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sabato 26 febbraio 2011

Arcane Grail - Arya Marga


Avevamo lasciato i due fratelli Grail (Demether e Natalie) nel 2008 con il cd “Cemetary Of the Lost Souls” dove avevano stupito a dir poco. Nel 2009 ritornano con un altro cd, “Arya Marga”, ennesima finestra sul mondo degli Arcane Grail. Il cd è composto da 8 track più una versione in lingua madre (russo) di "Arcane Grail", la canzone che apre il cd. Ma andiamo a guardare più da vicino il mondo incantato dei nostri: la release si apre con la traccia omonima, apripista e guida per scoprire la proposta musica del combo russo e già capiamo la qualità buona della proposta musicale, assolutamente mai banale. Il sound è molto potente, ma allo stesso tempo si accavallano elementi sinfonici (in quasi tutte le canzoni), melodie dal sapore medioevale (“Sorrow Forgotten Pride”), ritmi quasi marziali e sempre potenti (“Imprisoned in the Greatest War”). Vorrei spendere una parola in più, per la voce di Natalie, veramente degna di nota, brava, mai esagerata e nella canzone “Die Sonnenhymne”, dà sfoggio della sua bravura e della potenza e dolcezza della sua voce, davvero complimenti. Il cd si chiude con il brano “Inquitous Yoke” che risalta per la veemenza con la quale l'ascoltatore percepisce sin da subito il brano. "Arya Marga" è un album che in tutte le sue parti risulta ben studiato, soprattutto la parte strumentale, con un riffing sempre ben supportato dalle parti di batteria, con le parti sinfoniche sempre caratterizzanti, talvolta rilassanti, che decretano un ottimo lavoro per questo gruppo che viene dalla fredda Federazione Russa. La tracklist ha diversi punti vincenti da offrire e alla fine l’ascoltatore arriverà su quella finestra dalla quale finalmente potrà scrutare il mondo degli Arcane Grail. Vale la pena immergersi nelle note di questo lavoro, che vi spingerà in un oscuro pellegrinaggio in un mondo magico, sinfonico e violento, partorito dalle brillanti menti di questo sestetto. Nel nostro piccolo possiamo dire “se è questo il freddo che vien dalla Russia, è sicuramente ben accetto”. Gli Arcane Grail hanno trovato la loro strada e la stanno percorrendo alla grande e questo lavoro ne è la conferma. Sono certo che i nostri potranno fare cose sempre migliori nel corso del tempo, perché le potenzialità ci sono, eccome! (PanDaemonAeon)

(Musica Prod.)
Voto:75

Ruthless Order - Awakened Witnesses of Nascence


Ammetto di averci messo un po' prima di capire il nome della band: il logo è talmente fatto bene che subito pensavo fosse un disegno astratto nella magnifica copertina della compagine russa. Stiamo parlando ddei Ruthless Order, autori di un melodic/death metal, contraddistinto da fastidiosi inserti di voce acuta (quasi power talvolta): sembra quasi di sentire Axel Rose in versione metal. Questa è la prima volta che mi capita di ascoltare un album e recensirlo senza prestare troppa attenzione ai singoli brani: tutti sono accomunati dai suoni che emergono da una batteria suonata con tutta la furia possibile, chitarre distorte e tastiere utilizzate al limite umano di sopportazione. Ci pensa poi la voce, che passa dal growling (accettabile) all'acuto (insopportabile), a creare un enorme mal di testa all'ascoltatore. Non so esattamente cosa mi stia spingendo ad ascoltare tutto l'album (forse la vana speranza di trovare qualche brano veramente valido oppure di non stroncare brutalmente l’ennesima band mediocre), ma una cosa buona, in mezzo a tutto questo caos, c'è: l'intensità con cui tutta l’act sovietico suona, probabilmente dovuto alla necessità di farsi notare e magari sfondare nel mercato europeo (quel che è sicuro è che sfonderanno il vetro della finestra quando lancerò il cd). L'unico brano che si distacca dagli altri (almeno all'inizio) è la quarta traccia “Lonely Ness to See”: più melodica e un po' meno urlata, si avvale della chitarra ritmica nei primi due minuti, dove finalmente il cantato è “normale”; questo sentiero viene però abbandonato subito dopo, per tornare a manifestarsi con i soliti lamenti emicranici. Il penultimo brano “Silent Night” è perfettamente l'opposto degli altri brani: più progressive rock, con un assolo pulito di chitarra, il cantato melodico, quasi la pace per le mie orecchie, almeno per i primi ¾ del brano (visto che poi si torna al filone musicale di tutto l'album, con la stessa voce urlata stridula). L'unico brano che salva l'album da ottenere un 2 in pagella, è proprio questo. Tutti gli altri sono la fotocopia del primo, diventando così difficili da ascoltare (e da sopportare). Ancora adesso non so cosa mi abbia stimolato a recensire questa ciofeca (lasciatemelo dire), ma mi auguro che i prossimi lavori di questa band (se ce ne saranno) possano essere decisamente migliori. (Samantha Pigozzo)

(Grailight Productions)
Voto: 40

Maze of Torment - Hidden Cruelty


Un inizio in pieno stile Slayer apre le danze di questo “Hidden Cruelty” degli svedesi Maze of Torment e, davvero imbarazzante, è notare come “Breach the Wall” assomigli terribilmente a “War Ensemble” di “Seasons in the Abyss”. Fortunatamente con le successive songs, la band scandinava sposta leggermente il tiro e inizia a macinare riffs e musica un po’ più personale, mantenendo comunque come punto di riferimento la band di Tom Araya e soci, ma anche Sadus e gli altri gruppi thrash/death americani. Se non sapessi che la band fosse originaria della Svezia, avrei fortemente puntato sull’origine statunitense dei nostri. A distanza di un paio d’anni dall’ultimo “Hammers of Mayhem” torna a far male la band svedese, come sempre ottimamente supportati dalla Black Lodge, che si conferma molto attenta, nell’offrire una produzione all’altezza. Il sound dei nostri si mantiene coerente con i precedenti lavori, offrendo scorrevoli brani, all’insegna del death/thrash più intransigente: cavalcate prese in prestito da “Reign in Blood”, con assoli taglienti come lame di rasoi, ci accompagnano lungo l’intera durata (soli 36 minuti), inducendomi all’headbanging più sfrenato per seguire il ritmo frenetico del disco. A volte si assiste a cambi di tempo repentini, che rallentano il ritmo, per poi scatenarsi in altre straripanti incursioni metalliche. Sebbene di originalità non ce ne sia neppure l’ombra, un ascolto è consigliato, soprattutto a chi nutre una profonda nostalgia per i favolosi anni ’80, quelli del thrash metal made in USA. (Francesco Scarci)

(Black Lodge)
Voto: 65

Naildown - Dreamcrusher


Che diavolo è successo ai Naildown? Li avevo lasciati qualche tempo fa che suonavano come i “Figli di Bodom” e ora me li trovo completamente stravolti, proponendo un sound a metà strada tra lo swedish death (filone Darkane), il groove a la Godhead e i suoni alternativi dei Pyogenesis. Bel progresso direi, in cosi poco tempo poi: forse avranno dato retta ai miei suggerimenti passati e, discostandosi definitivamente dal sound dei Children of Bodom, hanno finalmente intrapreso una strada intelligente e, vi assicuro, non semplice da percorrere. La band finlandese mantiene l’energica verve degli esordi, con quel suo rifferama bello potente, carico di groove, assai melodico e accattivante, amplificando però le influenze provenienti da ambiti esterni al death. La voce di Daniel è ora completamente pulita, eclettica, urla, esprime delle emozioni, mentre la musica del quintetto finnico, spulciando un po’ qua e un po’ là, dalle discografie di In Flames, Gardenian, Darkane e dalle ultime divagazioni death’n roll, concepisce un disco travolgente, dinamico e assai piacevole da ascoltare. Sì ragazzi, non lo nego, questa volta la band ha colto nel segno. Non mancano neppure gli inserimenti elettronici, come nella strumentale “Deep Under the Stones” o “P.I.B.”, brano potente, con un assolo fenomenale, stop’n go simil Pantera, voci effettate, decisamente il mio pezzo preferito. Ottima la performance dei cinque musicisti come pure la produzione, che esalta alla grande, il sound robusto dei nostri. Non so bene cosa sia successo in seno alla band, ma sono felice della piega che il combo scandinavo ha preso. Forse avranno un po' perso in cattiveria, inutile negarlo, però ne hanno guadagnato decisamente in originalità. Finalmente qualcuno si è deciso a cambiar strada; è forse l’inizio di una nuova era? Non so dirvi, per ora ascoltatevi assolutamente “Dreamcrusher”! (Francesco Scarci)

(Spinefarm)
Voto: 80

mercoledì 23 febbraio 2011

Middian - Age Eternal


I Middian sono nati dalle ceneri degli Yob, per volere del membro fondatore Mike Scheidt, con l’intenzione di fondare una nuova band, molto simile agli Yob, ma più selvaggia e stabilizzata su tempi medi. Ne è uscito questo nuovo progetto e devo dire che è stata una bella sorpresa anche per il sottoscritto. Di musica incazzata qui ce n’è parecchia, così come pure di suoni schizoidi e psichedelici che fanno di “Age Eternal” un buon punto di partenza. Si inizia (e si finisce) con riffoni ultra doom (in alcuni casi sembra di sentire i primissimi Black Sabbath). Il disco si dimostra poi, assai solido e corposo, spaziando da momenti assai oscuri (vi basti ascoltare i 9 minuti dell’iniziale “Dreamless Eye” per capire cosa intendo) ad altri più stoner orientati, attraverso lunghe dilatazioni spazio-temporali, che possono riportare alla mente “Somewhere along the Highway” dei Cult of Luna. La seconda “The Blood of Icons” (5 i brani contenuti, per quasi 50 minuti di musica claustrofobica) parte in modo inquietante, sbiellandomi il cervello con le sue delicate e schizofreniche tastiere; poi una pachidermica chitarra, dà l’inizio ad un incedere lento, soffocante, al tempo stesso pulsante, di energia vibrante. La voce di Mike spazia da momenti clean ad altri grunt e ancora, in taluni frangenti più effettati, sembra essersi calato un acido. “Age Eternal” è un viaggio lisergico, che vi catapulterà in una dimensione parallela, orrorifica, terrificante; il battito costante sul finire della seconda traccia vi getterà nella paranoia più totale. Un senso d’alienazione dalla realtà pervaderà i vostri sensi, si prenderà la vostra anima e vi porterà alla disperazione. La title track (dove fa capolino anche una voce femminile) e l’ultimo ipnotico brano (15 minuti di angoscianti atmosfere), continuano su questa scia, partendo sempre in modo delicato per poi sfogare tutta la propria rabbia e frustrazione. La quarta “The Celebrant” è forse quella più death oriented e quindi quella che ha probabilmente meno da dire. Se siete amanti di questo genere di sonorità, non fatevi scappare questa nuova perla incastonata nel firmamento sludge-doom-depressive. (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 75

Requiem - Premier Killing League


Già bastonati qualche tempo fa dal sottoscritto, tornano alla carica gli svizzeri Requiem, con un nuovo assalto death grind sulla scia del brutal death americano. La differenza tra il precedente "Government Denies Knowledge" e questo nuovo “Premier Killing League” non è poi molta: prodotti egregiamente dal mitico Andy Classen (Legion, Tankard, Dew-Scented) agli Stage One Studios, i Requiem ci sparano in faccia le solite strabordanti songs di death martellante, fatto di ultra veloci blast beat, ritmiche furenti, growling profondi e screaming selvaggi, rallentamenti ben congeniati, per darci modo di rifiatare e poi percuoterci ulteriormente con la loro musica selvaggia. Già per il precedente album, avevo scritto che qui di originale non vi era assolutamente nulla; non posso far altro che confermare quanto scrissi allora. Solo per i fan più intransigenti, gli altri si tengano alla larga. (Francesco Scarci)

(Massacre Records)
Voto: 50

In Slumber - Scars Incomplete


Mentre qualche band ha già messo la freccia per svoltare (Naildown, Omnium Gatherum) e imboccare nuove strade, c’è ancora chi, non ha ancora abbondantemente goduto del successo di un genere, lo swedish death, che negli ultimi tempi, ha perso parecchie idee per strada. È il caso degli austriaci In Slumber che, in evidente ritardo sulla tabella di marcia, offrono questo discreto (se fosse stato scritto una decina di anni fa) “Scars Incomplete”. Non è un brutto album dopo tutto, ma le idee che frullano nella testa di questo quintetto sono già state ampliamente utilizzate e consumate nel tempo, da migliaia di bands. Intriganti riffs di chitarra accompagnate da una ritmica martellante, costruiscono la base portante di questo lavoro, con la voce di Wolfgang che fa il verso a quella del rastamanno Anders Friden degli In Flames. Mi spiace dover rimandare gli In Slumber, visto che sono da sempre un grande fan del genere e ancora oggi amo ascoltare questo tipo di sonorità, ma talvolta si sfiora veramente il plagio, addirittura nelle lyrics. Tuttavia, se amate lo swedish death nella sua forma più melodica, rimembrante In Flames, Dark Tranquillity e la vecchia guardia di Ceremonial Oath ed Eucharist, beh, mi sento di darvi una chance e invitarvi all’ascolto di “Scars Incomplete”, molto probabilmente potrebbero piacervi... (Francesco Scarci)

(Massacre Records)
Voto: 60

Pro Pain - Age of Tiranny - The Tenth Crusade


Pochi gruppi possono vantare una carriera quasi ventennale: tra questi ci sono i newyorkesi Pro-Pain, che con “Age of Tiranny”, offrono il decimo capitolo della loro lunga discografia. Questa release raccoglie brani di protesta nei confronti dell’ex presidente degli Stati Uniti, George Bush e della sua politica guerrafondaia e sulla sua presunta Crociata verso Bin Laden e compagni. La musica del quartetto statunitense segue poi gli stessi stilemi del passato: chitarre thrasheggianti, sporcate da sonorità hardcore, la solita attitudine aggressiva ed intransigente tipica dei gruppi della “Grande Mela” e i giochi sono fatti. 11 brani, tosti, incazzati, melodici e veloci, ci restituiscono una band matura e ancora vogliosa di mettersi in gioco, nonostante le ultime prove non fossero state del tutto brillanti. Il quartetto, guidato dalle vocals del membro fondatore Gary Meskil, sembra tornata ai fasti di un tempo: ritmiche serrate, incalzanti, ottimi brani (su tutti “Beyond the Pale” con Matt Bizilia degli Icarus Witch in veste di guest star), cori melodici, influenze che spaziano dal thrash al rock’n roll, piacevolissimi assoli e tanta, tanta voglia di spaccare. Ragazzi, non saremo tornati ai livelli degli esordi, ma qui c’è parecchia carne al fuoco e tanta voglia di divertirsi. Quindi fate come me, accendete il motore della vostra auto, andatevi a fare un giro e mettete a palla “Age of Tiranny”... (Francesco Scarci)

(Rawhead Inc.)
Voto: 75

Riul Doamnei - Apocryphal


Che la scena black italiana fosse in fermento lo sapevamo già da tempo, ma che esistesse un gruppo che potesse raccogliere la pesante eredità lasciata dai Cradle of Filth degli esordi, lo sapevano soltanto in pochi. Da Verona arrivano i Riul Doamnei (in rumeno significa il fiume della principessa), band formata da cinque giovani ragazzi, in giro ormai dal 1999, ma che arrivano al debutto sulla lunga distanza grazie all’etichetta francese Deadsun Records. Il sound è palesemente influenzato dalle due grandi band regine di questo genere: Cradle of Filth, di cui sono assai evidenti i richiami allo screaming di Dani Filth, da parte di Federico e ai Dimmu Borgir, per ciò che concerne le ritmiche, le orchestrazioni e gli arrangiamenti. Premesso questo, la band veneta gioca, nelle 11 tracce qui contenute (per un totale di 52 minuti), a miscelare i punti forti dell’una e dell’altra band, proponendo un sound, ancora scevro di una propria personalità ben definita, ma che comunque riesce a conquistare l’attenzione dell’ascoltatore, grazie a quei suoi continui richiami a “The Principle of Evil Made Flesh”, così come pure a “Death Cult Armageddon” dei Dimmu. Forti di una produzione cristallina e ben bilanciata, il quintetto veronese sciorina uno dietro l’altro, brani appetibili e assai godibili, in cui ben si alternano sfuriate black a passaggi atmosferici (ottima la performance del tastierista), cambi di tempo repentini a frangenti acustici; nella conclusiva ed epica “The Last Supper”, fa capolino anche una voce femminile. “Apocryphal” è un concept cd, sui vangeli apocrifi, quindi estremamente interessante risulta essere anche la lettura dei testi (elegante il booklet interno e l’artwork). Sebbene si tratti di un debutto, la band mostra già una più che discreta maturità, sia dal punto di vista tecnico-esecutivo (mostruoso il batterista) che dal punto di vista delle idee espresse. Certo c’è ancora da lavorare molto, ma se il buongiorno si vede dal mattino, sentiremo in futuro parlare ancora molto di loro... (Francesco Scarci)

(Deadsun Records) 
Voto: 75

giovedì 17 febbraio 2011

Catacombe - Kinetic


Il post rock/metal attualmente è la mia mania, sarà che il buon vecchio Franz mi ha contagiato, ma effettivamente è il genere del momento. Oramai una marea di gruppi nuovi (o vecchi) ripropongo queste sonorità stracariche di delay, riverberi al pari di malinconia e rabbia. Come fossero uno effetto dell' altro. E come sempre, molti copiano e solo pochi riescono a destare l' attenzione del pubblico per originalità o piglio artistico. Ho come l’impressione che i Catacombe siano inclusi nel primo gruppo poiché iniziano proponendo tutto il repertorio già sentito con Isis, Sigur Ros, Cult of Luna, Callisto e tanti ancora, ma oltre a non offrire una grande personalità, riprendono spesso la parte ripetitiva e piatta dei grandi. Il quintetto portoghese esordisce con questo EP di sette brani all-instrumental dalla buona qualità audio, meno nel packaging che probabilmente non è nella sua massima versione retail (in effetti quello tra le mie mani è il promo). Il cd gira nel lettore e introduce l'ascoltatore con qualche minuto di ambient, giusto per prepararci al dopo. Infatti "Supernova" entra di prepotenza sfruttando la mancanza di pausa tra la prima e la seconda traccia con delle chitarre massicce, basse come nello stoner ma cariche di riverbero e delay. Con questo i Catacombe adempiono subito al compitino dei bravi post rockettari. Forse un pezzo un po’ lento, ma se critichiamo questo punto, varrà poi per tutto l'EP. "Memoirs" è una traccia camaleontica che spazia dal post rock al funky/jazz riuscendo ad essere godibile e mai banale. Soprattutto perché le variazioni di ritmo e tema sono svariate all'interno dei quasi otto minuti di traccia. Scivoliamo sinuosi fino all’ultima song, "Sequoia" che inizia soffice con un loop di batteria molto trip pop che fonde bene le sonorità in stile Massive Attack, con dei fraseggi tra chitarre che riescono ad emozionarci più di mille vocalist. Poi il pezzo si sviluppa in diverse direzioni, portando l' ascoltatore a vivere vari stati d' animo in una manciata di minuti. Ben fatto, veramente. “Kinetic” si conclude così nei migliori dei modi. Non so se i Catacombe hanno immaginato un concept album ma mi piace pensare che lo sia. Questo è anche il bello dei pezzi strumentali. Un solo consiglio ai nostri portoghesi: continuate così perché siete sulla buona strada, ma cercate di differenziarvi con vostro mood dal movimento post-qualcosa. (Michele Montanari)

(Slow Burn Records)
Voto: 65

Ilid - The Shadow Over Arkham


Produzione italiana in arrivo? Rock dalla voce femminile suadente ? Il buon Franz ha pensato bene di passarmi questo EP e quindi non lo deludo. Gli ILID sono una band toscana (Firenze, Pisa e Viareggio se non vado errato) composta fondamentalmente dalla vocalist Natascia e dal chitarrista Ronny, gli altri elementi sono menzionati sul retro dell' EP ma dal sito web deduco che il resto della line up passa in secondo piano; probabilmente sono elementi intercambiabili a seconda delle occasioni. I nostri si distinguono per un Gothic Rock alla Evanescence, se vogliamo collocarli in un panorama delle grandi Major e la qualità della produzione è al di sopra della media, probabilmente un' ala protettiva accompagna la band nel loro percorso. Natascia risulta avere una voce personale che richiama molto Shirley Manson (Garbage), anche se siamo distanti miglia e miglia dal carisma della piccola scozzese. Il cd apre con "Sacred", breve loop di batteria elettronico e suoni delicatamente distorti, il giusto per fondersi con la dolce voce che interpreta bene il pezzo. La struttura della canzone risulta ben bilanciata, anche negli arrangiamenti, ma ne risulta un pezzo molto commerciale già pronto per gli scaffali dei grandi store. My favourite song. Il secondo brano "Envenomation" risulta di discreta fattura, ottima intro di piano e chitarre un pò nasali per i miei gusti ma tutto sommato pezzo godibile anche se non decolla mai e rimane sul malinconico per quattro minuti abbondanti. "The Grief" dimostra invece una ricerca ancora maggiore negli arrangiamenti e nei suoni, infatti le chitarre risultano più aggressive, con un riff che guida la canzone per tutta la durata. Finalmente oserei dire. My favourite song (part II). Anche "Encore" è un buon pezzo, più veloce deli precedenti e ancora una volta Natascia ci permette di gustare al meglio le sue doti. Per i resto lo sviluppo è molto standard, nel susseguirsi di intro, strofa e ritornello. Tendenzialmente direi che tutto il cd è bilanciato al punto giusto; come dicevo in apertura l' impressione è di un prodotto ben confezionato pronto per gli scaffali. Auguro quindi agli ILID un buon successo, anche se curerei meglio la parte artistica cercando di staccarmi dal Gothic commerciale che ormai troneggia. Ma forse è tutto calcolato... (Michele Montanari)

PS: Il retro dell' EP riporta cinque brani ma fisicamente se ne trovano quattro (nessuna traccia fantasma, ho controllato bene). Errore o altro?

(Self)
Voto: 65

lunedì 14 febbraio 2011

Ygodeh - Dawn of the Technological Singularity


Sono ancora senza fiato, dopo aver affrontato questa cavalcata che mi ha lasciato senza respiro; è stato un po’ come aver percorso la maratona di 42 km in poco meno di mezz’ora. Questo è l’effetto che mi ha lasciato l'ascolto dei 26 minuti scarsi di “Dawn of the Technological Singularity” dei lettoni Ygodeh, vera sorpresa giunta alle mie orecchie sul finire del 2010 e solo ora recensito su queste pagine. Il cd si apre con una sorprendente intro che ha immediatamente catalizzato la mia attenzione con i suoi suoni irruenti e sintetici, ricordandomi la follia dei finlandesi The Wicked (andateveli a cercare senza fare domande!). “Thus is the Will of the Swarm” è il primo vero pezzo del cd, un attacco frontale di sinistra cattiveria, con una base ritmica esplosiva e travolgente, che trasuda talmente tanta adrenalina da farmi saltare all’impazzata. Chitarre cigolanti sorrette da un mostruoso lavoro alla batteria, che mette in mostra l’enorme perizia tecnica di questi quattro pazzi deathsters provenienti dalla repubblica Baltica; e a metà brano un intermezzo cyber death da incubo (nel senso positivo del termine) e avanti per essere ricatapultati nella bolgia infernale del proprio sound, prima del sofferente finale. Non ci crederete, ma dopo 5 minuti di musica mi ritrovo già stremato, come se un carro armato fosse passato sul mio corpo stritolandomi sotto i suoi cingoli mortali. “Lord of Rays”, dedicata allo scienziato Nicola Tesla, è un altro capolavoro di techno death, dalla forte vena melodica, contaminato da influenze cibernetico-industriali nonché da atmosfere orchestrali, che trova il suo grande pregio nel non avere alcun punto di riferimento ben preciso nel panorama metal e nel non darci alcun punto di riferimento, sconvolgendoci con dei suoni di una incantevole brutalità: mi piacerebbe dirvi che gli Ygodeh suonano come se i Death avessero deciso di ispirarsi al sound dei Dimmu Borgir, piazzandovi al suo interno delle reminiscenze stile The Kovenant, ma la mia descrizione vi sembrerebbe alquanto delirante e lo capisco, però questo è ciò che sentono le mie orecchie anche con la quarta “The Red Plague”, che inizia in modo alquanto particolare con un coro quasi operistico e un sound assai criptico e oscuro, con il growling di Feka mai sopra le righe e anzi parte integrante nella matrice musicale dei nostri, che ancora una volta danno grande prova della propria instabilità mentale; quanto adoro questo genere di gruppi che amano stravolgere i sacri crismi, fottersene di tutti i dettami classici e distruggere ogni regola del gioco. Signore e signori benvenuti nel psicotico mondo degli Ygodeh! Che dire poi di “Before the Skies are Painted Black”, altra gemma incastonata in questo lavoro di tecnologica singolarità, giusto per parafrasare un po’ il titolo del cd. In questa song emerge un’altra forma di sperimentazione della band dell’ex repubblica sovietica, che va a miscelare il death con forme post hardcore, infarcite di elettronica (mi viene da citare gli americani Honour Crest). Ancora elettronica ad aprire “Matrix Cracked”, song il cui ritmo è dettato dai sintetizzatori e dal drumming impetuoso di VadoLL: sono tramortito, è inutile nasconderlo, dalla totale irrazionalità e imprevedibilità della proposta di questi sconosciuti (e spero ancora per poco) Ygodeh. Basta, fidatevi delle mie parole, qui c’è musica di alta classe, che merita anzi, ha il diritto di non passare inosservata; case discografiche non abbiate il timore di investire su questi quattro giovani scalmanati perché vi garantisco che ci sarà da divertirsi davvero ascoltando le acrobazie sonore che il combo di Daugavpils ha da offrire. Era da tanto che non sentivo musica di tale caratura, quindi non siate sciocchi e andatevi a cercare, senza il benché minimo dubbio, questo cd! Sono passati i 26 minuti e io mi ritrovo stremato steso sul pavimento. Immensi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90

domenica 13 febbraio 2011

Joyless Jokers - Arms of Darkness


Guardo e riguardo più volte il packaging del nuovo cd arrivato qui nel Pozzo dei Dannati per capire se quello che ho fra le mani è il nuovo cd dei Dimmu Borgir o realmente quello di una giovane band vicentina che ha voluto fare le cose in grande, regalandoci una confezione cartonata degna dei gods norvegesi, con tanto di adesivi e spilla interna. Effettivamente si tratta dei nostrani Joyless Jokers, formazione veneta in giro dal 2005, che ci consegna questo EP di 5 pezzi di death mid-tempo, di matrice scandinava. Il cd apre i battenti con “Black Light”, song tellurica nel suo incedere, complice una batteria fulminea che esplode i suoi dirompenti colpi su linee di chitarra di scuola svedese, senza però ispirarsi ad una band ben precisa: forse echi dei primi In Flames si possono ritrovare in questi minuti iniziali del cd, miscelati alla rabbia degli Arch Enemy e alla tecnica dei Carcass, ma sia ben chiaro, i nostri non si lanciano mai in sfuriate alla velocità della luce, mantenendo costantemente il proprio sound ben controllato e controbilanciato da qualche sporadico inserto di tastiera. Con la successiva “Chapter to Forgive”, il five-pieces italiano pigia leggermente sull’acceleratore, con le tastiere che timidamente cercano di farsi breccia nel cuore dei brani, con lo scopo di donare maggiore personalità alle trame chitarristiche delle due asce Rudy Girardello e Michele Brunetti, che si divertono e ci divertono, rincorrendosi con dei solos non troppo complicati, ma assai efficaci nell’economia del brano. Il growling di Thomas è granitico, forse talvolta troppo statico, tuttavia risulta estremamente efficace nel suo intento, evitando che la band finisca per fare l’occhiolino a realtà death metal svedesi, dove di death ne è rimasto ben poco. Con la title track, la band dei 3 fratelli Girardello si lancia in un classica cavalcata metal, che trova una brevissima pausa dopo un minuto dal suo inizio, ma poi riprende a spaccare che è un piacere, anche se a metà brano un intermezzo tastieristico (attenzione ai volumi troppo elevati!), in pieno stile Children of Bodom, mi fa temere il peggio. Niente paura però, i nostri si riprendono e tornano a deliziare le mie orecchie con un solo portentoso e un finale in cui le chitarre si lanciano in un loop ipnotico, con Thomas a urlare dell’amarezza della vita. È il turno dell’attacco frontale di “Back to Ashes”: batteria rutilante, tastiere atmosferiche, riff glaciali provenienti dall’estremo nord, voci corrosive e di nuovo i 2 axe-men che si rincorrono, incrociano e tessono accattivanti linee di chitarra. “Shame” chiude con eleganza mista a dura irruenza miscelata alla potente melodia, un EP, che sancisce l’esordio di una nuova band nell’infinito mondo della musica estrema. Le premesse per fare bene ci sono tutte, la cosa importante è provare a intraprendere con personalità un proprio percorso musicale, cercando il più possibile di non avere come propria fonte di ispirazione gli ormai svuotati Figli di Bodom, ma cercando di sfruttare al meglio i propri punti di forza, la tecnica dei singoli, il buon songwriting, l’ottimo gusto per le melodie e la voglia di sperimentare, che non guasta mai. Il consiglio più grande che mi sento obbligato a dare, per evitare che un altro combo dalle belle speranze si perda per strada, è quello di non voler rimanere bloccato nello stagnante mondo del death melodico, ma sforzarsi di intraprendere nuove personali strade che li possano guidare verso il successo. Coraggio! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

Voices of Decay - Overcome


C’è sempre più fermento nella scena italiana, ed ecco arrivare da Bolzano una interessantissima realtà, i Voices of Decay, creati dall’ex Graveworm Lukas Flarer e in giro addirittura dal 1997 (ma io dormivo che non li conoscevo?) e con già un full lenght alle spalle. Cercando in internet, la domanda che è sorta spontanea è stata “Possibile che non ci sono notizie in italiano su questa band? Solo news o interviste in tedesco, segno che ancora una volta in Italia, non diamo giusta rilevanza a chi merita davvero e il più delle volte, gli artisti cercano fortuna all’estero”. Dopo questa polemica travestita da riflessione, mi appresto ad ascoltare questo roboante album di death melodico: 11 pesanti tracce per più di 50 minuti di musica che sinceramente vi sapranno conquistare fin dal primo ascolto. Si parte con l’aggressività controllata di “Dear Mortal Man” che evidenzia già da subito la compattezza dei suoni del quartetto altoatesino, che decisamente denota di essere molto navigato a livello di esperienza. La qualità della band emerge a mio avviso con le successive “Superficial” e “Rising Tide”, 2 song diverse da un punto di vista di velocità d’esecuzione, la prima più sostenuta e più feroce mentre la seconda più tranquilla e ammiccante verso sonorità modern metal, ma comunque entrambe caratterizzate da un sound estremamente cadenzato, con i nostri che palesano scelte azzeccate a livello compositivo, buon gusto per le melodie, mai troppo ruffiane, dandovi infine per scontata l’eccellente caratura tecnica del combo bolzanino. La voce di Menz si dipana tra gorgoglii death metal molto piacevoli e clean vocals che strizzano un po’ l’occhiolino allo swedish death di Soilwork e Scar Symmetry. La ritmica pesta che è un piacere, basti ascoltare “Who” per capirsi, con la prova devastante e precisa di Christoph dietro le pelli, e soprattutto per quei suoni un po’ disturbanti e disorientanti che caratterizzano un po’ tutto il cd, altro punto di forza di questo “Overcome”, che unisce la potenza del death metal teutonico alla melodia tipica del metal scandinavo, il tutto condito con discreti quantitativi di groove tipico americano in grado di regalare quell’ultimo ingrediente necessario a rendere questa release davvero interessante. Altri brani da segnalarvi sono “Energy”, che incentrata sempre su un sound mid-tempo (trade mark dell’intero cd), presenta in secondo piano, suoni futuristici (chi ha parlato di Fear Factory?) di chitarra misti a tastiera davvero intriganti, cosi come pure la successiva “The Picture”, in grado di stordirci con minimalisti interventi delle tastiere, sempre comunque relegate in secondo piano, ma dall’effetto veramente pungente e trascinante. Sono convinto infatti che se mancassero questi leggeri artefatti tecnologici, l’album scivolerebbe via nell’anonimato generale, invece grazie all’utilizzo intelligente delle keys inserite in un contesto di violenza controllata, l’album godrà di una più che buona longevità. Bella scoperta ho fatto in questo periodo, ce ne fossero di band come queste in giro, la mia professione di recensore sarebbe molto più facile e piacevole! (Francesco Scarci)

(TB Records)
Voto: 75

Doppelgänger - Goat the Head


Carico il CD e me lo sparo tutto d’un colpo e il primo pensiero è: “mmm, mi sa che mi sono perso qualcosa...”. Allora decido di ripararmi il cd ma la sensazione è la medesima: “mmm, mi sa che ho ri-perso qualcosa...”. Terzo tentativo. Mi arrendo. I norvegesi Doppelgänger prendono tutto quello che riguarda melodia, eleganza, pulizia del suono, ricerca nella composizione e lo ignorano bellamente. Va bene divertirsi suonando, va bene non legarsi troppo a stili, ma qui si esagera. Eccovi un disco death metal tiratissimo, armato di un rudezza disarmante e aggravato da una cacofonia violenta di suoni e voci. Nel packaging si definiscono “cavernicoli primitivi contemporanei”: come dargli torto. Infatti, io me li vedo vestiti di pelli d’orso che eseguono i pezzi usando ossa e pellami di animali estinti mentre il cantante emette urla belluine. Eccovi un lavoro in cui tutte le tracce si confondono, tanta è la loro similitudine. La voce growl è adoperata oltre il mio limite di sopportazione; tutta la parte strumentale è completamente asservita ad una potenza selvaggia priva di schemi. Nessuna cosa è definibile come assolo o virtuosismo. Potrebbe essere anche divertente, sinceramente io userei questo “Goat the Head” come colonna sonora di una gara di headbanging. Vero poi che la sensazione di già sentito compare molto, troppo rapidamente. Due cose salvano il cd dal mio dimenticatoio istantaneo: la brevità e la terza traccia. Grazie a Dio, i nostri hanno creato song brevi; tutto il platter fortunatamente finisce in 33 minuti: se ne durasse anche solo 5 in più, credo che nessuno lo ascolterebbe più di una volta nella vita. L’unica canzone che spunta dall’anonimato è appunto la terza traccia, “This Tube is the Gospel”: qui una voce femminile pulita, veramente molto bella (assieme a cori lontani), insieme al growling di Per Spjøtvold, creano un contrasto spiazzante che ho trovato davvero piacevole. Un appunto volante anche sull’immagine in copertina: credo sia un omaggio “blasfemo” alla cover di “The Miracle” dei Queen, dove i volti dei componenti si fondevano in unico viso (Come dite? Quella era meglio? Sì, concordo). Un album quindi sconclusionato, grezzo, casinista e ripetitivo, ma attenzione, non tutto è da buttare. Solo per veri amanti del death metal tout-court, senza troppe pretese. E ovviamente, indicatissimo per le gare di headbanging! (Alberto Merlotti)

(Aftermath music)
Voto: 50

Shelter of Leech - No One Else Around


Infilo il cd nel lettore e subito, come un fiume in piena vengo piacevolmente investito da un flusso di sensazioni/emozioni positive. Si tratta dei giovani veronesi Shelter of Leech che allietano questa mia domenica di febbraio, con la terza release targata Kreative Klan Records. “No One Else Around” si apre con la sorprendente “Every”, che mette immediatamente in chiaro qual è la direzione intrapresa dal quartetto veneto: un sound che vive di una commistione tra crossover, nu metal, thrash e heavy classico, reso estremamente interessante dalla voce di Davide Macchiella, abile nel passare da clean vocals a momenti evocativi fino ad altri in cui, una timbrica più marcatamente sporca, trova il sopravvento. La musica della band risulterà sicuramente derivativa alle vostre orecchie, ma in fondo in fondo “un chi se ne frega” ci sta tutto. Se nella opening track, sono cenni di Tool o System of a Down ad emergere, nella successiva “K.O.”, i nostri rendono omaggio ai Pantera (qui Davide fa un po’ il verso a Phil Anselmo), con un sound pesante e con una song diretta “in your face”, ricca di spunti melodici ma anche di tanta aggressività. Con “Fix Me”, riemerge ancora il fantasma dei Tool, per il suo spettrale incedere e l’abile lavoro alle percussioni di Bruce Turri. Tuttavia ancora una volta il punto di forza dell’act italico, rimane la performance alla voce del buon Dade, sostenuto comunque brillantemente dagli altri musicisti. Il suono volutamente sporco dà l’idea poi di trovarsi nei pericolosi sobborghi di qualche metropoli americana. L’intermezzo rumoristico della title track interrompe la vincente proposta dei primi tre brani, e ci traghetta in una parte un più intimistica con “Recollect”, un po’ meno brillante delle altre song, anche se ci offre un discreto assolo nella sua parte centrale. Con “Golden Age”, il four pieces veronese ci riporta indietro di qualche anno con una song che esordisce con una vena molto rockeggiante e assai tranquilla, per concludersi in un arrembante e incandescente finale, dove il puzzo di sudore si mischia allo stridore della chitarra. “State of Grace” viaggia tra melodie “tooliane” e aperture a la Bokor, mentre “Get the Hell Outside” è probabilmente la mia traccia preferita: inizio affidato a basso/batteria seguite da una chitarra bella possente e corposa, con delle linee vocali veramente ispirate e chorus da brividi, con un finale affidato ad un parte acustica. Il cd dei Shelter of Leech, prosegue su questa linea mostrandoci una band capace di catturarci con una proposta immediata, pregna di melodia e ricca di aggressività. L’esercizio da fare ora, sarà prendere decisamente più le distanze da tutte quelle band citate in questa recensione e donare maggiore personalità alla propria proposta, ma sono convinto che i nostri non ci deluderanno. Talentuosi ed estremamente interessanti in prospettiva futura! (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records)
Voto: 70

giovedì 10 febbraio 2011

Cryptic Wintermoon - Fear


Voglio essere estremamente sincero con voi: comprerei questo disco solo per l’intro country-western “21 Guns” che si chiude nella ipnotica successiva “Pride of Australia” con lo stesso chorus spaghetti-western. Finalmente i tedeschi Cryptic Wintermoon sfoderano una buona prova dopo qualche passo falso commesso nel passato. “Fear” è un buon album da cui ripartire alla ricerca di se stessi e di una propria ben definita identità e il fatto di staccarsi completamente dalla Massacre Records e autoprodursi, dimostra secondo me, una profonda presa di coscienza da parte dei nostri; per carità la strada è ancora lunga, però si possono già intravedere importanti passi in avanti. Continuando il percorso intrapreso in passato anche con “Fear”, il combo teutonico affronta tematiche legate alla Prima Guerra Mondiale, che a quanto pare è una vera e propria ossessione. La musica poi, continua a muoversi su coordinate stilistiche melo-death di stampo scandinavo (Dark Tranquillity per la precisione, ascoltare “Down Below” per capire) ma rispetto al passato sono molto meno scontate o palesemente copiate. 11 tracce (più intro e outro) che ci consegnano una band nel culmine della propria forma, capace di toccare il proprio apice compositivo nella già citata iniziale “Pride of Australia”, lenta e oscura ma assai orecchiabile, con le feroci “Tales from the Trenches” e “Hellstorm Infantry”, le meditabonde “One of Your Sons is Coming Home” e “God With Us” e il sinfo-black di “The End” che sembra uscita più che altro da “Stormblast” dei Dimmu Borgir. Sicuramente avrei privilegiato una produzione più potente e meno secca/glaciale che un penalizza inevitabilmente il sound dei nostri, cosi come magari lavorerei maggiormente sulle vocals, ancora un po’ sottotono rispetto alla qualità degli altri musicisti. Certo, non si poteva pretendere di arrivare ad un capolavoro immediatamente però, facendo qualche miglioria qua e là (anche al suono delle chitarre troppo ronzante per i miei gusti), direi che ci potremo presto attendere un’ottima prova dall’ensemble germanico. Sono estremamente ottimista per il proseguo dei Cryptic Wintermoon, perché è proprio vero il detto “sbagliando si impara” e credo che i nostri abbiamo fatto tesoro degli errori commessi in passato, tanto da attendere quasi un lustro per poter pubblicare il seguito del non tanto fortunato “Of Shadows... and the Dark Things You Fear”. Gradito ritorno sulle scene di una delle band storiche del panorama metal tedesco! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

Synthetic Waterfall - Rising of the Aeon


Devo ammettere di sapere ben poco di questo combo transalpino e di essere stato in grado di trovare ben poche informazioni a riguardo del quintetto di Ile de France, tuttavia, quando ho infilato il Mcd nel lettore del mio stereo, ho pensato immediatamente di essermi sbagliato nell’origine della formazione (e in effetti Timo e Jaakko Virmavirta di certo non possono dirsi francesi). Eh si perché il sound di questi ragazzi richiama le nordiche melodie dei Kalmah, spruzzate qua e là con epiche galoppate in stile Children of Bodom e con inaspettate aperture progressive. Wow! Già dall’iniziale title track mi rendo conto delle enormi potenzialità di questa sconosciuta e misteriosa band e già mi sfrego le mani in attesa di conoscere quali saranno le evoluzioni sonore successive a questo “Rising of the Aeon”, Ep che risale alla primavera 2009 ma che solo oggi finisce tra le mie mani. La seconda “Angels Will Cry”, già prende le distanze dalla prima song e concentra le sue energie su un extreme metal (sarebbe scorretto parlare di death) dalle forti venature progressive/avantgarde: lo si capisce dall’utilizzo di ipnotiche clean vocals, da fantasiosi giri di chitarra e da un bel suono di basso messo lì, in primo piano, accompagnato da discreti inserti di tastiera. Peccato un po’ per la registrazione non proprio all’altezza, però via via che il mio lettore cd prosegue nella sua lettura, mi rendo conto che questi ragazzi abbiano delle idee alquanto stravaganti: l’inizio di “Regrets of Time”, ne è la prova, con soffuse melodie, quasi mistiche, che lasciano presto il posto all’incursione di ritmiche arrembanti, poi ancora atmosfere soffuse, un po’ in stile Anathema, ma decisamente più elettriche, però accattivanti, sorprendenti e disorientanti. Mi aspetto infatti che determinati suoni escano dal mio stereo, ma puntualmente le mie aspettative vengono prontamente confutate dalla linea di condotta di questi 5 strani ragazzi francesi. L’ultima “The Stigmatas for my Play” riprende nel suo incedere iniziale, le tematiche finlandesi dell’epilogo del Mcd, ma nemmeno dopo 40 secondi, tutto è già stato stravolto e nuove sonorità escono dalle casse un po’ titubanti del mio stereo, che non ha ben più chiaro se quello che stiamo ascoltando è death, prog, epic, gothic o semplicemente una interessante e sperimentale forma di rock. Complimenti per la proposta, che mi ha confuso un po’ le idee ma mi ha piacevolmente sorpreso per il risultato. Ora li aspetto impazienti al varco di un lavoro ufficiale. Bravi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Zora - Gore


Mamma mia che mazzata nei denti mi si prospetterà nell’ascoltare questo disco. Lo si evince immediatamente dall’attacco dell’iniziale “Hipocrisy”, che apre questo selvaggio lavoro dei calabresi Zora (che vantano tra le proprie fila anche 2 elementi dei conterranei Glacial Fear), album di debutto dopo due Ep di pregevole fattura per gli amanti di questa musica. Il genere proposto, come avrete intuito è un seminale brutal death senza alcun compromesso. Riffs violentissimi e acuminati, vocals che sembrano uscire dallo scarico del lavandino, ritmiche schizofreniche e un assalto sonoro degno delle migliori band americane. Ipertecnici, incazzati fino alla morte, brutali e talvolta geniali per alcune loro intuizioni, questi sono gli Zora, che poggiando il proprio sound sugli insegnamenti della scuola statunitense, sfoderano una prova di carattere, andando a rompere gli schemi preconfezionati, con la loro lucida follia. Ascoltate “Kill Who Kill You” per capire di cosa è capace questo trio di Vibo Valentia, che non si limita nel ripetere pedissequamente gli insegnamenti dei maestri d’oltreoceano, ma rileggono il tutto in una chiave strettamente personale. C’è sicuramente la necessità di lavorare ancora molto, inseguire giorno dopo giorno i propri obiettivi personali per raggiungere i traguardi desiderati ma siamo comunque sulla buona strada… Pazzi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Edema - Default


Un inizio della serie “Il Signore delle Mosche” apre il debutto dei piacentini Edema, mi raccomando da non confondere con i pur sempre emiliani Enema! Se non avessi letto nel booklet interno del cd, i nomi dei quattro musicisti, avrei certamente ipotizzato che la nazionalità di questo quartetto death metal fosse nord europeo. Questo perché la caratura tecnico-compositiva dell’act italico è decisamente elevata per i nostri pur buoni standard. Ciò che magari frega un la band è un po’ quella mancanza di personalità che li possa far uscire dal solito affollatissimo calderone che è il panorama metal. La proposta degli Edema alla fine è un chiaro techno death di “Meshugghana” memoria, anche se sarebbe totalmente ingiusto fermarsi a questa superficiale definizione: comunque un classico rifferama dei godz scandinavi, stop’n go, inframmezzi acustici, alternanza di tempi pari e dispari, melodie distorte che già dall’iniziale “Crawling Unreason”, mostrano la pasta di cui sono fatti questi ragazzi. Si prosegue con le successive “Generator”, “Onirical” e la title track con un unico imperativo “Annichilire le fragili menti degli ascoltatori”. Devo ammettere che il risultato finale è estremamente positivo per una band alle prime armi (si fa per dire, perché comunque i nostri sono in giro dal 2004) e che i presupposti per trovare una propria strada, con un tocco di personalità in più ci sono eccome… Ottima la produzione, che esalta enormemente i suoni di “Default”, mettendo in primo piano una eccellente e devastante ritmica che nella ferale “My Sweetest Whore” ha un che di brutal death di chiaro stampo americano, con cervellotici giri di chitarra degni dei grandissimi Infernal Poetry. La conclusiva “Unequal Desease” chiude un lavoro che non fa altro che confermare le eccelse qualità e le grandi potenzialità che questa band potrà garantire in un futuro, speriamo, non troppo lontano. Ipnotici! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 70

Criminal Hate - Ataraxia


La nascita di questo combo siciliano è addirittura datato 2001, quindi quasi un decennio di vita per questa band underground di Catania, che solo ora riesce a dare alle luce il proprio debutto discografico (del 2005 un EP, “Regression of Human Race”). “Ataraxia” è un tipico esempio di black death influenzato dal sound vampiresco dei Cradle of Filth in primis: aspettatevi quindi una release abbastanza tirata, che come i loro maestri ai tempi migliori, non disdegnano quelle inquietanti melodie e ambientazioni horror a supportare l’estremismo sonoro (mai eccessivo a dire il vero). Quello che ne viene fuori è un lavoro che, pur essendo abbastanza derivativo, si lascia piacevolmente ascoltare, anche se credo che l’emivita (per dirlo in termini farmacologici) di questa release, non sia delle più lunghe. I Criminal Hate ci sparano in faccia queste otto tracce in grado di alternare feroci cavalcate black, con le keys ad arricchire in modo mai troppo invadente, il sound del trio catanese, a momenti in cui minacciosi rallentamenti la fanno da padrone. Diciamo che c’è ancora da lavorare molto per ottenere dei buoni risultati, tuttavia, “Ataraxia” rappresenta già un discreto punto di partenza da cui crescere e prendere il volo. Il terzetto siculo si muove con estrema disinvoltura all’interno di un genere che ha visto uno scoraggiante declino negli ultimi anni e quindi mi rende felice vedere che c’è ancora qualcuno che si dà da fare per mantenere viva quella tenue fiammella di black sinfonico e “The Curse of Anubis” (ma anche la successiva “Empire of Insanity”) possono essere considerate la summa dell’intero lavoro accorpando soluzioni sinfo-black con elementi goticheggianti. Per chi è in cerca di emozioni quasi del tutto andate, i Criminal Hate possono ancora rappresentare la speranza per un futuro migliore… in chiave black sinfonico sia chiaro! (Francesco Scarci)

(Criminal Intent Records)
Voto: 65

mercoledì 9 febbraio 2011

Klabautamann - Merkur


Devo essere sincero, per iniziare ad apprezzare questo disco mi ci sono voluti veramente tantissimi ascolti perché “Merkur”non è di sicuro uno di quei lavori che ti si stampano immediatamente nella testa o sei è in grado di apprezzare fin dal primo momento. Certo è che, quando il sound dei tedeschi Klabautamann, inizia ad insinuarsi nelle nostre menti, tutto diventa alla fine estremamente interessante e coinvolgente. Partendo da una remota base black metal, l’act teutonico costruisce il proprio sound, basandosi sui sacri insegnamenti degli ultimi Enslaved (quelli di “Vertebrae” o “Isa” tanto per capirci, fino ad affondare le proprie radici nel psichedelico “Monumensium”) o dei deliranti Fleurety, senza dimenticare che l’alone progressive che aleggia intorno a questa release, si ispira ai gods svedesi Opeth, ma riletti in chiave black piuttosto che death. Tutto questo, non per dire che i nostri crucconi siano dei bravi copioni, ma solo per farvi capire che quello che ne viene fuori è un qualcosa di alta classe e di comunque stranamente originale. Non tralasciamo poi le tipiche sfuriate black come in “Herbsthauch” o “When I Long for Life”, dove il duo di Meckenheim mostra veramente di saper far male con il tipico tagliente rifferama nord europeo. Ciò che poi ci stupisce in mezzo a queste tiratissime ritmiche e spiazza completamente, sono quei sorprendenti momenti di atmosfera solenne, dove divagazioni jazz, acustiche o avantgarde, riescono a sorprenderci alla grande per la loro classe cristallina, genuina e geniale. Quello su cui lavorerei maggiormente in mezzo a tutto questo ben di dio, è forse la voce, che renderei decisamente meno lacerante nel suo screaming ferino, cedendo il passo a un tono più oscuro o pulito. Che altro dire su questa new sensation tedesca? Se siete alla ricerca di musica cerebrale, seducente e assolutamente non scontata, “Merkur” farà di certo al caso vostro. Affascinanti! (Francesco Scarci)

(Zeitgeister)
Voto: 80

Sweet Insanity - Believe in Some Kind of Truth


Apprezzabile il gesto, ma darci dentro! I Sweet Insanity sono una band della provincia di Bologna che si forma del 2005. Registrano il loro primo EP autoprodotto, "Welcome To The Theater", tra il novembre 2006 e il febbraio 2007. Nel 2008 vengono messi sotto contratto dalla loro attuale etichetta, l’Hurricane Shiva. Mi capita tra le mani questo loro primo lavoro di ampio respiro. Inforco le cuffie e si parte. Si sente subito chi ha influenzato lo stile di questi ragazzi: il debito nei confronti dei “Four Horsemen” mi fa venir voglia di lasciare stare. Superato questo momento d’impaccio, mi rituffo però nell’ascolto. Per carità, nulla di nuovo sotto il sole: le canzoni sono suonate bene, le chitarre e le percussioni ci sono, i ragazzi ci sanno fare, con assoli puliti e la batteria bella potente quando serve. Ecco, la voce del cantante, molto melodica per il genere, mi lascia un po’ perplesso: s’incunea bene nelle sonorità ma pare non essere abbastanza potente e caratteristica. Il disco ha una sua linea, seppur non originale. “Believe in Some Kind of Truth” si apre con un’arpeggiata “Zeia Mania”, cui segue poi “Ready to Burn” un po’ più tirata (chi dice che ricorda “Fuel” dei Metallica?) che dà il “là” per i brani seguenti. “Conflict” è la prima traccia che si discosta dalle altre, con una parte melodica che permette alla voce del singer di poter spaziare liberamente. Questa vena meno potente si ritroverà più avanti anche in “Angel”. ”Libido”, con parti vagamente orientaleggianti e un finale particolarmente veloce, ha un qualcosa di personale e caratteristico cosi come pure “Funeral Lullaby” che prende le distanze dal resto delle song; melodica con arpeggi, in altri tempi sarebbe stata indicata come la “power ballad” del disco. Senza infamia e senza lode le altre tracce di questa release, a parte “Sons of the Dust” che ha l’aggravante della lunghezza. I testi delle canzoni sono semplici e diretti, cosa apprezzabile, ma forse un po’ troppo. Grossa pecca di questo lavoro è ahimè la bassa qualità di registrazione, davvero una produzione migliore avrebbe meglio portato alla luce le doti della band. Pur con questi limiti, mi sento di considerare questo LP positivo. Chi cerca le sonorità di “Re-Load” (sempre che esistano persone che ne siano in cerca), potrà trovare questa fatica addirittura divertente. Possono fare di meglio e sganciarsi magari dal lavoro e dalla forte dipendenza di altre band, sempre che lo vogliano e non si divertano già abbastanza così. Migliorabili! (Alberto Merlotti)

(Hurricane Shiva)
Voto: 65

Maninfeast - How One Becomes What One Is


Che bello l’underground, cosi pullulante di band ai più sconosciuti, pullulante di band che meriterebbero peraltro un contratto più di un qualsiasi altro gruppo, magari già affermato. Questa premessa perché la scoperta di oggi arriva dal sottobosco lusitano ed è ancora una volta sorprendente quante cose interessanti possano annidarsi là sotto. Signori e signore vi presento i Maninfeast, act proveniente dal Portogallo, formatosi poco più di un anno e mezzo fa e capace di rilasciare questo introspettivo Ep di 5 pezzi. La musica proposta? Non è cosi semplice da descrivere, complice il perfetto mix tra sonorità provenienti dai più disparati ambiti musicali. L’apertura è affidata a “Speaking Void”, song tranquillissima, quasi una lunghissima intro a cavallo tra il rock progressive e l’ambient. La successiva “Ewige Wiederkunft” mi fa immediatamente drizzare le orecchie: per quella sua apertura arabeggiante, ho forse un desiderio recondito di sentire nuovamente le sonorità dell’Ep d’esordio dei loro conterranei Moonspell. Questa mia speranza persiste per qualche minuto, in cui il quartetto di Lamego ci ipnotizza con il loro sound quasi psichedelico, per poi strozzarsi quando i nostri iniziano a premere un po’ di più il piede sull’acceleratore (in realtà mai più di tanto). Il sound dei Maninfeast si potrebbe descrivere infatti come “oniric metal”, per quella sua (già matura) capacità di catapultarci in un’altra dimensione, quasi sognante con lunghe soffuse ambientazioni, in cui esplodono saltuariamente rocciose chitarre e qualche vocals al limite del growl. La terza “Keynesian Model” è un ponte di raccordo, al limite della musica elettronica per quei suoi stordenti loop di synth (ad opera di Francisco Pina), con “Beyond Blindness”, song ancora una volta dall’incipit oscuro con le vocals di André Lobão che si alternano intelligentemente tra un mood assai sporco (quasi stile Sepultura) e uno più pulito, mentre le ritmiche viaggiano sospese tra il progressive, la musica etnica, l’ambient e il sound psichedelico ala Tool. A chiudere il Mcd ci pensa “Magic Stones”, la song più metal delle cinque (e quella che mi piace anche meno tra l’altro), in cui la voce di André adotta uno stile più alternative, mentre le ritmiche più tirate rispetto ai brani precedenti, hanno un certo flavour stoner. Concettualmente vicino alla filosofia di Friedrich Nietzsche, al pensiero del teorico di Lord John Maynard Keynes e anche al libro di Madame Blavatsky, “How One Becomes What One Is” ci mostra una nuova realtà proveniente dal Portogallo, che ci fa ben sperare per il futuro. Forti della produzione affidata a Guilhermino Martins (ThanatoSchizO), tra l’altro anche in veste di guest come tastierista nella seconda traccia, I Maninfeast rappresentano a mio avviso la new sensation dal Portogallo. Promossi a pieni voti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

Il Grande Scisma d'Oriente - Synesthesia


Anche l’Italia ha i suoi Opeth? Dall’ascolto di questo Mcd autoprodotto, la risposta parrebbe proprio scontata… Si. L’influenza che la band di Mikael Akerfeld e soci è ormai globale, e i romani Il Grande Scisma d’Oriente non ne sono immuni; e ciò non è assolutamente un danno per la musica, anzi, a mio avviso è un modo per far crescere un genere che sicuramente avrà molto da dire in futuro. Fatta questa premessa, è abbastanza chiara quella che sia la proposta musicale del five pieces di Roma: prendete come punto di partenza il sound degli Opeth di “Blackwater Park” con tutte le sue caratteristiche: song di lunga durata, frangenti acustici intervallati a un riffing corposo ben strutturato, l’alternanza tra growling e cleaning vocals e il gioco è fatto. Questo è quello che si evince infatti da “Synesthesia II”, mentre in “Hypnagogia II” si fa molto più forte l’influenza dei nostrani Novembre, sia nei giri di chitarra che nelle linee vocali pulite. È chiaro che la band capitolina si trovi a proprio agio con queste sonorità anche nella conclusiva “Onironauta”, connubio perfetto tra le sonorità delle due band citate sopra. Che altro dire, se non che la preparazione tecnica è più che buona, le idee ci sono ma andrebbero sfruttate decisamente meglio, cercando di non scadere talvolta nel plagio, e infine invito la formazione romana a lavorare all’insegna di una ricerca costante di una propria definita personalità perché, diciamocelo, questa band, dal nome cosi affascinante, ha senza dubbio le carte in regola per ottenere un buon successo. E allora, scrolliamoci di dosso questi fantasmi e proviamo con tutte le forza a disposizione, a cercare il proprio sound. “Synesthesia” è un discreto punto di partenza, ma come dicevano i professori a scuola, “l’alunno si impegna ma potrebbe dare molto di più”. Volere è potere! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

domenica 6 febbraio 2011

Black Infinity - 666 Metal


Arrivano dal Vietnam (Saigon), questi Black Infinity, gruppo formatosi nel 2006. Il loro lavoro posto alla nostra attenzione è “666 Metal” (già il titolo appare un po’ scontato) registrato nel 2009 per la SongNam.Il cd è composto da 11 brani e lo stile è un tipico melodic death unito a ruffianerie tipiche del gothic metal. I ragazzi promettono bene, ma a causa della loro immaturità, mostrano poche idee innovative, poiché probabilmente hanno voluto lavorare su un qualcosa di “sicuro”, senza osare nemmeno un pochino. Ci sono tipiche ballate metal unite a cavalcate più tipicamente death. Canzoni come “Intro Return For Dying” e “Lost Angels”, possono rappresentare quanto di meglio i nostri abbiano da offrire. Mostra un po’ più di interesse la traccia n° 4, “The Secret”, che offre (nell’intro) una buona unione tra la musica etnica vietnamita (o comunque i tipici suoni orientali) e il gothic metal. La song “Embracing Hearts“ è un’altra tipica metal ballad, quasi rilassante, “diciamo sentimentale”. La traccia numero 7, “When Her Love On Fire”, è invece un pezzo strumentale, con il solo pianoforte che ha il fine esclusivo di denotare la bravura del tastierista ma nulla più. Le tracce “Deathbed Illusion”, ”Celebrating Nightmare”, “God” e “Apocalyptic” (con quest’ultima a chiudere il cd), si rivelano molto violente, ben ritmate, suonate adeguatamente, ma purtroppo non mostrano le potenziali capacità che questa band potrebbe offrire, potendo sfruttare le proprie origini (cosi come hanno invece fatto altri act orientali come Chthonian o Tyrant) e alla fine per tutte le 11 tracce si finisce per percepire una sensazione di già sentito. Peccato! Come dire “Bocciati no! Ma rimandati al prossimo lavoro, sicuramente auspicando che i nostri possano miscelare maggiormente la musica estrema a quella dell’estremo oriente”. (PanDaemonAeon)

(Songnam)
Voto:60

mercoledì 2 febbraio 2011

Pornomatic - Pornomatic


Siamo sinceri, il Glam non è uno dei miei generi ma scrivendo recensioni bisogna essere obiettivi. Mettiamoci su 'sta parrucca bionda e spariamoci i Pornomatic. Premetto, ora vi racconto tutto ma preferirei sparare ai Pornomatic... Questo duo francese che canta nella propria lingua madre cerca di ricalcare i più blasonati gruppi del genere ma non arriva mai ad emularli e tanto meno a proporre qualcosa di nuovo. Le sonorità sono scontate, gli arrangiamenti pure e dopo qualche traccia posso dire che è classificabile più come Glam Pop che Rock. Ovviamente non si può dedurre se la scelta di cantare in francese sia dovuta al fatto di voler distinguersi dalla massa o perchè il vocalist non aveva voglia di cimentarsi nella lingua britannica, di fatto sottolineo che non ho valutato i testi anche se dubito che brillino di profondità e contenuti sociali. Le chitarre più che ovvie troneggiano qua e la ma risultano sempre fredde e sterili, il vocalist sarà sicuramente amato dalle fan ma quanto a doti canore manca di quell' appeal che possa regalare qualche emozione in più. Per rispetto mio e vostro non vado ad analizzare le singole tracce e tanto meno riesco a segnalarne qualcuna degna di nota. Lasciamo quindi i Pornomatic a calcare i locali d' oltralpe, vestiti di lustrini davanti a folle (spero per loro) di donne impazzite. Poca sostanza, ma penso che ne siano più che coscienti visto che calcano la scena da qualche anno e questo album omonimo è il secondo lavoro dei Pornomatic.

(Self)
Voto: 40