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domenica 17 marzo 2019

Suum - Buried Into the Grave

#PER CHI AMA: Doom, Candlemass, Saint Vitus
La scena italiana brulica in tutte le sue forme e manifestazione, ma è solo grazie ad etichette come la russa Endless Winter che le band nostrane riescono a rilasciare i loro lavori. Non siamo infatti dietro a nessuno nel mondo in alcun genere, e i romani Suum lo dimostrano con una prova convincente che avvicina il sound dell'act italico a band quali Candlemass, Solitude Aeternus o Cathedral. Fatta questa premessa, addentriamoci un pochino di più nel debut 'Buried Into the Grave', un disco che inizia con "Tower of Oblivion" che al di là della classica ritmica doom alquanto ficcante, mi colpisce per una prova vocale che mi porta addirittura agli Heroes del Silencio, un gruppo rock spagnolo degli anni '80/90. Gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, dal songwriting ineccepibile agli ottimi suoni messi in pista dal quartetto capitolino, passando attraverso una prova convincente di sette capitoli, mai troppo lunghi di durata, a dire il vero. I quasi cinque minuti di "Black Mist" mostrano più di una affinità con i Candlemass, soprattutto a livello vocale, mentre la musica lenta e sinuosa si affida ad un comparto ritmico formato da Marcas al basso, Rick alla batteria e Painkiller alla chitarra che con la sua sei corde sciorina una serie di ottimi spettrali assoli (notevole quello della title track), mentre il bravo Mark Wolf alla voce, continua ad offrire un'ottima performance, come già ci aveva abituato nei Bretus, o in passato, nelle altre innumerevoli band a cui aveva prestato la sua voce. Questo per dire che per quanto 'Buried Into the Grave' risulti a tutti gli effetti un debut album, abbiamo in realtà a che fare con musicisti alquanto navigati. Certo, sia ben chiaro che i Suum non reinventano il genere, però ne offrono la loro quanto meno personale visione e reinterpretazione, sfoggiando qua e là qualche brano davvero azzeccato. Personalmente oltre alla title track, ho apprezzato sicuramente la malinconica verve di "Last Sacrifice", che pur essendo meno tecnica rispetto alle altre, ha invece un quid melodico, che mi ha colpito più delle altre. Più monolitica ed orientata al versante doom dei primi Cathedral invece "Seeds of Decay"; poi la band ha ancora modo di offrire una traccia strumentale ("The Woods Are Waiting"), che funge più che altro da ponte d'interconnessione con l'ultima "Shadows Haunt the Night", ove le chitarre continuano a regalare riffoni old-school che ci portano indietro di quasi trent'anni, a farci capire che il doom è ancora vivo e vegeto e che forse mai morirà fintanto che nell'aria risuoneranno i riff che gli immortali Black Sabbath iniziarono a suonare ormai cinquant'anni fa e di cui ora si va in cerca solo dei degni eredi. (Francesco Scarci)