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martedì 6 gennaio 2015

Corr Mhóna - Dair

#PER CHI AMA: Black/Death Folk, Enslaved, Solstafir
I Corr Mhóna sono band irlandese proveniente da Cork, che ha sfornato un album autoprodotto particolarissimo, ricco di sfumature e richiami inneggianti al mondo celtico, cantato interamente in lingua gaelica con un sound evocativo e intenso, un artwork pregevolissimo, di ottima fattura. Dotati di una buona tecnica compositiva, i nostri, dopo un demo e un EP del 2009, ritornano con questo lavoro complesso e ricercato dedito a un atmosferico folk metal dalle tinte epiche e guerriere. Molte le influenze acustiche riprese dalla musica celtica irlandese che donano malinconia e magia alle composizioni, di chiara matrice progressive black metal. Ispirate e convincenti nella loro maestosità, le tracce rispecchiano nelle parti più introspettive e sulfuree, le atmosfere mistiche dei primi Ulver e In the Woods, per poi farsi più aggressive e ricalcare i passi black dei maestri norvegesi Enslaved ed il prog folk metal degli Amorphis. Mi piace pensarli come una rielaborazione della blasonata band francese dei Northwinds, che propone un miscuglio geniale di folk celtico, prog rock e Black Sabbath, solo che i nostri quattro menestrelli suonano più oscuri, veloci e moderni. Le ambientazioni sono cariche di grigie suggestioni con una costante propensione all'opera metal in grande stile. I Corr Mhóna mostrano affinità anche con gli islandesi Solstafir ed il modo con cui sviluppano i loro brani appare sempre trascendentale, astratto e riflessivo, sia nel canto pulito che nel growl o nello screaming, senza mai scadere nel banale urlato. Gli attacchi sonici, in ottimo stile symphonic black, non degenerano mai e risultano sempre sotto controllo, ben bilanciati, e ben inseriti nei pezzi, ampliando in questo modo gli orizzonti della musica, senza farne perdere i confini, mantenendo un equilibrio di melodie entusiasmante. L'album, indicato per un solo pubblico di iniziati, estimatori e intenditori, ha bisogno di numerosi ascolti per essere apprezzato nei minimi dettagli, per scoprire il duro lavoro che si cela dietro a ogni singola traccia, e per entrare nel mondo fatto di battaglie, visioni mistiche e sciamaniche di questa band. "Daìr", con il suo magnifico intermezzo di canto corale, oltre ad essere la traccia che dà il titolo all'intero lavoro, è un brano di oltre quindici minuti posto a chiusura del cd che risulta essere la traccia simbolo di un album straordinario, sicuramente al di sopra della media. Sette brani variopinti per quarantacinque minuti di saghe celtiche degne dell'eroe leggendario Cù Chulainn, immersi nelle foreste dei druidi alla ricerca del sapere magico... Corr Mhóna... orgoglio d'Irlanda! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Ghost Bath - Funeral

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Shoegaze
La Pest Productions continua la sua ricerca di talenti e questa volta lo fa direttamente a casa propria, andando a scovare i Ghost Bath nella semi sconosciuta città di Chongqing, una delle quattro municipalità indipendenti della Cina, considerata peraltro uno degli agglomerati urbani più grandi al mondo che raccoglie milioni di immigrati dal resto del paese. Probabilmente il senso di disagio che si respira in questa metropoli, l'inquinamento e una miriade di altri problemi che popolano le grandi città cinesi, devono essersi riversate nella musica quanto mai straziante del quartetto dagli occhi a mandorla. Undici piccole gemme di un depressive black che verrà ricordato soprattutto per le ottime linee melodiche piuttosto che per le lancinanti grida dei due vocalist, a tratti davvero insopportabili. Un vero peccato perché le premesse sono a dir poco stupefacenti: "Torment", la opening track, ci offre infatti un sound all'insegna del suicidal black miscelato allo shoegaze, con le urla belluine dei cantanti, appunto, a rovinare il tutto. Le ariose chitarre, i fraseggi malinconici, le atmosfere drammatiche suggellano una prova davvero convincente che si tramuta in poesia più cupa nella successiva "Burial", una mesta sepoltura che trova sfogo nello stridore vocale dei malefici vocalist. "Silence" è un semplice arpeggio di un paio di minuti che straripa in una cascata emozionale nella successiva "Procession", song che si arricchisce di ulteriori influenze derivanti dal Cascadian black metal, una splendida cavalcata in mezzo ai boschi, attraversando fiumi e cascate, scalando montagne e raggiungendo la vetta dei nostri sensi. Splendida. Ma è una bellezza incompiuta che avrebbe tratto maggior beneficio se, anziché udire l'ululato assurdo nel microfono, magari si fosse sussurrato, narrato o cantato in modo pulito o con uno screaming decisamente più convenzionale. La cosa drammatica è che 'Funeral' avrebbe in effetti le carte in regola per essere un signor album, per piacere ai fan di Alcest, Deafheaven o Shining indistintamente. Il problema, e mi spiace averlo più volte sottolineato, risiede nella performance, a dir poco mediocre, dei due cantanti. Se siete in grado però di superare lo scoglio delle urla belluine, vi garantisco che vi innamorerete delle song celestiali fin qui descritte, per continuare con "Dead", passando dalla delicatissima "Sorrow", l'elettrizzante "Calling", e la più desolante "Continuity", fino alle un po' più sconclusionate song finali in cui i Ghost Bath si perdono per strada. Per concludere, a parte suggerire un cambio di ugola e una migliore produzione, quello dei Ghost Bath è un disco che va testato, nella speranza di un futuro migliore. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

Celesterre - A Blooming Spring

#PER CHI AMA: Heavy/Doom
Con il loro ultimo lavoro 'A Blooming Spring', i Celesterre si fanno portavoce dell'umanità in un concept EP dalle tinte apocalittiche e sibilline. Dopo il lavoro d'esordio omonimo del 2012, il quartetto olandese propone un genere che parte dall'heavy metal per arrivare a toccare altri stili. La trama del concept - sviluppato in 5 brani - prende in considerazione l'estinzione umana a causa dell'inesorabile approssimarsi della Terra, nella sua rotazione intorno al Sole. Ogni brano tratta questo catastrofico evento da un diverso punto di vista. "Celesterre Burns In Gold", nella quale la band si pone a rappresentare l'umanità intera, vede il nostro pianeta letteralmente inghiottito dall'enorme disco d'oro che è il Sole, immaginando una realtà ustionata dalle radiazioni solari. "The Droning Earth" descrive invece il pianeta come scosso da convulsioni febbrili, in terremoti che muovono gli oceani, a simboleggiare un genere umano rigettato dalla Terra come una malattia. In "A Blooming Spring", la fine dell'uomo è arrivata...il cancro è stato estirpato a fuoco, la primavera di una nuova era è descritta, alimentata dalla morte nel ciclo vitale e resa da questa rigogliosa. "Vegetation Terror" vede la natura dilagare e allungare le sue dita frondose su tutto ciò che prima apparteneva all'uomo, e inconsapevole si riappropria di ciò che le era stato tolto. "Dust" interpreta chiaramente la frase: polvere eravamo e polvere ritorneremo. La coscienza umana dona il proprio corpo, trasformato in vita dai microrganismi, affinché nutra la terra, prima che essa si fonda con il sole... Sebbene queste tematiche non rappresentino una novità dal punto di vista concettuale, s'inseriscono comunque tra i punti di forza di questo lavoro e, grazie a un songwriting d'effetto, seppur appesantito dall'uso di termini eccessivamente ricercati e un incedere talvolta criptico, rendono questo EP strutturato e non banale. La opening track da il via alle danze con un arpeggio acustico subito accompagnato dal basso, il tutto circondato da inquietanti feedback. L'arpeggio prosegue poi sovrapponendosi all'attacco della strofa e andando con essa in controtempo. La prima strofa cantata s'apre subito con declamatoria veemenza, contrappuntata dalle parti corali nel grido "Burn!". Il chorus, meno aggressivo e preceduto da un ponte interessante nel quale il basso esce allo scoperto, distende ritmica e parti accordali. Dopo il secondo chorus un assolo misurato e non virtuosistico precede la parte finale, caratterizzata da ritmi serrati alla batteria, tappeto di basso e chitarre ritmiche e una voce secondaria più delicata, che s'alterna a samples di registrazioni parlate tratte da documentari scientifici, prima che il pezzo termini improvvisamente. Un discreto pezzo d'apertura che non dona ancora però un'idea completa dello stile della band. La seconda traccia si scaglia improvvisa con un ritmo quasi tribale e delle vocals immediate, che appaiono nella loro distribuzione un po' scollate dalla musica. Con degli effetti resi in un'interpretazione stravagante, che punta a creare una sorta di polimorfismo vocale. Il chorus, più disteso, spezza quasi il ritmo a creare un inno non privo di drammaticità ed epicità. Poi il ritmo s'anima nuovamente per le nuove due strofe, ciascuna dalla differente base strumentale, prima del nuovo chorus che porta con sé una variazione nell'arrangiamento, oltre che un'efficace pausa improvvisa. Nella struttura complessiva il pezzo ricalca il precedente, ma si differenzia nelle code del finale, che è qui più strutturato e interessante. Un brano che non aggiunge molto di nuovo a quello d'apertura se non una maggior omogeneità e coerenza strutturale, nonché una maggiore fluidità. E' solo con la title track, brano fra i più significativi dell'EP, che la band esce allo scoperto per quella che è. Suoni di uccelli e ronzii d'api precedono ritmi distesi contrappuntati da pause, che rendono questo inizio a blocchi accattivante. Questo incedere più aperto e cadenzato permea tutto il brano, e il cantato, più asservito e amalgamato alla musica, risulta più efficace. A metà brano il riff iniziale viene variato e alternato a scariche di grancassa e basso ove prima vi erano pause, su questa base si staglia un assolo, che viene poi abbandonato a se stesso a fungere da introduzione a una parte acustica, sostenuta da un bel giro di basso, che ricorda i germogli dei primi Opeth in "Black Rose Immortal". Davvero bello questo passo quasi sussurrato da parte di strumenti, voce ed effetti sonori. La parte finale ricalca la struttura del brano precedente, ma in veste più "ragionata". Il quarto brano esordisce con una chitarra "ronzante" cui si aggiunge poi la seconda per un effetto creato da trilli cromatici simili a quello del volo di un calabrone, il tutto preceduto da pochi blocchi introduttivi. Poi un altro blocco interrompe tutto, cui segue una coda di sirena creata dalla lead guitar e un grattare secco della ritmica che simpatizza per stilemi thrash. Questa introduzione vale tutto il brano, che prosegue infatti senza notevoli novità ad aggiungersi agli episodi precedenti, eccetto i ritmi incalzanti, la ripresa del tema iniziale e una chitarra solista tematica che si destreggia in assoli che accompagnano strofe e chorus. Un pezzo comunque buono, che si affianca alla title track per importanza e vi aggiunge la presenza di parti solistiche di chitarra molto corpose e virtuosistiche, anche se si distacca da essa per il finale tronco, accostandosi invece alla chiusura del brano iniziale. L'ultima traccia appare come un'evoluzione della sezione strumentale centrale della title track. Il testo è essenziale e minimale, ma nel suo parlato, ad aggiungersi alla guest vocal femminile (Miriam), s'impone come il pezzo con le vocals più riuscite. Centrale qui però risulta la musica (punto di forza della band) e il tutto ne trae vantaggio. Non si può parlare di vero e proprio brano, ma sicuramente questo pezzo di chiusura ha il ruolo di finale per tutto l'EP e l'annesso concept. Sicuramente una conclusione d'effetto che lascia il segno. Già dal primo brano i Celesterre si presentano come una band controversa, nella proposta del genere, nel rapporto fra tematiche affrontate e musica, per arrivare agli indiscutibili pregi e agli evidenti difetti. La scelta di toccare caratteristiche del doom e del black partendo da una solida base heavy è sicuramente coraggiosa e non comune, se poi aggiungiamo a questo tematiche permeate da fatalismo e amore per la natura, unite a un'accusa implicita all'umanità per il suo operato, ci si trova certamente di fronte a molto materiale, musicale e non, da plasmare. I nostri son riusciti con successo solo in parte in questa impresa. Sicuramente nel complesso il lavoro suona abbastanza omogeneo, con brani che sconfinano più di altri verso generi differenti (come il riff principale poi variato in "A Blooming Spring", accompagnato da lente cadenze ritmiche che rimandano a caratteristiche doom o lo sviluppo finale di "Celesterre Burns In Gold" che varia il riff principale con una base ritmica in blast beat strizzante l'occhio al black), sempre con una certa continuità negli arrangiamenti e una buona capacità compositiva. Non mancano poi gli effetti sonori introduttivi a suggerire ambientazioni naturali, riprendendo le tematiche trattate, anche se non vi è mai una fusione completa tra queste allusioni e ciò che comunica la musica. La controversia più grande vi è però nel cantato che, seppur s'inserisca in uno stile di formazione heavy, suona quasi come un declamato, e ciò potrebbe anche risultare interessante, non fosse per alcune parti che tradiscono un'insufficiente padronanza nella tecnica vocale del frontman Wouter Klinkenberg (che ha però il merito di essere autore di musica e testi oltre che chitarrista). Critiche negative non possono invece certamente esser mosse alla sezione strumentale che, con una base ritmica di basso (Jason van den Bergh) e batteria (Tim Zuidema), solida e dall'ottima abilità strumentale, riesce a presentare bene a livello esecutivo il materiale musicale. Lo stesso dicasi per la sezione delle chitarre (del già citato frontman e Floris Kerkhoff), buona sia nella sua parte ritmica che in quella solista, senza sforare in tecnicismi fine a se stessi e senza esser troppo banale, con l'unico neo di esser talvolta un po' meccanica nelle parti soliste più semplici e non valorizzata dal sound generale poco pulito a livello di registrazione. Quest'ultima suona molto "vera" come fosse una presa diretta, e comunque presenta un sound generale buono, anche se in alcuni punti alcuni strumenti e la stessa voce vengono quasi inghiottiti dalle frequenze degli altri strumenti (come il sole farà con la terra in questo concept). L'artwork è tratto dal dipinto di Frederic Edwin Church (1826-1900) "Rio de Luz" e si sposa all'immaginario che suscita il testo di "Vegetation Terror" con una certa efficacia, anche se nella sua grazia e raffinatezza idilliaca spiazza l'ascoltatore circa l'impressione che scaturirà secondariamente dall'ascolto della musica che, soprattutto per via delle vocals, risulta cruda e pe(n)sante tanto quanto si pongono disincantati e profetici i testi. Una nota di demerito va al logo, assolutamente non coerente al carattere di band e songwriting, non attinente a livello cromatico e grafico rispetto allo sfondo e dal sapore "standard font". In ultima analisi ci si trova di fronte all'arduo compito di mettere sul piano della bilancia pregi e difetti. Purtroppo alcuni difetti pesano più di taluni pregi e la valutazione che ne scaturisce è una media tra una sezione vocale che non raggiunge la sufficienza e una sezione strumentale che supera una valutazione buona. Prendendo poi in considerazione la breve durata del lavoro e il fatto che si tratta di un secondo capitolo nel curriculum dei Celesterre non è possibile forzare la mano nella valutazione, ma è augurabile un superamento dei difetti che porti un cambiamento strutturale e innalzi il livello di una band dalle buone potenzialità. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 65

Kelvin - CD01

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Punk/Hardcore
I Kelvin sono un duo padovano (Anna alla batteria e Woolter alla chitarra e voce, in questo lavoro c'era anche Andrea a dar man forte) nato nel 1999 e che ha all'attivo vari lavori, tra cui questo 'CD01' autoprodotto nel 2001/2002 e poi ristampato dieci anni dopo da MacinaDischi, etichetta fondata dalla stessa band. I Kelvin sono una band storica della zona e questo debutto mette in risalto la genialità di un'idea e del progetto che ha scaturito. Il duo ha preso una base noise/post punk & hardcore, nuda e cruda, ha scarnificato la musica e ha reso livida e rabbiosa ogni singola parola pronunciata. Il cd racchiude diciassette tracce brevi e intense, frammenti che si incastrano a formare un quadro di arte contemporanea dove la tela è graffiata, strappata e umida di sudore e sangue. I suoni sono scarti, vittime di una registrazione DIY (do it yourself), ma sono perfettamente in linea con l'idea della band e del genere. Una registrazione super raffinata avrebbe tolto groove e impatto, di questo ne siamo certi. Ci sono brani come "Go Away" che prendono liberamente spunto da band come i Sonic Youth, ma con suoni accattivanti e voce acuta alla Beastie Boys. Non vi dirò che i riff siano estasianti, innovativi e quanto di più creativo si possa ascoltare, ma c'è botta da vendere e groove. Quello che ti fa muovere, sgomitare davanti al palgo o muovere la testa anche se sei in macchina da solo in mezzo al cazzo di traffico. "Mazurka" invece ha un intro con uno dei preset di tastiera più assurdi di sempre, poi entra la batteria che detta il ritmo con una cadenza militare e la marcia ipnotica e tesa a fil di nervi arriva fino alla fine. Il vocalist declama versi come un despota davanti alla folla vittima e sottomessa. Un viaggio allucinante, breve si, ma che vi lascerà sicuramente una retrogusto in fondo alla gola. Amaro, acido oppure metallico, non importa, ora siete pronti a sentire altri brani dei Kelvin. (Michele Montanari)

(Macina Dischi - 2011)
Voto: 80

Absinthe River - Echoes of Societal Dysfunction

#PER CHI AMA: Heavy/Hard Rock 
#FOR FANS OF: Heavy/Hard Rock
La schiera di recensori/musicisti del Pozzo dei Dannati si allarga con la release di Bob Szekely e i suoi Absinthe River, trio di Colorado Spring, che debutta con 'Echoes of Societal Dysfunction'. Si tratta di un disco di sette pezzi, dediti ad un heavy/hard rock old school. Accendere lo stereo e far partire "Followers of Dogma" è stato un vero back in time per me, un tuffo nel passato che mi ha ricondotto agli anni '80, quando per la prima volta mi avvicinavo, da pivellino, al metal e magari mi spaventavo dinanzi al riffing dei Metallica di 'Ride the Lightning' o all'assetto ribassato dei Black Sabbath, ecco due nomi non proprio messi lì a caso, anche se non rappresentano certo le influenze cardine del trio del Colorado. Qualcosa di atavico comunque ristagna nel sound dei nostri, cresciuti sicuramente a birra, cicchetti di whiskey e hamburger. La song ringhia che è un piacere e si muove tra l'heavy e il doom con una voce votata all'hard rock. Vista l'intercambiabilità dei vari musicisti polistrumentisti, il vocalist cambia nella seconda song, "Broken Sky" e un eco dei primi Metallica lo avverto, ma anche un che dei Candlemass. Anche se la produzione appare quasi casalinga, le idee e la voglia di divertirsi non mancano di certo al combo composto dal nostro Bob, Rob Rakoczy e Steve Stanulonis. Con la terza "Seeker of the Light", è Bob che torna alle vocals con un cantato simile a quello di King Diamond, mentre la musica gioca a richiamare oscure visioni ottantiane, con un duplice assolo finale, uno più rock oriented e un secondo più vicino al blues rock, a dimostrare comunque una spiccata versatilità della band statunitense. Con "Spirit Journey in Modernity", il ritmo si fa più spettrale e anche un po' più affascinante, e soprattutto meno etichettabile. "Haunted Emotions" è un pezzo di poco più di tre minuti di tenue hard rock che si affida ancora una volta alla sciabolata del suo assolo conclusivo, cosi come la darkeggiante "Swing Doors", tre minuti di suoni all'insegna di synth, programming e chorus femminili, in una traccia dall'andatura un po' sghemba. Diciamo che arrivati alla conclusiva "Aurora (The James Holmes Shootings)", non vi è rimasta alcuna traccia degli Absinth River dei primi tre pezzi, che si erano rivelati decisamente più pesanti. Quest'ultima è una sorta di ballad dal forte sapore settantiano, che si evolverà in pochi minuti, a un suono stile videogame ed infine rock, a completare quindi un disco che forse non fa dell'omogeneità sonora il proprio punto di forza, ma che comunque merita un vostro ascolto e un eventuale download (gratuito) dal sito bandcamp. Stralunati. (Francesco Scarci)


The team of reviewers / musicians of the Pit of the Damned grows with the release of Bob Szekely in Absinthe River, a trio from Colorado Springs, in their original debut 'Echoes of Societal Dysfunction.' It's a release of seven pieces devoted to a heavy / hard rock old school sound. To turn on the stereo and listen to "Followers of Dogma" truly took me back in time: drawing me into the past back to the 80s when for the first time Heavy Metal drew me in. On my first exposure to the genre, I was excitedly frightened by the riffing of the Metallica’s 'Ride the Lightning' or even those of Black Sabbath, two extraordinary bands. The Absinthe River sound is mired in the influences of this early era of metal, certainly grown in beer, shots of whiskey and burgers. The song growls: a pleasurable sound, as it moves between heavy and doom with a voice devoted to hard rock. Given the interchangeability of these multi-instrumentalists, the vocalist changes to Rob Rakoczy in the second song, "Broken Sky" and his voice echoes that of Metallica as well as Candlemass. Although the production seems a bit basement grown, The ideas and desire to have fun shines through with this combo composed of Bob Szekely, Rob Rakoczy and Steve Stanulonis. By the third song "Seeker of the Light", It’s Bob who returns to vocals sung in a style similar to King Diamond, while the music recalls more obscure visions of the 80's with a dual final solo: one more rock oriented, and the second more blues rock. This shows, however, the remarkable versatility of this US band. With "Spirit Journey in Modernity", the pace becomes more ghostly and even a little more fascinating. "Haunted Emotions" is a piece of a little over three minutes of tenuous hard rock that resolves once again to the saber of the final guitar solo. The dark "Swing Doors", roughly three minutes of dedicated synth programming and female chorus, is a track that’s a little skewed: as it is a departure from the style of the earlier tracks, being more pop than metal. And now we’ve come to the finale "Aurora (The James Holmes Shootings)", there is no trace of the Absinthe River sound found in the first three pieces, which proved much heavier. This last tune is kind of a ballad with a strong 70s flavor, which evolves a few minutes into a sound style of videogame rock. Although this CD may not be something to your liking, it definitely deserves your listening and a possible download (free) from the band's website. Thunderstuck.

(Kludgeworks Garage Productions - 2014)
Score: 65


(Reviewed by Francesco Scarci, Translated by Deborah S Szekely and Edited for clarity and flow by Robert E Szekely)

mercoledì 24 dicembre 2014

Kong – Stern

#PER CHI AMA: Prog Strumentale, Elettronica, Industrial
Di recente mi è capitato di rivedere il primo Matrix, della trilogia di gran lunga il migliore. Un film che quando uscí mi entusiasmó, come credo sia capitato piú o meno a tutti. Visto oggi, pur rimanendo un'ottima pellicola, il suo impatto appare ridimensionato, e per apprezzarlo al meglio è necessario contestualizzarlo nel periodo in cui venne girato. Ebbene, questo disco mi ha fatto piú o meno la stessa impressione. Un mix tra metal ed elettronica del giorno prima che suona energico e piacevole, ma che oggi rischia di risultare un tantino anacronistico. Gli olandesi Kong sono una band longeva, il loro esordio risale addirittura al 1990, e questo è il loro ottavo album, il terzo con la nuova formazione nata nel 2007, dopo uno iato che durava dal 2000. E la loro musica sembra essere perfettamente centrata nel decennio della loro prima incarnazione, figlia di un periodo iniziato con la caduta del muro, e rappresentativa dell’eccitazione libertaria di un cambiamento epocale, ma che, ad un certo punto, si è lasciata superare dagli eventi. 'Stern' mette in fila una serie di composizioni convinte e convincenti, ma che a lungo andare, risultato un po’ piatte e ripetitive nel riproporre uno stesso schema. Ritmiche sintetiche doppiate da batterie vere, elettronica sottile che sporca i riff di chitarroni di stampo prog-metal, senza peró particolari guizzi di originalità. Meglio i pezzi in cui il contrasto tra le due componenti viene spinto al limite, come la danzereccia "Rage8FA", "NOZL" o "Feast of Burden", oppure "Contenu Inconnu", l’unico brano cantato, mentre purtroppo l’approccio totalmente strumentale non giova al resto della scaletta. Probabilmente la dimensione ideale per la musica dei quattro è quella live, dove i Kong sono famosi per i loro show dal forte impatto sonoro. Dal punto di vista tecnico comunque, nulla da eccepire, specie pensando che si tratta di un’autoproduzione, in quanto l’album è prodotto e suonato benissimo, e viene anche scongiurato il pericolo di un’eccessiva freddezza grazie ad un’ottima cura dei suoni. Bella anche la confezione in digipack apribile. Insomma, un lavoro ben fatto che potrebbe regalare diverse ore di divertimento ai cultori del rock contaminato con l’elettronica. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/KONGband

Isaak & Mos Generator - Stoner Split Of The Year

#PER CHI AMA: Stoner/Hard Rock/Psichedelia
Gli Isaak sono tornati e lo fanno in grande stile: uno split su vinile insieme ai Mos Generator. E' vero, il disco non è ancora disponibile, ma quando è stato lanciato in streaming qualche giorno fa, non ho saputo resistere. I primi (ex Gandhi's Gunn) sono una delle realtà italiane più interessanti degli ultimi anni in campo stoner. Il loro precedente album è stato prodotto dalla Small Stone Records, etichetta americana che sforna ottime band come se non ci fosse un domani, mentre questo split è targato Heavy Psych Sounds, label italiana che sta crescendo in modo vertiginoso. I Mos Generator sono una rock band americana che ha già quattordici anni di onorata attività alle spalle, cinque album prodotti e una valanga di concerti in giro per il mondo. Qualcuno li ha definiti come i naturali eredi dei Black Sabbath al tempo di 'Sabotage', noi non possiamo che essere d'accordo. Le due band si contendono ciascuna un lato del lussuoso vinile in colorazione splatter (rosso e nera) che aumenta a dismisura la necessità fisica e mentale di possederlo e metterlo in un posto di rilievo tra la propria collezione privata di dischi. I Mos Generator ci portano in un viaggio onirico, sospeso nel tempo e in balia di forze oscure che tentano di prendere il sopravvento sulla nostra lucidità mentale. Quasi dodici minuti pieni zeppi di suoni vintage, a partire dai synth e sequencer che provengono direttamente dalle migliori colonne sonore sci-fi anni 70/80. Dopo una breve intro strumentale che ci fa tremare per via di un basso talmente distorto che solo il feedback potrebbe buttare giù un grattacielo, inizia il brano vero e proprio e ci sorprendiamo perchè i suoni non sono così esasperatamente pesanti. Quello che ascoltiamo è un sano hard rock ricco di frequenze calde e avvolgenti, tanto groove e riff vagamente prog. Al sesto minuto arriva il primo vero break dove un Hammond ricrea le tanto care atmosfere psichedeliche in pure stile Pink Floyd. Gli assoli cremosi di chitarra e l'ipnotico vocalist recidono il cordone ombelicale che a stento ci tiene stretti a questa terra e il volo pindarico raggiunge la sua massima espressione. I suoni sono semplicemente perfetti e se lo dico ascoltando uno streaming, non oso immaginare cosa succederà quando la puntina del giradischi inizierà a scorrere sui solchi di cotanta manna dal cielo. Ora tocca agli Isaak che dopo un inizio di così alto livello, me li immagino impavidi sul palco, pronti ad esibirsi dopo essere stati virtualmente introdotti da una band possente come i Mos Generator. Le atmosfere e i suoni cambiano all'improvviso, ora la musica diventa più viscerale, quasi religiosa. Una lunga introduzione prepara la nostra mente e questa volta la botta arriva, ci investe completamente e ci inebria. In lontananza si sente profumo di peyote e incenso che ardono su un braciere, mentre il basso e la batteria intonano una marcia epica che le chitarre acuiscono con riff monolitici. Il vocalist completa l'opera con un grido rivolto al cielo in omaggio a madre natura che tutto vede e tutto decide. Il campionamento vocale che aveva prima guidato l'introduzione ora torna a farsi sentire insieme ad una linea strumentale (probabilmente uno strumento ad arco tipo viola o violino) che richiama i potenti arrangiamenti che si ascoltano in gran parte della discografia degli *Shels. Un quarto d'ora che vorreste non finisse mai, che ti lascia si sfinito, ma appagato. Questo split è un lavoro costruito ed eseguito in modo ineccepibile, da avere assolutamente e custodire gelosamente. Se qualche vostro erede lo vorrà reclamare in un lontano futuro, ditegli che dovrà dimostrare di esserne degno. Ora iniziate il conto alla rovescia, personalmente io sto già contando i giorni.(Michele Montanari)

domenica 21 dicembre 2014

Nami - The Eternal Light of the Unconscious Mind

#FOR FANS OF: Progressive/Avantgarde Death Metal, Opeth, Gojira, Gigan
Another one of those “I-can’t-believe-a-band-came-from-there” countries in Andorra, Progressive Death Metal band Nami has made it to album number two now and it’s still nearly impossible to get a grip as to what the bands’ actually about. There’s some melodic meandering throughout here as well as elements of Groove Metal in the riffing, when it becomes audible that there’s guitars in the mix since far too much of this seems to be based on creating a cacophonous noise of blasting drumming, discordant riffing and the inclusion of keyboards for a truly off-the-wall sound. There’s very little traditional influence of Death Metal throughout this one beyond a few growls and deep heavy riffing spread throughout various arrangements, and in fact the band’s focus on clean crooning is the biggest giveaway that this one’s not intended as a true Death Metal release. It’s all so haphazardly written, though, that it gives off more of an impression of simply placing as many different elements and styles into the music simply because the band is infatuated with those materials rather than finding a coherent way of utilizing them to their advantage as this never so much progresses to another section of the track as much as it does slam head-on into it without warning. This doesn’t become much of a distraction so much as it does a simple observation on the band as there’s certainly something to be said about how intriguing and interesting the numerous amount of work that went into this, but if it can be focused and streamlined better they might be onto something here. Opening track ‘The Beholders’ does offer up a potential clue as to what’s on store as the constantly shifting rhythms, complex arrangements that seem to focus on throwing everything possible into the song and the occasional burst of full-on Death Metal does offer promise but is way too scattershot to be much more. Thankfully ‘Ariadna’ does a better job at being coherent enough to matter with its’ sharp grooves and discordant patterns making for a much enjoyable Death Metal track though the lengthy avant-garde noodling in the middle of this does make itself known. The expansive ‘Silent Mouth’ is the album’s best track here with plenty of atmospheric wandering, a series of tight rhythms and enough energy to really make for an enjoyable time throughout this one. ‘Hunter's Dormancy’ follows up with another enjoyable effort as this one tends to really focus on those enjoyable blasting rhythms and stylized chugging that runs rampant throughout this. The back-to-back shorter efforts are both utter throwaways as ‘The Animal and the Golden Throne’ is as a clanking guitar runs through anguished screaming until a piano-lead outro while ‘Bless of Faintness’ seems like pointless desert-rock meandering with eerie droning guitar notes repeated over whispered vocals and don’t serve much of a purpose here. ‘Hope in Faintness’ at least gets back into more traditional realms but again contains way too atmospheric wandering in its arrangements and wallows in spacey segments that really don’t justify much of a metal tag at all until the final half when it’s all too late to matter much. ‘Crimson Sky’ carries on with the melodic guitar trinkling and light arrangements which don’t sound metal at all and makes for an even harder justification for their inclusion in the genre. ‘The Dream Eater’ finally attempts more traditional manners and executions with the frantic drum-blasts and urgent, intense riffing along with a more charging, destructive atmosphere but again simply contains far too much atmospheric meandering and spacey atmospheres to get much better. Frankly, this one is just too avant-garde and off-kilter to really get a handle on. (Don Anelli)

(Year of the Sun Records - 2013)
Score: 50