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giovedì 3 maggio 2012

Germ - Wish

#PER CHI AMA: Black, Space Rock, Elettronica, Ewigkeit
Disorientato. Ecco l'effetto infertomi dal primo ascolto del debut album di questa one man band australiana che risponde al nome di Germ, che combina grandi aperture melodiche, con rare ma feroci sfuriate post black, fino a divagazioni dal flavour rock psichedelico. Apertura affidata a “An Overdose on Cosmic Galaxy”, che propone un qualcosa di simile da quanto fatto recentemente dagli svedesi AtomA (ex Slumber), con un sound etereo, arioso, easy listening e forse un po’ ruffiano, rovinato solamente da delle clean vocals fastidiose di Tim Yatras (già in Austere, Nazxul e session dei Woods of Desolation). Ma ecco che a scombinare e disorientarmi del tutto, ci pensa lo screaming efferato del mastermind, che seppur su un tappeto cibernetico assai possente, mi fa piombare nei miei incubi più spaventosi. La seconda traccia continua la sua opera di stordimento: base affidata ad una specie di space rock (ricordate gli Ewigkeit) però con le urla brutali a farsi portavoce della rabbia contenuta nell’animo tempestoso di Tim, che si alternano con un cantato pulito, finalmente all’altezza. L’elemento portante di tutte le song è sicuramente l’elettronica, la cui influenza è da indirizzare al grande Jean Michele Jarre, il che rende la proposta del nostro artista, veramente bizzarra e inedita. Non fosse per alcune galoppate epiche, di sporadici ma veementi stacchi black e delle già menzionate strazianti performance vocali, probabilmente saremo qui a parlare di un qualcosa che ha più connessioni con il rock, piuttosto che con l’ambito estremo. E proprio in questo risiede la forza di questo lavoro, che nella quarta “Breathe in the Sulphur/A Light Meteor Shower” vede il suo apice artistico compositivo, con orchestrazioni da brivido che si stagliano su una base lugubre come se il giorno fosse portato a notte, da un’inquietante eclissi solare, assoluto presagio di morte. Splendida. Seppur alcuni possano storcere il naso per una ridondante ripetizione nelle ritmiche, poco importa, c’è da divertirsi comunque nell’ascolto di questa avvincente opera; sono le ambientazioni depressive, le elucubranti percussioni psichedeliche, la fusione di generi cosi estranei tra loro, a rendere “Wish” il mio più chiaro desiderio di questa primavera. Si prosegue con la follia EBM di “Gravity”, prima che l’aussie man si lanci nuovamente alla carica con una serie di song che, lasciatemelo dire, di metal hanno ben poco. “Flower Bloom and Flower Fall, but I’m Still Wait” si sorregge sull’onnipresente base orchestrale, mettendo in mostra uno splendido assolo, “Infinity” funge da intermezzo allucinogeno prima del feroce attacco finale inferto da “Your Smile Mirrors the Sun”. Insomma un altro signor album che arriva dall’Australia, in attesa di venire catapultati nei fantastici universi di Ne Obliviscaris e Aquilus. Australia, fucina di talenti infinita! (Francesco Scarci)

(Eisenwald)
Voto: 85

Zuriaake - Afterimage of Autumn

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
Pensavo di aver scavato abbondantemente nell’underground, evidentemente mi sbagliavo. Lo testimoniano quest’oggi i cinesi Zuriaake e il loro introvabile album di debutto, edito dalla Pest Productions. “Afterimage of Autumn” è un lavoro un po’ datato, del 2007, che però ci tenevo a recensire, essenzialmente per dare voce a un mondo a me sconosciuto e in secondo luogo, per l’aura magica che lo avvolge sin dalla meravigliosa intro, “Whispering Woods”. Poi, il rumore di un ruscello apre “God Of Scotch Mist” e ben presto, anche le stridule chitarre (e vocals) di chiaro sapore nord europeo, fanno la loro comparsa. Burzum. Si, ancora il suo spettro che si aggira minaccioso anche per le lande infinite dell’estremo oriente. Non c’è nulla da fare, il Conte ha creato un genere che fa proseliti in tutti gli angoli del mondo, compresi questi Zuriaake. Se cosi fosse però, la recensione potrebbe anche terminare in poche righe; quello che mi fa però drizzare le antenne è l’utilizzo delle tastiere, limitato per carità, ma in grado di creare suggestive ambientazioni che sanno molto di cultura cinese. E se cosi, con la seconda traccia, ho come l’impressione di visitare il Palazzo Proibito di Bejing, con le successive song mi sento catapultato in cima alla Muraglia cinese, o al cospetto dell’Esercito di Terracotta, nonché dimenticato nelle povere campagne cinesi. La tradizione di questo popolo, i suoi suoni, i suoi umori, i dolori, le frustrazioni, la sua religione, convogliano tutte nelle tracce di questa interessante release che pur respirando la gelida aria dei boschi norvegesi, non nasconde l’amore per la propria spiritualità. Un po’ come accadde per i coreani Sad Legend, i Chthonic di Taiwan o i giapponesi Tyrant, anche con gli Zuriaake andiamo a scoprire una forma di estremismo sonoro che trae sicuramente spunto dalla musicalità di questo immenso paese. Per amanti del black ambient, ma non solo; anche chi ha voglia di esplorare una nuova cultura musicale, si faccia sicuramente avanti! (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 70

martedì 1 maggio 2012

Deadly Carnage - Sentiero II: Ceneri

#PER CHI AMA: Black Depressive, Shining
La malvagità intrinseca di questo lavoro, mi ha tenuto decisamente incollato nell’ascolto della seconda release degli italiani Deadly Carnage, un concentrato di black metal malato, selvaggio e feroce, che si rifà, senza ombra di dubbio, alla tradizione nordica, ma comunque con un estro riconducibile alla scuola italica. Già la opening track, “Guilt of Discipline”, conferma le mie parole, offrendo un corrosivo e corroborante esempio di musica nera, che trova espressioni di somma eleganza, nei suoi assoli e nelle parti più depressive, che permette all’act romagnolo di trovare una propria strada nell’intricato panorama estremo; le ritmiche serrate del brano infatti, mi avevano fatto temere il peggio, ma poi appunto quell’estro, di cui sopra, permette al quintetto italico, di esprimere la propria personalità. Anche la seconda “Parallels” offre spunti interessanti, per il desiderio dei nostri di spingersi verso lidi più atmosferici nei meandri estremi del black doom, accompagnati da una sofferente quanto mai diabolica voce, che alcuni di voi, vorranno equiparare a quella del leader degli Shining. Il paragone con la band svedese ci potrebbe anche stare, soprattutto quando la band si lancia in aperture più melodiche o drammatiche, mentre non ho trovato cosi piacevoli le parti in cui i nostri abbandonano il black, per far posto a scorribande che puzzano di death metal. L’abilità dei Deadly Carnage risiede comunque nell’alternare parossistiche sfuriate di suoni infernali con piacevoli parti arpeggiate (e il finale di “Parallels” ne è un palese e riuscitissimo esempio), cosi come pure da sottolineare l’eccezionale prova del vocalist nel mutare il proprio registro vocale: growl, blackish, lamentoso, sofferente, sussurrato o pulito (dell’ultima traccia). “Epitaph Part I” devo ammettere non mi è piaciuta granché, per quel suo incedere un po’ piatto e inconcludente; nella sua evoluzione e successiva “Epitaph Part II”, i nostri faticano nel ritrovare la verve che ha contraddistinto le prime due roboanti song. Il finale della seconda parte, fortunatamente, dà modo al combo riminese di ritornare a mostrare fiero il proprio valore. Glaciali alfieri del black oscuro made in Italy, in compagnia dei Frostmoon Eclipse, i Deadly Carnage regalano un altro interessantissimo pezzo, “Growth and New Gods”, esempio di furia evocativa che esplica tutta la propria genialità nel malinconico intermezzo acustico frammisto ad uno straziante solo, che innalza ancora una volta (e di molto), il livello qualitativo di un disco che, forse ha il solo difetto di non mostrare una certa costanza di fondo a livello musicale, perdendosi talvolta più nel desiderio di devastare l’ascoltatore con la sua irruenza, piuttosto che guadagnarne l’attenzione con una proposta davvero originale. A chiudere l’album ci pensa la paranoica “Ceneri”, song cantata in italiano, che sembra trarre ispirazione dai Canaan. “Sentiero II: Ceneri” avrebbe anche meritato di più, se avesse dato meno spazio ad una violenza (death o black che sia) talvolta solo fine a se stessa. Li vorrei pertanto risentire con il terzo e solitamente decisivo lavoro, speranzoso che le asperità di questa release, vengano del tutto limate. Dal sicuro avvenire, se prenderanno le distanze da suoni triti e ritriti. (Francesco Scarci)

(De Tenebrarum Principio)
Voto: 70

Oskoreien - Oskoreien

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Burzum, Agalloch
Una band Americana, che suona viking metal e che viene prodotta da una label cinese? Ecco uno degli esempi più azzeccati della globalizzazione e di quanto anche in ambito musicale, anche la Cina stia emergendo prepotentemente. Gli Oskoreien sono una one man band californiana, guidata da tal Jay Valena, che sembrerebbe essere un grande patito della mitologia nordica, a tal punto da chiamare la propria band come l’orda di anime morte che vagano tra il regno dei vivi e quello dei morti, una sorta di limbo della religione cristiana cattolica. E a fronte di un nome cosi epico, ecco che il nostro tuttofare statunitense, ha rilasciato il proprio debut omonimo che ci guida, un po’ come Virgilio con Dante ne “La Divina Commedia”, in un dimenticato mondo senza tempo. Tra le mani mi trovo un classico esempio di cascadian black metal, quella forma di black naturistico, primitivo, epico e sognante che sta prendendo forma e sostanza nella Western coast grazie, in primis ad act quali Agalloch e Wolves in the Throne Room. E proprio da queste grandi band, gli Oskoreien traggono spunto, arricchendo la propria proposta con sfuriate in stile Burzum, con aperture atmosferiche da capogiro, incursioni acustiche, melodie astrali e ataviche che riempiono con somma gioia il mio cuore pulsante. Cinque splendide tracce, che unendo la furia tipica del black con le chitarre tirate, suonate con l’immancabile tecnica del tremolo, agganciate ad un efferata batteria stracolma di blast beat sin dall’assalto frontale dell’opening track “Illusion Perish” che mette in evidenza immediatamente l’attitudine “wild” dei nostri, complice anche le demoniache screaming vocals del mastermind. Quello che poi solleva l’elementarità della proposta, sono quelle invasioni barbariche, epiche che conferiscono una certa solennità ed un’aura di mistero a questo enigmatico lavoro, dalla copertina alquanto inusuale per un lavoro black. Lampi post rock, accenni di psichedelia e frangenti ambient, completano il quadro di un album che ha il pregio di avere molte cose da dire. Da ricercare accuratamente sul sito della Pest Production, un’etichetta, che certamente ce ne farà sentire delle belle in futuro. Intanto godiamoci appieno questi Oskoreien, godibilissimi! (Francesco Scarci)

(Pest productions)
Voto: 80
 

Mondstille - Seelenwund

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Post Black
Non amo assolutamente il tedesco come lingua, per quella sua mancanza di musicalità, e non me ne vogliano i Mondstille per questo; alla luce però di quanto prodotto dall’act viennese, sinceramente me ne frego e ci passo sopra, in quanto la band austriaca ha rilasciato un signor album, che impreziosisce di molto il panorama black avantgarde, con una gemma da incastonare nell’ormai poco inflazionato mondo del black melodico. Detto fra noi, non conoscevo il quartetto di Vienna e di sicuro andrò a pescare il loro album d’esordio “Am Ende…”, per capire se erano già dei fenomeni all’esordio (datato 2008) o se c’è stata chissà quale evoluzione nel corso di questi anni che li ha fatti diventare cosi evocativi ma soprattutto bravi. Fatto sta, come avrete capito, che “Seelenfreund” è un album che a me piace moltissimo: un lavoro sicuramente estremo da un punto di vista musicale, impreziosito tuttavia da sublimi melodie di violino (grandissimo Ludwig), che si stagliano e susseguono su un tappeto ritmico estremamente serrato, con delle harsh vocals mefistofeliche. “Mein Inner Sturm”, “Im Trauerhain” e “Zeitenwandrer”, una dopo l’altra si esaltano per la furia propulsiva emanata, ma anche per le loro splendide atmosfere, che sembrano trarre ispirazione da una versione estrema dei primi ispiratissimi Skyclad. Sia chiaro però che non siamo al cospetto di una band folk; qui c’è tanta cattiveria, ferocia e brutalità, ma semplicemente è convogliata nel mondo più intelligente possibile, alla ricerca di una magica spiritualità, che si esplica nel corso dell’ascolto del cd. Qualcuno potrà affiancare il nome dei nostri a quello degli Eluveitie, niente di più sbagliato. I Mondstille sono i Mondstille, difficile trovare altre band che possano accostarsi al misticismo della proposta del combo, che tra l’altro in line-up non vede la presenza del batterista bensì l’uso di un drumming sintetico, peccato. Selvaggia anche “Die Seele Frei”, la quinta song, cosi come pure tutte le successive, sebbene in taluni casi, abbiano degli incipit assai romantici che sfociano comunque nella furia nera del black; ci pensa l’incantato suono del violino che si mischia a quello poetico del violoncello a mitigare il sound abrasivo delle chitarre, portandoci ad un’estasi spirituale. “Ich der Pan” ha un inizio da band post rock/folk, prima di abbandonarsi al corrosivo fragore delle chitarre. Il feeling che l’ensemble emana è quello tipico delle band post black e mi vengono in mente, a tal proposito, Deafheaven, Altar of Plagues, Lunar Aurora o la new sensation australiana dei Ne Obliviscaris; a differenza di questi altrettanto validi act, i Mondstille, al pari dei Ne Obliviscaris, hanno una marcia in più, che li vede posizionarsi immediatamente in cima alle mie preferenze in questo genere, con un lavoro del tutto inaspettato e che mi auguro, possa suscitare un certo clamore nella scena estrema. Eccezionali, vanno premiati con la vostra attenzione! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90
 

domenica 29 aprile 2012

The Black Dahlia Murder - Miasma

#PER CHI AMA: Deathcore/Swedish Death, As I Lay Dying, At the Gates
Torna la Metal Blade, ormai identificabile negli ultimi anni, con album di death-metalcore. Ancora una volta lo swedish death metal si fonde con l’hardcore americano e “Miasma” fu l’ennesima dimostrazione di questo trend imperante. La band statunitense formatasi nel 2001 dopo “Unhallowed” registra ai Planet Red Studio di Richmond, “Miasma”, il cui stile riprende quello del suo predecessore: il songwriting è infatti influenzato dalle solite band scandinave, At The Gates e Carnal Forge su tutte, e dalle altre band statunitensi che suonano questo genere. Ormai lo ripeto da mesi/anni, mi trovo spesso in imbarazzo a recensire questo genere di gruppi perchè oramai, i miei commenti finiscono un po’ tutti per assomigliarsi. Quindi anche per i TBDM non è che posso scrivere chissà che: l’approccio è molto familiare ad altri gruppi recensiti in passato, The Red Chord ed As I Lay Dying ad esempio, in altre parole, un sound ben bilanciato fra l’incazzatura del metalcore americano e la melodia del death metal svedese, canzoni brevi e dirette, riffoni di chitarra, una doppia voce schizofrenica, blast beat devastanti e melodici solos. C’è da aggiungere che, nella band proveniente da Detroit, è riscontrabile anche una leggera componente blackish con le vocals di Trevor Strnad più demoniache e caustiche rispetto ai suoi colleghi. Comunque, per concludere, si tratta sempre di deathcore a stelle e strisce, quindi se il genere è di vostro gradimento, direi di non farvi scappare questo ennesimo prodotto. Se poi anche voi siete saturi come me di questo tipo di musica, beh il panorama metallico ha da offrivi un mucchio di alternative... (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Colosseum - Chapter 2: Numquam

#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, Skepticism
Secondo album di questa potentissima band nordica, il terzo se teniamo conto della demo registrata nel 2006, che a me non è affatto piaciuta per i troppi riff ripetitivi, di quelli noiosi, che ti fanno conoscere una canzone dopo i primi quaranta secondi di distorsione. Ma qui, anche se sono passati solo tre anni dall’esordio in sordina, stiamo affrontando qualcosa di differente qualità. “Numquam” è un’opera unica di funeral doom, epica, non eccessivamente lenta e con riff (questa volta si) in evoluzione persino all’interno delle singole tracce. La mia più profonda ammirazione è andata verso la consapevolezza di questa band originalissima, che non teme di affrontare assoli melodici e inoculare atmosfere di speranza all’interno di un’opera doom totalmente nera. Molto sinfonica, a voler essere sinceri, con la presenza ad effetto di flauti e violoncelli che risaltano in un sottofondo di pura oppressione. È una registrazione che abbraccia con la sua tristezza, la sua oscurità, il suo senso di tocco infinito. Mancano quei passaggi depression-style che colpiscono il cuore, ma forse, in questo caso, è meglio così. “Numquam” si apre timidamente con una title track dai forti assoli cosmici, le prime due corde delle chitarre collidono con le ultime due accompagnate dal tormento inquieto di una tastiera che trasmette un forte timore di vana attesa. Epica. “Towards the Infinite” ricorda i padri del genere, Skepticism e Until Death Overtakes Me, amalgamando la lentezza tipica del funeral ad atmosfere maestose di mondi in rovina. Terribilmente desolante. “Demons Swarm by my Side” e “The River” rappresentano le due tracce che più mi hanno fatto apprezzare questa band: riff avvolgenti, poderosi nel loro andamento, assoli dai toni alti che lanciano l’immaginazione verso stati più elevati dell’essere e quell’abbraccio di tristezza che manca nelle altre tracce (“Awaiting the Darkness to Come / Drifting Away… Away…”); di sicuro un momento topico. “Narcosis” funge da collante perfetto tra il doom ‘comune’ delle tracce precedenti a quello più propriamente ‘personale’ dei Colosseum. “Prosperity” è la chiusura perfetta di questo secondo capitolo. Regale. Tenebrosa. Pervasa da un’antica magnificenza di bellezze perdute. Vengono condensate qui tutte le influenze di un gruppo fondamentale per il panorama underground del metal: dall’utilizzo in contrasto di accordi bassi e assoli alti, all’utilizzo di tastiere come mezzo per creare singolarissime atmosfere, agli iperborei momenti evocativi di marce epiche verso il nulla. Ogni strumento risponde perfettamente a sé stesso e comunica solidale con tutti gli altri. Non c’è da aspettarsi nulla da questa band, se non altre sperimentazioni, poiché hanno già scritto quello che dovevano scrivere all’interno della storia del funeral doom. Decisamente poco conosciuti. Nota: “Numquam” è l’ultimo album con Juhani Palomäki alla voce. Nel 2010 il suo spirito ha lasciato questo mondo. (Damiano Benato)

(Firebox)
Voto: 85
 

sabato 28 aprile 2012

The Sect - Initiation

#PER CHI AMA: Black Symph., Emperor, Solefald
Il gruppo francese ci propone questo ambizioso lavoro carico di pathos gothico e oscurità. Figlio del sound nero di Emperor e primi Solefald, si snoda sinfonicamente in un percorso complicato. L'uso delle voci è molto ricercato e le tastiere sono maestose e rendono il suono magico, malinconico e pieno. Le parti più melodiche, con l'uso del piano in uno stile drammatico e classico, aumentano la componente nostalgica della musica, in contraltare troviamo una sezione ritmica volutamente tenuta in sordina per meglio rendere il sound più accessibile, meno impastato e più cristallino, pur mantenendo una buona forza d'urto. Il cd è molto ben fatto e non risulta avere momenti di caduta, infatti sin dall'inizio, si ha l'idea di un lavoro ben studiato e di una band chiaramente al di sopra della media. Tutti i brani permettono all'ascoltatore di entrare in una sorta di “inner circle”, un calderone magico e ancestrale con cori molto evocativi e d'effetto. L'intro, “Invitation”, dura poco più di 1 minuto ma mostra subito il lato romantico e oscuro dell’ensemble, aprendo la strada alla seconda e bellissima traccia, “Altar of the Golden Depravation” e la terza (la mia preferita) “Mitre and Crosier”, evocativa e tesissima, con quei cori pazzeschi che ricordano nientemeno che i “Carmina Burana”! La quarta traccia, “Acceptation” (altro brano da collocare tra i miei preferiti), è estremamente carica d'atmosfera, ha un'aria di pianoforte spaventosamente classica in stile “Satie”, con quel sottofondo di fiati, che ricordano vagamente i lavori di Malher! Questo classicismo crea un perfetto contrasto con la successiva prorompente song dal titolo “Noctum Phantasmatha”, che alterna stati di luce e ombra, con il suo incedere alternato lento/veloce, sottolineato da un cantato pulito e i soliti splendidi cori ispirati, (ricordano tanto i Falkenbach) uniti ad uno screaming veramente diabolico e degno di nota. “Requien of the Unborn” parte con chitarre velenose e tirate, un bridge finale rallentato e molto gothic metal e chiude le danze con l'epicità giusta per rendere il tutto indimenticabile. Alla fine non ci resta che decretare un'unanime sentenza favorevole ai The Sect visto che il loro album “Initiation” risulta ancora oggi dopo quattro anni (il cd è del 2008) portatore di nuove vesti e idee sane per un genere che a volte rischia di cadere nel baratro del ripetitivo o del clone. La nuova canzone “Cosmic Keys to my Creation and Time” del 2009, sul loro myspace, ci fa ben sperare per un loro imminente ritorno in grande stile. Grande album! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 80