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giovedì 23 gennaio 2014

Slick Steve and the Gangsters – S/t

#PER CHI AMA: Rock’n Roll, Swing, Rhythm’n Blues, Swing, Tom Waits
Dalla biografia di questo quartetto bresciano (per tre quarti, dato che il cantante Slick Steve – al secolo Stephen Hogan – è madrelingua inglese) si legge che “il progetto è basato su una consapevole contaminazione artistica tra sonorità vintage e moderne, Swing, Rock’n Roll, Rhythm'n Blues e performance circensi, che spaziano dalla magia alla giocoleria”. A questo punto pare evidente che l’asso nella manica del gruppo debba essere la dimensione live, cosa che si intuisce anche dall’ascolto del loro cd d’esordio (molto curato, così come il loro sito web, per i quali va citata la collaborazione degli artisti di “Stilemio”), intriso di atmosfere ultra vintage, basate in particolar modo sulla personalità straripante del leader e il talento del chitarrista Alle B. Goode, in grado di mescolare blues pre-bellico, swing e rock’n roll primordiale alle parate di New Orleans e agli spettacoli circensi. La voce e lo stile di Slick Steve ricordano in più di un’occasione il primo Tom Waits, quello immerso nelle fumose notti metropolitane (si prenda ad esempio l’incalzante “Lazy Eyed Clown”), mentre i tre bresciani gli costruiscono attorno un groove di tutto rispetto, che a volte sterza verso i caraibi ("Ko Phangam Island"), il surf ("Wasted City") o il jazz dei primordi ("Small Reaction"). Si chiude con la delirante marcetta “Pink Elephants On Parade”, in cui un Tom Waits alle prese con le colonne sonore Disney si fonde al surf sporcato blues degno di Pulp Fiction. Disco molto ben suonato, ben registrato, che fa venire voglia di andare a sentire i quattro dal vivo, senza lasciarti però la spiacevole sensazione di avere a che fare con un prodotto monco quando spogliato del proprio contorno pseudo circense. Divertenti. (Mauro Catena)

Inferno - Omniabsence Filled by His Greatness

#PER CHI AMA: Black, Liturgy, Oranssi Pazuzu, Beherit, Marduk
Uscito per la Agonia Records nel 2013, l'album 'Omniabsence Filled by His Greatness' è l'ultima fatica della band Inferno proveniente dalla Repubblica Ceca. Forte del suo maestoso sound ipnotico, si offre all'ascolto come una full immersion dolorosa in un reame nerissimo e pieno d'insidie. La sua grazia occulta lo eleva dalla massa delle band black del sottosuolo, il suono è compatto e distinto, magmatico, omogeneo e mette in risalto la lunga esperienza della band, la cui prima released risale addirittura al 1996. Le chitarre sono intense e non tutto è finalizzato alla violenza bruta, anzi, possiamo dire che una forte componente melodica genera nell'ascoltatore un contatto diretto con questo album che rapisce per intensità e allucinazione. Una componente di nera psichedelia di casa Oranssi Pazuzu domina incontrastata, anche se il suono è più radicale, oltranzista e vicino ai Beherit o ai Marduk. I brani hanno tutti una lunga durata media che con "The Firstborn From Murk" supera gli undici minuti. Quest'album flirta senza nascondersi con la nuova scuola del post black metal, quella che vuole andare oltre e dare un futuro ed una evoluzione al genere. La cosa che rimane più impressa dopo l'ascolto è l'omogeneità e la compattezza dei brani, che costituiscono l'ossatura di un album da gustare nella sua interezza, che si esalta nelle parti più lente ma che non sfigura in quelle più veloci, pur mantenendo un'ipnosi sonica costante, servendosi di una voce demoniaca carica di riverberi oltre tombali. Un lavoro decisamente ben ragionato, intelligente. Una buona ricerca melodica delle chitarre, una scrittura musicale di tutto rispetto e una sensibilità psichedelica oltre misura, permettono a questa band di toccare vertici di eccellenza introducendo gli Inferno tra le grandi formazioni di psichedelia black, dai Liturgy agli Oranssi Pazuzu. Album consigliato, da non perdere! (Bob Stoner)

(Agonia Records - 2013)
Voto: 75

http://www.facebook.com/pages/Inferno

mercoledì 22 gennaio 2014

Jurica – Distant Memories

#PER CHI AMA: jazz/ambient/experimental, Karlheinz Stockhausen, Brian Eno
Jurica (Jelic) compositrice croata con numerosi lavori alle spalle, ha partorito questo album nel 2012 sotto l'ala protettrice della Alrealon musique. La cosa che più colpisce di questo lavoro è l'affinità compositiva con il jazz d'avanguardia pur parlando di computer music ed elettronica d'ambiente. Il suono è caldo, dilatato, aperto a mille rappresentazioni, ombre ed evoluzioni degne del miglior Eno in sede sinfonica che si uniscono al noise d'ambiente. La fantasia trova spazio e si cela su di un tappeto dal gusto jazz, come se stessimo ascoltando i Weather Report o i Soft Machine risuonati dai Kraftwerk con i suoni di 'Tabula Rasa' degli Einsturzende Neubauten. Il suono è profondo pregno di avanguardia, stravagante, improbabile, non si riesce mai a capire quale sia la direzione intrapresa ed alla fine il computer risulta avere un'anima, gentile, introspettiva e delicata, un robot dalle sembianze umane. Un album che infonde calore, dedicato alle persone che vogliono un suono ricercato ed intimista, quello intellettuale e creativo, vitale, un suono che stimola la psiche con le atmosfere calde della fusion più morbida, della ambient music più esotica e l'allucinazione del dub etnico più estremo. Quasi cinquanta minuti di viaggio interstellare di sola andata sulla luna, la psichedelia funge da astronave e la nostra mente è il passeggero... riusciremo a rientrare alla base sani e salvi? (Bob Stoner)

Oiseaux-Tempête - S/t

#PER CHI AMA: Experimental, Post-Rock strumentale, Ambient
Avevo già avuto modo di entusiasmarmi su queste pagine (virtuali) per l’esordio dei transalpini Les Reveil Des Tropiques, e non appena ho appreso di questo progetto, che vede Frédéric D. Oberland e Stéphane Pigneul – rispettivamente chitarra e basso dei LRDT - collaborare col batterista Ben McConnell, mi ci sono buttato a capofitto, devo dire con aspettative molto alte. E dico subito che le aspettative non sono state affatto tradite, tutt’altro. Da quanto si apprende dalle note biografiche, i tre hanno collaborato con la fotografa e filmaker Stephane C. autrice di fotografie e video che sono stati proiettati in studio durante le registrazioni del disco e in reazione ai quali è nata la musica. Il risultato è un imprevedibile e spiazzante monolite (per un’ora e un quarto di musica) oscuro, in cui flussi post-rock convivono con oasi ambient, field recordings e sfuriate rumoriste in grado di catturare immediatamente l’ascoltatore e proiettarlo in un altro tempo e spazio. Arrivati al termine di “Opening Theme” si è già completamente avvinti e catturati da un suono che sembra quello di un temporale che si avvicina da lontano, esplode e improvvisamente cessa, lasciando tutto nuovo, tutto più pulito. La sensazione che si ricava dall’ascolto è che ognuno dei tre musicisti abbia contribuito alla creazione di quello che stava avvenendo nel momento stesso in cui tutto stava nascendo, plasmando letteralmente una materia che sotto le loro mani diveniva solida, plastica. Le chitarre, di quando in quando liriche e pulite oppure usate per erigere un muro invalicabile (“Call John Carcone"), il basso rotondo, le percussioni potenti e allo stesso modo di stampo free, tutto sembra aver concorso in egual misura alla tempesta perfetta. Il centro focale del lavoro è "Ouroboros": 18 minuti drammatici, solenni, scurissimi; una trama quasi scarnificata per la prima metà, che si fa poi minacciosa nella seconda parte. Il centro di un buco nero che tutto inghiotte. Ma tutto qui è degno di nota, da “Buy Gold – Beat Song”, pulsante di suggestioni wave, al lento incedere cinematico di “La Traversée” e “La Nuage Noir”, che ricordano una versione più rarefatta, ma non meno inquieta dei Dirty Three, fino alle percussioni free di “Kyrie Eleison” E così si giunge al termine, dopo i 12 minuti della spettrale litania ambient “L’ile”, a volerne ancora, mai sazi, di questa energia scura, potente, vitale. Nel caso non si fosse capito, una delle cose migliori uscite nel 2013, senza dubbio alcuno. (Mauro Catena)

(Sub Rosa - 2013)
Voto: 85

http://www.oiseaux-tempete.com/

Sama Dams – No Vengeance

#PER CHI AMA: Indie, Post Rock, Jeff Buckley, Elliott Smith, Radiohead
I Sama Dams sono una band di Portland dedita ad un experimental, avant, indie, noise, post rock come citano sulla loro pagina bandcamp, tanto tanto indie e tanto post rock. I canoni non convenzionali delle strutture dei brani sono supportati da una voce incantevole. Un miscuglio di tonalità tra quella di Jay Aston dei Gene Loves Jezebel, Tom Yorke dei Radiohead e Jeff Buckley. Altra nota positiva è che sono ben raffigurati da una copertina molto indicativa per il genere musicale della band. Anche musicalmente i nostri curano molto l'aspetto emozionale e minimale del suono, una sorta di White Stripes ridotti all'osso e pesantemente riflessivi, senza mai abbandonarsi alla furia rock, restando puri ad una forma intellettuale e astratta di rock lunare, ritmato, ricco di suoni e destrutturazioni. Potremmo giudicare questo loro nuovo secondo lavoro, azzardando l'ipotesi di paragonare 'No Vengeance' all'album che i Radiohead avrebbero potuto fare dopo 'The Bends', se non avessero optato per una svolta più elettronica. Comunque, i tre giovani musicisti statunitensi suonano bene e sfoderano idee originali anche se a volte un po' bizzarre, allucinate e informali. La triade di brani iniziale è assassina, sicuramente da evitare per i troppo emotivi! Progressivamente si toccano lidi che sfiorano il pop d'alto rango e quello a sfondo pastorale, con un vocalist dalle potenzialità eccezionali, una voce irrequieta e affascinante, figlia del già citato Jeff Buckley all'ennesima potenza, velate sfumature jazz rock disossate e carica da musical, suoni di batteria super indie, distorsioni secche e ruvide, il soft noise e le visioni alternative country, l'ipnosi rubata alla musica di Nick Drake ed Elliott Smith. Questo album per i fan dell'indie supera ogni aspettativa e regala emozioni a raffica! Da avere! (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 70

http://sama-dams.com/

lunedì 20 gennaio 2014

Dragonhammer - The X Experiment

#FOR FANS OF: Power Metal, Rhapsody, Timeless Miracle
Even though flowery Italian power metal tends to be scoffed at a lot by purveyors of more extreme music within metal, I actually kind of like it as a concept. Because it is referred to as "heavy" metal, some may be under the misconception that anything on the lighter spectrum of things within metal should be excluded due to the lack of the same grit or intensity metal is (apparently) SUPPOSED to have. However, I don't really have this preconception coming into music in general, in fact, I seek out the most delicate and beautiful sounding moments in music I can find most of the time. For this reason, I can listen to Rhapsody (of fire?), Balflare and Timeless Miracle among a few select others from time to time and they don't sound nearly as out of place in their poppy, saccharine splendor as they might for someone who primarily listens to black, death and heavier doom. It's also for this reason that my eventual problem with 'The X Experiment' isn't necessarily that it's too syrupy and flowery; no, my issue is actually that the album isn't quite flowery enough. The underlying structure of the album is well-crafted in its own right. The songwriting isn't anything revolutionary, but it makes sense, and that's probably a little more preferable for me when it comes to power metal. The guitars come out in a clean and clear tone and the bass is actually present, although it never comes into its own enough to be overtly recognized either way. The drums are a tad dry and clinical, but it never gets to the point where it really starts to annoy you. On the whole, this album is well put together; sure, there are a lot of references to common songwriting tropes of Italian power metal but, well, this is Italian power metal. What exactly were you expecting? This stuff is about refining and perfecting what's already there, not reinventing the wheel. The cliched nature of the album only becomes a hindrance to its quality when there's no speed and overblown energy to supplement the riffing, and Dragonhammer will only play something of a significantly faster tempo to either provide an enticing (and misleading) introduction, close out a song, or segue into a solo. The riffs frequently sound as if they're struggling to keep up with the drums and/or keyboards and often seem to have to resort to more simplistic riffing measures as a result. A good deal of the meat riffing in the verses is comprised of monotone tremolo with no extra dimensions to it. I'd like to say to say the melodically pleasing but sometimes trite and cliched guitar leads are just the result of an older guitarist comfortably playing below his skill level, but having not heard any of this band's previous albums, These songs don't make me very confident he has the chops to perform anything more intricately composed than 'The X Experiment' to begin with. The extensive focus on slower balladry and ominous, thorough intros by the keyboards into the choruses and solos makes the idea that this album is guitar-based come into question. When you stop making riffs the main feature of my metal, you're gonna start to run into some problems. Fortunately, the keyboards are handled well enough that Dragonhammer can get away with the guitars residing more in the shadows than a listener of this style might be accustomed to. They often provide much more to grasp at in terms of melodies with texture than the guitars do; just examine the beginning of "Escape" to see an example of this. The keyboards will often play the primary melody while the guitars become the rhythmic base. The reliance on the keyboards to carry the songs was a good decision to make, because the verses they craft are much more listenable and memorable than anything the guitars can put out. It's because of these keyboards that some of the choruses on 'The X Experiment' do get stuck in my head from time to time, although saying that they're the only thing making the album catchy would be giving not nearly enough credit to the vocalist. Over the time I've listened to this album, I've gone from thinking he has some good qualities to considering him outright awful to having some sort of weird fascination with his vocals to finally just considering him quirky and interesting but with a few really evident flaws. The natural rasp and vibrato that comes with his voice gives him a bit of character, but he's also really noticeably flat, especially when he goes into his higher register and lets out a wail that necessarily has to be at proper pitch to have its proper effect. Being consistently a half-step underneath the note he's trying to hit, a lot of Max Aguzzi's "big moments" on this album can fall flat as a result. The fact that I know they're supposed to be big moments is a result of good songwriting, but the choruses that get stuck in my head aren't always memorable for the right reasons. Sometimes the vocals stand out because his tone was significantly off, or perhaps it's because of his thick accent and odd lyricism. If we were being true to the pronunciation of the title in the actual song, this album would be titled 'The Sperimen Hex'. It's part of the reason Aguzzi has a somewhat adorable personality as a vocalist, but it also makes it much more difficult to take this album seriously. It's hard not to endlessly flip-flop when it comes to my enjoyment of this album. It's quite the infectious little bugger, but there's just not enough skill and personality present in the music to make it last and the honest enjoyment of the album can be somewhat deterred by how cheesy it is. If you can't get enough sappy ballads and galloping chugs in your life, you'll find 'The X Experiment' quite satisfying as it's a very professionally done album, but I can't bring myself to wholeheartedly recommend this to any group of people other than that. (RapeTheDead)

(My Kingdom Music - 2013)
Score: 50

https://www.facebook.com/dragonhammer

Ashes of Chaos – Eye

#PER CHI AMA: Progressive Avantgarde, Ihsanh, Pain of Salvation, Devin Townsend
Bella la prima prova della band riminese che esordisce con questo full lenght intitolato 'Eye', uscito per la logic(il)logic records nel 2013. La band irrompe di peso negli ambienti prog metal con buona verve, idee giustamente ricorrenti nel genere e con qualche velo di novità, tanti variegati innesti che toccano anche il funk ("Ashesh of Chaos"), tempi reggae e astratta opera cabarettistica ("Atmosfear part II") fino ad entrare in alcune parti nel black metal melodico e sinfonico. Sarebbe riduttivo accostarli solo al filone dei Dream Theater, poiché nella band coesistono anime di diversa natura e non tutto è votato al virtuosismo, anzi possiamo dire che la band punta dritto al cuore con fantasia e destrezza utilizzando una tecnica sopraffina. L'anima metallica è riconducibile ai Megadeth per pulizia nei riff più thrashy e per la velocità, oltre che per la straordinaria somiglianza vocale del cantante nelle parti aggressive, mentre quella melodica, con sonorità più malinconiche e space derivate dal prog di certi Marillion e dai gloriosi Goblin che rendono tutto oscuramente affascinante. Altro fattore notevole, la buona prova del vocalist sul pulito, un concentrato di Rush e Leprous, la cui performance amplia di molto gli orizzonti canonici verso nuove idee in stile Pain of Salvation e Leprous stessi. Comunque a far la differenza è il lato melodico/tecnico/compositivo che si eleva per epicità, teatralità, corposità e magnificenza sonora con evoluzioni tastieristiche/chitarristiche che non verranno disdegnate dagli amanti di Planet X, Transatlantic o Devin Townsend Project, ovviamente tutto da immaginare con un' attitudine molto molto più heavy. La parte più violenta di questa sfera magica è data da iniezioni di melodico black metal sulla scia di band dal carattere aperto e sperimentale sulla scia di Ihsanh (vedi l'album 'The Adversary') o Die Apokalyptischen Reiter ed evoluzioni prog/ power sulla falsa riga dei Symphony x o Balance of Power oppure le cose più recenti degli Helloween. L'album nella sua totalità è fluidissimo e variegato con disseminati momenti di calma apparente dominati da un gran cantante. Tanta e tanta carne al fuoco, preparata con perizia e professionalità e una lucida capacità compositiva che va oltre i normali standard (nel brano di chiusura dal titolo "Rinascita" la band si cimenta nel cantato in madre lingua con un risultato decisamente inferiore alla media dovuto al difficile uso dell' italiano, ma ciò non compromette la bellezza dell'intero lavoro). Tassativo non farsi scappare questo ottimo lavoro! (Bob Stoner)

(Logic(il)logic - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Ashes-of-Chaos

Alice Tambourine Lover – Star Rovers

#PER CHI AMA: PJ Harvey, Alternative, Blues
Ma quanto erano bravi gli Alix? Per gli orfani dell’ottima psych rock band bolognese, e anche per tutti coloro sempre alla ricerca di musica pulsante di vita, arriva il secondo lavoro degli Alice Tambourine Lover, duo composta da Alice Albertazzi e Gianfranco Romanelli, che degli Alix erano rispettivamente voce e basso. 'Star Rovers' è un album scarno nella strumentazione quanto ricco di suggestioni, che basa tutto su pochi, granitici elementi: una voce splendida, un solido songwriting e un suono caldo, avvolgente, pastoso. E cominciamo proprio dal suono, scarnificato, ripulito, alleggerito, ma mai “povero”. Le atmosfere elettroacustiche sostenute da eleganti chitarre bluesy e un onnipresente tamburello a scandire il tempo, rimandano spesso e volentieri, soprattutto per il modo di cantare di Alice, alla PJ Harvey meno arrabbiata e più roots, come nell’iniziale “Digging This Song”, che potrebbe essere una outtake di "To Bring You My Love", oppure nella sognante “Dreams Slip Away”. Altre volte a emergere è l’anima blues della calda slide di Romanelli, come quando sporca appena i delicati intrecci acustici della splendida “Falling Deep Inside”, impreziosita da un Ukulele che sembra un violino pizzicato, o quando punteggia “Gipsy Mind”, cantato assieme al tedesco Conny Ochs, o la sostenuta “Temptation”. Proprio in pezzi come questo, o “Between the Cup and Lips”, si avverte forse la mancanza di percussioni un po’ più “presenti” del solito tamburello, marchio distintivo del suono del duo (che d’altronde ne decreta l’amore già dal nome), ma che rischia di suonare un po’ ripetitivo. Comunque ci troviamo di fronte ad un lavoro notevole e godibilissimo, in grado di confrontarsi con nomi ben più altisonanti nel panorama internazionale. Un unico commento: sarei davvero tanto curioso di sentire Alice Albertazzi alle prese con testi in italiano. Chissà che i due non lo prendano in considerazione, in futuro. (Mauro Catena)