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giovedì 1 settembre 2011

Chthonic - Takasago Army

#PER CHI AMA: Extreme Melodic Metal, Folk, Epic, Whispered, Children of Bodom
Da più parti massacrati o addirittura additati come cloni dei Cradle of Filth o Dimmu Borgir, io, come sempre, decido di andare contro corrente ed evidenziare pregi e difetti della band proveniente da Taiwan, che con questo “Takasago Army” giunge all’ammirevole traguardo del sesto album e direi che il risultato finale è davvero buono. 10 tracce che si aprono con la classica intro tastieristica, “The Island” (dove fa la sua comparsa anche il classico violino a 2 corde, l’ehru), e poi il quintetto dagli occhi a mandorla, ci apre al loro mondo musicale fatto di un impianto di musica estrema (né black, né death a mio avviso), condito da atmosfere orientali, poste su arrembanti cavalcate heavy metal, in grado di regalarci momenti di grande piacere e relax per le nostre menti, già frustrate dal rientro dalle vacanze. Lo scorso anno mi trovai a recensire nello stesso periodo i finlandesi Whispered e devo ammettere che le somiglianze tra le due band sono tangibili, con entrambi gli ensemble che cercano di miscelare sonorità tipiche delle colonne sonore dei film ambientati nella terra del “Sol Levante” (“L’Ultimo Samurai” o “L’Impero del Sole”), con un sound che ammicca palesemente a quanto proposto dai Children of Bodom, con un esito tuttavia molto più soddisfacente della ormai decadente ex-super band finnica. Anche in questo cd, le tematiche riprendono il filo conduttore dei due precedenti lavori, con la narrazione di quanto accadde durante la Seconda Guerra Mondiale, ossia dell’appoggio dei volontari dell’isola di Taiwan dato all’esercito giapponese contro la Cina. Certo, come al solito non è sempre tutto oro quel che luccica, alcuni passaggi evidentemente non brillano per originalità, o in alcuni tratti il sound della band è appiattito banalmente dalle soluzioni prevedibili che il genere obbligatoriamente impone. Quello che continua a stupire tuttavia è la forza di una band, che pur vivendo agli estremi confini dal mondo occidentale, continua a farsi largo in Europa, con lavori di grande spessore, pur mantenendo inalterata la propria identità “epico-folkloristica” che da sempre contraddistingue l’act mandarino. Sono felice che i nostri siano ritornati e che si siano potuti riconfermare con un sound caratterizzante; basta ora sistemare un pochino quella stridula voce da cane castrato (o in stile Dani Filth) conferendone una più matura e i Chthonic saranno pronti al grande salto. Scommettiamo? (Francesco Scarci)

(Spinefarm Records)
Voto: 75
 

Tristania - Rubicon

#PER CHI AMA: Gothic, Alternative
Che dire, ricevere il nuovo album dei Tristania direttamente dalle mani del Franz mi ha acceso la libido non poco. Premessa, "Widow's Weeds", "Beyond the Veil" e "World of Glass" sono i tre album dei Tristania che ho ascoltato con piacere quando il Gothic mi prendeva particolarmente. I successivi "Ashes" ed "Illumination" li considero "non classificati", quindi immaginate la mia ansia nell'inserire questo "Rubicon" e ascoltarlo... Poteva essere il loro riscatto! Infatti, poteva... Tralasciando storia e passato dei Tristania su cui non mi soffermo, apriamo quindi una discussione su questa ultima release. L'arrivo della nuova vocalist sarda, Mariangela Demurtas, alza il livello estetico della band ma non porta un gran giovamento alla qualità. Con questo non dico che canti male ma di voci femminili valide ce ne sono una marea, ma per distinguersi dalla massa bisogna sempre avere quel qualcosa che gli altri non hanno. E lì non è che si può fare tanto, o c'è o non c'è. Generalmente la voce è abbastanza carica di effetti, quindi è difficile capire se le doti siano tutte naturali oppure no. Nel contesto è tuttavia azzeccata. Comunque, parliamo delle canzoni. Abbiamo undici tracce tutte molto veloci, ben bilanciate tra chitarre distorte e acustiche, uso di cori e seconda voce maschile. L'aria che si coglie ascoltando l' album non è quella della ricerca di novità a tutti i costi, sembra che i musicisti si siano messi a fare del loro meglio in sala prove e ne sia uscito un discreto prodotto. Certo, quando ti firmi Tristania, i vecchi fan sospirano pensando a certe canzoni. In "The Passing" ho apprezzato il fraseggio di violino, non i classici archi sintetizzati ma un buon vecchio violino struggente, come quelli dei suonatori di strada. Valevole, forse perchè il concept richiama i Within Temptation e vecchi Nightwish, come altre tracce. "Illumination", l'ultima traccia di Rubicon è l'unica ballata del lavoro ma manca di sostanza perchè nessun strumento crea una linea melodica meritevole di tale definizione. Quattro note e alternanze di suoni puliti e distorti possono andare per un gruppo di livello inferiore ma non è questo il caso. Sarà che il Gothic non lo ascolto più, ma forse è proprio perchè non trovo più gruppi che lo suonano bene, sta di fatto che tolgo questo cd dal lettore e vado verso nuovi orizzonti, alla ricerca del suono perfetto... (Michele Montanari)

(Napalm Records)
Voto: 55

mercoledì 31 agosto 2011

On a Bridge of Dust - Facing The Opposite

#PER CHI AMA: Alternative, Post Rock, Rock, Progressive
Recensire una band italiana mi mette sempre di buon umore e se il lavoro è pure di buona fattura, la giornata non potrà che essere positiva. Il nostro quartetto veronese esce con questo "Facing the Opposite" andando a scrivere un capitolo interessante per quanto riguarda l'alternative rock/progressive metal di casa nostra. Certo, percorrendo le nove tracce si sentono le forti influenze "Tooliane", ma i passaggi melodici azzeccati e una tecnica da manuale fanno apprezzare non poco questo ottimo album. La qualità di registrazione e la pre-post produzione sono a livello professionale, lo stesso dicasi per gli arrangiamenti che non saranno mai imprevedibili e geniali, ma danno continuità alla composizione. Il cd si apre con "Recurring Fault" che dopo un breve riff di chitarra come intro, incalza subito unendo una linea di basso potente e una batteria solida che creano insieme buon all' unisono. "Reckoning" ha un inizio epico, incentrato sulla batteria e chitarre più aperte e distese, ma i riff che contraddistinguono i Bridge arrivano subito, intrecciando una stretta maglia che imprigiona la mente e porta a dondolare la testa a ritmo. Bella veramente e personalmente la considero la main title dell'album. Avevo già apprezzato "Barren Moor" nel precedente EP, ma ancora di più in questa nuova registrazione la malinconia della traccia si fa vivere fine in fondo. Forse il pezzo più strumentale dell'intero album. L'album si chiude con "Outcast" che ha uno dei pochi main riff puliti di questa release, il che crea un'atmosfera psichedelica e post rock, alla Explosions in the Sky. Ma il marchio di fabbrica dei riff incalzanti arriva come sempre e basso/batteria accompagnano degnamente il tutto, anche se potrebbero rubare tranquillamente la scena per quanto sono ben studiati. Come già detto, la qualità di registrazione è ottima, ma in particolare sulle chitarre è stato fatto un lavoro certosino. Posso immaginare le ore passate a trovare i giusti settaggi ma ne è valsa la pena, sentire dei distorti così realistici e caldi è una goduria per le mie orecchie intasate da tanti suoni freddi e sterili degli ultimi tempi. Ovviamente basso, batteria e voce non sono stati trascurati, rimangono nella media (alta). Se devo fare un appunto ai Bridge, riguarda la voce. Sicuramente il cantante non ha doti che fanno strappare i capelli ma conoscendo forse i suoi limiti, fa un uso attento della stessa, senza mai esagerare e soprattutto si fonde perfettamente con l' idea di fondo di tutti i pezzi. Se poi la scelta di suonare la chitarra e cantare allo stesso tempo è stata fatta per non introdurre un altro elemento alla formazione, approvo (e capisco) in pieno la scelta dei Bridge. Difficile creare una sintonia così perfetta e riuscire a mantenerla. Bravi, complimenti agli On a Bridge of Dust che si lasciano apprezzare molto anche dal vivo, mantenendo sempre un atteggiamento umile e disponibile. Ce ne fossero... (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80
 

Endthisday - Sleeping Beneath the Ashes of Creation

#PER CHI AMA: Thrash, Metalcore, Heaven Shall Burn, Caliban
Caricato l’album su iTunes, vengo investito dalla violenza disarmante di questi 5 ragazzi di Milwaukee che, cattivi e determinati, alzano un muro di suono dai tratti thrash, per “tirare il fiato” piazzano qualche bel bridge di puro metalcore, con il cantato che si alterna tra uno screaming da far sanguinare le corde vocali e qualche profondo growl, supportato da un controcanto nello stesso stile, basti ascoltare le canzoni "Lily White and Blood Red" o "Cursed Be the Blessed". Le prime 2 tracce sono benzina sul fuoco per gli amanti dei gruppi che non concedono nulla al melodico e fedeli al metallo più bruciante, il quintetto rallenta verso il terzo pezzo, dove si comincia a vedere una piccola variante melodica con una chitarra più dolce, che viene spazzata via immediatamente dallo screaming del vocalist che riporta i tempi a velocità supersoniche, per poi chiudere con un campionamento che sembra condurci verso un riposo dopo questa scarica di sana violenza, ma il brano successivo non perdona e si ricomincia laddove ci eravamo lasciati poco prima: la quarta canzone è il climax di tutto l’album dove tutto viene portato all’estremo, la song più complessa dove i nsotri concedono ancora un'alternanza di thrash superveloce ad un bridge solenne e potente con tanto di campionatura di sottofondo e con una finta fine di canzone e ripresa delle ostilità…quasi illudendoci che il martellamento possa aver fine per riprendere con rinnovata ferocia. A questo punto i nostri eroi si concedono il meritato riposo con un interludio più di riempimento che di grande significato, ma che serve a loro per rifiatare e all’ascoltatore per raffreddare timpani e i muscoli già indolenziti del collo. Ma non c’è tregua, la mattanza riprende più veloce che mai con un altro pezzo abbondantemente sopra i 6 minuti, dalla costruzione simile alla quarta traccia. Gli ultimi due brani, prima della chiusura non si discostano da quanto fatto sentire finora e scorrono via abbastanza anonimi senza lasciare nulla se non un senso di distruzione totale. L’album si chiude con una traccia strumentale interessante, un breve motivo melodico di scuola “svedese” prima di staccare il plug e accarezzare le orecchie dell’ascoltatore con un arpeggio delicato ed emozionante. I ragazzi ci sanno fare nulla da dire, tecnici grintosi e integerrimi nel loro sound, senza voler strizzare l’occhio a correnti mainstream, ma è dall’ultima traccia che avrebbero dovuto rielaborare il loro sound, introducendo maggiori variazioni nelle canzoni, osare di più e possibilmente accorciare i tempi…peccato si siano sciolti…La loro grande sfortuna potrebbe essere stata quella di essere capitati nel mezzo dell’esplosione del genere in questione (2001-2002) e anche se suonato con grande intensità, l’album ha la pecca di rimanere un po’ troppo anonimo. (Matteo Del Fiacco)

(Lifeforce Records)
Voto: 60

martedì 30 agosto 2011

Funeral - To Mourne is a Virtue

#PER CHI AMA: Death Doom, Shape of Despair, My Dying Bride
Altro nuovo lavoro per i Funeral, altra nuova release straripante di poesia e abnegazione verso il mondo delle macchine e dello sviluppo. Le atmosfere che la band riporta in auge si accostano a quel sentimento di perdita e rinnovamento che così prepotentemente ha segnato l’intero Ottocento letterario. Le liriche non evocano demoni, ma apatie e mostri dell’inconscio. Soffrire è una virtù. E di virtù, al tempo d’oggi, ne sono rimaste molto poche. Peccato questo non sia un concept. L’album si apre con una melodia pulita di note singole, “Hunger”, che ha qualcosa di intrinsecamente medievaleggiante e piacevolmente rilassante. Il momento paradisiaco termina venti secondi più tardi con l’entrata in campo di chitarre distorte (non eccessive), quasi a voler dichiarare che tutto quello che di bello ci può essere non dura. È uno schema che ritroverete spesso nel corso delle 9 tracce. “God?” è un puro mix di accordi doom My Dying Bride e Shape of Despair. A mio avviso l’interessante idea che sottintende al punto di domanda di “God?” non è però all’altezza dei 7 minuti della canzone. Mi sarei aspettato un exploit o un cambio di tempo verso il termine della canzone, ma il ritmo prosegue piatto e ripetitivo. Altro titolo da prendere in considerazione è assolutamente “Blood From the Soil”, dove le tastiere giocano un ruolo fondamentale nel creare un sottofondo che fa pensare alle altissime navate di cattedrali in rovina. Suoni lenti, toni alti, un basso praticamente inesistente, voci chiare e pulite. Ecco, le voci... Manca una caratteristica di fondamentale in questa fatica dei Funeral: una voce capace di avvolgere, nel bene e nel male. Ogni traccia dell’album è scandita da un coro di voci pulite (canti gregoriani?) che pur eccellendo in passionalità non tiene conto della prima regola del doom come genere musicale: la capacità di rapire l’ascoltatore per portarlo da qualche altra parte, in qualche altro tempo. Quindi, giusto per farvelo sapere, mi trovo davanti ad esempi eccelsi di sonorità come “Your Pain is Mine”, e mi incazzo come un bastardo quando so già che non potrò ascoltarla più di un paio di volte, perché le cantilene simil-gregoriane sono troppo per le mie orecchie, e non ci stanno affatto bene in un album di questo tipo. Appartengono più al genere gothic, e ancor più ad una session femminile. Al contrario, un ottimo lavoro in questa direzione è stato fatto con l’ultima traccia, “Wrapped All in Woe”, un viaggio enigmatico vicinissimo ai lidi frequentati dai nostrani Gothica di “The Cliff of Suicide”. Bei tempi quelli. Cosa posso dirvi per evitare di divagare? L’eccessiva presenza dei My Dying Bride, sebbene estremamente ispirata, è qualcosa di noiosamente ridondante nell’opera: e badate bene, i My Dying Bride rappresentano l’incarnazione perfetta del doom malinconico, il mio giudizio è riferito al quasi esclusivo uso dei passaggi che i Funeral utilizzano in “To Mourn is a Virtue”. Questa è un’opera molto ricercata a livello musicale, ma altamente fastidiosa per la nenia dei cori che insistono a decretare la loro noiosa presenza. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 70

Terminal Sick - Diagnosis

#PER CHI AMA: Death/Thrash Metal, Sepultura, Soulfly
Inizio a pagaiare tranquillo sul mio kayak inconsapevole di un’invisibile ma inequivocabile, carontica presenza. Mi lascio traghettare in un petrarchico fiume dalle chiare, fresche e diaboliche acque. Odo rullare i primi bonghi tribali. Vedo scoccare, tra le fronde, le prime frecce intinte nelle avvelenate ghiandole della Dendrobates azureus. Sono fottuto. Sono infatti stato colpito: solo di striscio, certo, ma pur sempre colpito. Avverto già, nelle mie vene, l'onirico effetto della batracotossina. Sono ormai entrato in coma: "Deep Coma". E' con questa dicotomica nomenclatura che è stato per l'appunto battezzato il primo "sintomo" di questa diagnosi. I Terminal Sick sono una cinquina tutta italiana, emiliana per la precisione. I nostri cinque incazzati mietitori fan schizzar sangue qui, a casa nostra, e non hanno inzozzato a casaccio una qualunque scena del crimine come troppo spesso, ormai, si vede fare in televisione. Hanno pennellato ad arte, questo mistico, rosso, fiume di sangue. “Deep Coma”, di cui vi ho appena scattato una mia personale fotografia, è appunto la track di apertura di "Diagnosis". Un'esecuzione incazzata si, ma senza eccessi: regola d’oro questa, nel metal, come l’ora et labora per i Benedettini. Provo sempre un certo gusto nel mescolare il sacro al profano… ma non lasciamoci andare: delle percussioni tribali vi ho già accennato, alla "Roots" dei brasiliani Sepultura mi pare azzeccato dire. Molto buone le soluzioni adottate da Alessio alla batteria; che le sue pelli siano state tratte dal Necronomicon? Velocità si, ma priva di ripetitività e scontatezza. Pause e begli accenti vanno ad impreziosire la parure di chitarra, basso e campionamenti. Il tutto è sapientemente accompagnato da un buon scream, pieno, corposo, urlato ma a tratti anche melodico. "Living Injection", secondo sintomo, costruito sul dialogo tra voce pulita e scream, è meno aggressivo del primo. Belli i passaggi di tom ma il pezzo, a mio parere, non è all'altezza del primo. "Android" e "Blind War!, pur sapendo piacevolmente accarezzare il mio lato oscuro, non riescono più di tanto a domare la mia sete di vittime innocenti. Mi affaccio invece più curioso che mai sul panorama di "Psychical Analysis" bella quasi come il pezzo forte, "Deep Coma", alla quale segue, con un sound completamente diverso, "Useless Hope": netto stacco da quanto ho finora ascoltato. Di sicuro più docile delle precedenti track, rivela preziose sonorità che finora la nostra cinquina ci aveva tenuto nascoste. Con la omonima "Terminal Sick" si ritorna al sound incazzato iniziale. I bei riff di chitarra plasmati all'incalzante batteria e alla voce di Roberto mi accompagnano per più di sei minuti senza stancarmi mai. Sulla stessa lunghezza d'onda, per me forse anche più bella della precedente, mi faccio inebriare da "Unnatural". Il sound cambia ancora con la camaleontica "My Pain": la vedo come un quadro, un quadro che si autodisegna nella mia mente con l'incedere delle note. Vi si alternano spennellate tranquille a spatolate incazzate con intercalati campionamenti, che mi diverto a pensare come ai tagli nelle tele di Lucio Fontana. Ci vedo una sorta di criptico erotismo in tutto questo, ma forse sono solo io ad essere deviato. Nel penultimo sintomo, "Forever Alone", assistiamo ad un ennesimo cambio di sound: acustico, solo chitarra e voce. Breve si, ma bello. Il disco si chiude con l'ultimo sintomo, piacevole remix elettronico di "Deep Coma", una sorta di ...e vissero felici e contenti... tra le bare ed infiniti tormenti. nemA! (Rudi Remelli)

(Copro Records/Casket Music)
Voto:75

domenica 28 agosto 2011

Degradead - Out of Body Experience

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Mercenary, Soilwork, In Flames, At the Gates
Mosh, mosh, mosh… sto ancora scuotendo la testa al ritmo dei soliti riffs svedesoni, con questi Degradead che sbarcano nel super affollato mercato discografico, rilasciando un killer album che li possa proiettare verso il successo. La band scandinava rilascia “Out of Body Experience”, secondo album in studio il cui risultato si conferma buono già dalle prime battute. Tutto è già scritto, d’altro canto: supportati alla grande dalla loro etichetta, il quintetto di Stoccolma farà sicuramente sfracelli con questo cd, che per quanto di poco innovativo abbia da dire, sfodera di per sé un’ottima produzione ai famigerati Abyss/Black Lounge Studio, sotto l’egida di Jonas Kjellgren (Scar Symmetry, Sonic Syndicate, Carnal Forge). Il sound dei nostri nelle (troppe) 14 tracks, segue un filo conduttore ben definito: assimilati al meglio gli insegnamenti swedish death dei maestri At the Gates, il combo scandinavo fonde la propria musica con gli stilemi moderni della nuova ondata di band provenienti dalla Svezia (Scar Symmetry per intenderci) e dal filone intrapreso dagli In Flames negli ultimi lavori (a volte si sfiora un po’ il plagio). Insomma senza girarci troppo intorno, i nostri suonano un validissimo death thrash, reso melodico dalle distintive chitarre di chiara matrice svedese, da qualche passaggio acustico ben riuscito e dalle clean vocals che si intrecciano al cantato growl che richiama fortemente quello di Bjorn Strid Speed (cantante dei Soilwork). Come per il precedente lavoro, “Til Death Do Us Apart”, la band diciamo che si limita a fare bene il proprio compitino, raggiungendo abbondantemente la sufficienza, ma niente di spettacolare: i pezzi si susseguono uno dietro l’altro, alternando parti dalle ritmiche serrate ad altre molto più melodiche e orecchiabili per quei suoi inserti assai catchy. Non c’è niente da fare, la Svezia continua a dettare leggere e ad essere sinonimo di qualità, anche se di nuovo lassù non si inventa più nulla… (Francesco Scarci)

(Dockyard 1 Records)
Voto: 70
 

3,14 - неизбежность

#PER CHI AMA: Doom, primi Anathema
Avete presente quando Indiana Jones trova una misteriosa tavoletta in una sperduta catacomba e anche se non sa la lingua con cui è scritta ne conosce comunque il significato intrinseco? Bene… l’album di cui vi sto per parlare corrisponde proprio a questa tavoletta, misterioso nella forma e nella realizzazione. Si presenta come un doppio cd, nero e verde, sui quali capeggia un enigmatico pi greco (π). È appunto il pi greco, nella sua forma di 3,14, l’unica cosa che può arrivare a comprendere un occidentale leggendo le parole del book interno. Devo ammettere che la scelta di questa band di attenersi completamente alle tradizioni del loro paese d’origine (l'Azerbaijan) è alquanto affascinante. Se vogliamo limitarci alle liriche, le cose non cambiano nemmeno nell’ascolto. Non esiste una sola parola di inglese. Parlando delle melodie invece… Beh, siamo di fronte a qualcosa di ancestrale bellezza. Personalmente considero questa musica come un branca innovativa e molto particolare del più vasto insieme doom. Dagli archetipi di indispensabile paragone affiorano immediatamente stralci vividi degli Anathema degli esordi. Voci pulite esalano gli ultimi respiri in una terra venefica sull’orlo del disastro; musica post apocalittica, senza ombra di dubbio, che celebra in ogni sua nota una fine neanche tanto lontana. In questa nenia disperata spiccano basse frequenze di un growl pestifero e accorto, con pieno diritto di cittadinanza in uno scenario nichilistico. La copertina dell’album riporta un’abitazione abbandonata da tempo, catturata in sgranate variazioni di nero e giallo-verdognolo. L’immaginazione si è lasciata colpire dalla vacuità stereotipata di un occidentale datato e mi ha fatto pensare subito al disastro di Chernobyl. Anche se non è (totalmente) così, i 3,14, con questo loro "неизбежность" adombrano comunque nelle loro ritmiche un andamento da esodo di massa, accarezzando il tema di un umanità al di là del baratro. Materiale e spirituale. Questo è potente doom di nuova generazione. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 90