liberatoria, debitore e seguace delle traiettorie sonore già tracciate dai vari Prodigy, Skinny Puppy e Atari Teenage Riot, un frammento di potente saggio di musica dal gusto inequivocabilmente industrial, elettronico quanto basta per accostarlo al digital hardcore ma con sconfinamenti nell'alternative punk, complice certe geniali trovate che hanno reso famose band del calibro dei Chumbawamba, con vocals maschili e femminili che si alternano nell'imitare lo stile di Pixies e Rage Against the Machine oltre ai già citati precedenti gruppi. L'industrial non se la passa molto bene ultimamente e considerate le poche idee innovative, riusciamo ad individuare un'alta dose di creatività nel duo di Ljubljana, l'originalità non è proprio di casa ma le lezioni lasciate dai maestri del genere hanno dato buoni frutti in questo box di circa mezz'ora, dove il calderone di suoni rievoca spettri e vette musicali di tutto rispetto. Il disco vola velocissimo con i suoi dieci brani intrisi nel silicone e rivestiti di lattice; il tocco perverso, estremo e ribelle si nota fin dalla prima nota e genera nell'ascoltatore una buona sensazione di familiarità col genere ed allo stesso tempo di curiosità che lo porta a seguire uno dopo l'altro lo sviluppo delle canzoni. La voce di Pika Golob dona un tocco di glamour trasversale ed oscuro con il suo canto sofferente e di scuola alternative punk alla Kim Gordon mentre Lucijan Prelog spinge sull'acceleratore, focalizzandosi sulla falsariga del punk più indie, combattivo ed estremo che ricorda i gruppi già citati di Zack de la Rocha e Alec Empire. La presenza costante di atmosfere sinistre e oppressive, la prevalenza scenica del noise e la variabile EBM, rendono ancora più accattivante la figura del duo di Ljubljana, ed è per questo motivo che brani come "The Truth About Mirrors" e "Sleep is So Cruel" diventano canzoni memorabili che alimentati da brani lampo come la rumorosissima "Nineteenninetyfive" o l'allucinata e isolazionista "Lone", completano un ottimo manifesto di elettronica d'assalto futurista che anche dopo infiniti ascolti riserva ancora delle nuove sorprese sonore. La scelta dei suoni, la produzione più che buona e una copertina che ingloba il sinistro, nero disagio che avevamo già apprezzato in 'Adore' degli Smashing Pumpkins ampliano a dismisura la potenza di fuoco di questa coppia di killer armati di sintetizzatori, coinvolgendo e trascinando chi ascolta con la stessa energia di una band hardcore. Saranno difficili da accettare per la massa, magari anche un po' derivativi, ma questo album è un vero carico di materiale infiammabile, dinamite pronta ad esplodere nelle vostre orecchie! Sottovalutarli sarebbe un grave errore, disco consigliato, da ascoltare ad alto volume, altissimo volume! (Bob Stoner)