Cerca nel blog

domenica 26 ottobre 2014

The Unchaining - Ruins at Dusk

#PER CHI AMA: Black Metal atmosferico
Il secondo album della one man band friulana The Unchaining intitolato 'Ruins at Dusk' e licenziato via Behemoth Records, si adagia sulle tetre ali del black metal più misantropo ed isolazionista, proprio là dove Burzum e Centuries of Deception decantano le loro lodi, tra lande desolate, boschi e montagne innevate. Il nostro oscuro bardo esalta nell'artwork l'essenza vitale emanata dalla visione delle Dolomiti, mitiche e irraggiungibili in quanto a bellezza e si circonda di solitudine, suonando brani ossessivi e laceranti, a volte influenzati da sonorità più doom a volte tipicamente pagan occult black metal. La costruzione riflette i canoni del genere ed il verbo si arricchisce di personalità solo se valutiamo il lato espressivo della musica, poichè il limite tecnico-compositivo è evidente, anche se non pregiudica del tutto il risultato finale. Quello che lascia a volte sconcertante è l'uso di una presunta drum machine calibrata male con dei suoni nefasti che tentano di imitare i maestri ma con uno scarso approccio sonoro. Belle le intromissioni e le aperture sul versante più ambient e folk mentre l'interpretazione vocale, seppur monotona, dona un'ottima aura mistica, macabra ed ipnotica a tutti i brani. Sette tracce per circa un'ora di difficile e drammatico black metal, che farebbe del suo isolazionismo l'arma perfetta ma che in realtà deve essere ancora sviluppata e lavorata in maniera più ricercata e sofisticata. Tutto è troppo incerto e non basta essere forzatamente lo-fi per trasmettere emozioni profonde e introspettive, bisogna levigare le spigolature, lavorare sulle strutture, sui dettagli e i particolari per creare qualcosa di unico e magico, magari aggiungendo strumentazione e suoni all'altezza. L'atmosfera c'è e soddisfa molto, il lato musicale tra alti e bassi viene rimandato ai lavori futuri (da ascoltare 'Fornost Erain', uscito nel giugno 2014 via bandcamp - theunchaining.bandcamp.com/album/fornost-erain). Un gioiellino incompleto. (Bob Stoner)

giovedì 23 ottobre 2014

Ëdïëh - In Case the Winds Blow...

#PER CHI AMA: Death Doom atmosferico, primi Tiamat
La scena cinese sta crescendo a vista d'occhio e merito va senza dubbio anche alla Pest Productions, che sta sdoganando un sacco di band dell'underground locale per darle in pasto ad un pubblico più internazionale. La politica dell'etichetta di Nanchang, prevede anche la riscoperta e promozione di album usciti solo per il mercato cinese: questo è il caso di 'In Case the Winds Blow...'. Uscito nel 2012 per la Sparrow Cross, vede una luce più luminosa l'anno seguente con l'intervento della P.P.; la one man band di Pechino, guidata da Mr. T, sembra essere assai prolifica con ben nove album dal 2008 a oggi, con questo che andiamo ad ascoltare, essere il penultimo. Si tratta di un 3-track dal forte sapore death doom contaminato da qualche venatura folk. Tralasciando la minimal intro, mi siedo ad ascoltare nel buio della mia stanzetta, "The Pain is Seamless", 12 minuti di sonorità death doom sulla scia delle produzioni Solitude Productions. Suoni deprimenti, growling vocals, melodie malinconiche, atmosfere decadenti, in cui il mastermind T sembra seguire tutte le tendenze dettate dalla scena est europea, con Russia e Ucraina in testa. Di nuovo niente all'orizzonte quindi? In parte è cosi, fortunatamente tra un lamento e l'altro, il musicista dagli occhi a mandorla, ci piazza dentro un qualche bell'assolo, non certo di elevato tasso tecnico, ma che sicuramente ha una buona presa sull'ascoltatore, portandomi a rivalutare notevolmente il risultato conclusivo. Mr. T si aiuta anche utilizzando qualche bell'arpeggio bucolico e qualche passaggio ambient, come nella parte conclusiva della traccia. "I See My Shadow Amongst the Leaves" è il secondo e ultimo brano del disco, un'arrampicata di ben 23 minuti che si apre con eteree melodie dal sapore orientale. Mentalmente mi sembra di camminare nei boschi delle foreste cinesi, con la pioggia che cade, mentre in lontananza percepisco il fragore dei tuoni. Ancora doom, ma dotato di una cinetica più rock progressive che offre delicate linee di chitarra e ha il suo punto di contatto col genere estremo solo per i vocalizzi profondi del frontman. La song scorre lentamente come il tortuoso cammino del fiume Yangtze, toccando il suo punto massimo d'espressione nei suoi conclusivi nove minuti in cui l'ambient si miscela cinematicamente con sonorità sognanti che mi hanno richiamato "Gaia" dei Tiamat e di conseguenza i Pink Floyd. Non chiedetemi le ragioni di queste mie affermazioni, voi fidatevi e basta: questi ultimi minuti li ho ascoltati e riascoltati all'infinito e il risultato è sempre stato il medesimo, quello di produrmi una spettacolare pelle d'oca. Se solo Mr. T si fosse dedicato a song un po' più brevi e meno ridondanti, forse oggi starei scrivendo di un piccolo capolavoro. Tagliare per favore in futuro per rendere più fruibile una melodia a dir poco spettacolare è il primo consiglio che mi sento di dare alla band e visto che di estremo qui rimane ben poco, il suggerimento seguente è quello di modulareci vocalizzi, prendendo ad esempio proprio i Tiamat di 'Wildhoney'. Validi e da seguire. (Francesco Scarci)

martedì 21 ottobre 2014

Sarkast - Komakollektiv

#PER CHI AMA: Crust, Punk
Sporco, diretto e veloce. Così si può sintetizzare 'Komakollektiv' dei teutonici Sarkast. Una corrosiva opera di venti minuti che, già dall'artwork, lascia ben poco spazio all'immaginazione, un ritorno verso la fine degli anni '80, una dedica alla rabbia, una - giustamente - velata non curanza della produzione (anche se una grancassa con meno punta sarebbe stata nettamente più piacevole). Perchè alla fine ciò che conta è il messaggio e questo arriva chiaro e conciso già dalle prime note di "Kreislauf", quando si è investiti da una impalpabile raffica cenerea, distorsioni taglienti e ruvide vibrazioni. Il songwriting ad ogni modo non è portato ai minimi termini e si trovano dei piacevoli ma sporadici rallentamenti e dei pattern di batteria dinamici grazie all'uso del doppio pedale e blast-beat, la cui sintesi la si può ascoltare e gustare nella centrale "Farbenleere"o nell'ultima "Ohne Abschied", tracce a mio parere da considerarsi le migliori del platter, in quanto vincono con una basilare originalità. Tratti melodici, seppur infimi e di dubbio carattere, vengono sfiorati solamente in un paio di tracce, andando a ravvivare le composizioni là ove potrebbere arenarsi nelle classiche ritmiche del genere. Il lavoro nel complesso è onesto e poco pretenzioso, piacerà certamente ai cultori dell'old school nonostante qualche "influenza" moderna, come le ritmiche serrate spesso in combinazione con il sopraccitato doppio pedale o le sporadiche dissonanze. Incazzati! (Kent)

Dreams - 3Am

#PER CHI AMA: Shoegaze, Amesoeurs, Lifelover.
La risposta americana agli Alcest? Se qualcuno la cercasse, sarà solo in parte accontentato dall'EP della one man band statunitense dei Dreams. '3Am' è il lavoro di Morbid (già noto per un'altra band del roster Pest Productions, i blacksters Happy Days), la mente che si cela dietro questo progetto e che ci rifila sei song all'insegna dello shoegaze nella sua accezione però più primordiale. Lasciate quindi perdere Alcest e compagnia e focalizzate le vostre menti piuttosto sui My Bloody Valentine e forse avrete una più chiara idea di cosa propongono i nostri. Dicevamo sei tracce che partono con "Parallel Anxiety" che mette immediatamente in luce le sonorità post punk del mastermind americano. "Delta Wave Overload" sembra una song uscita da uno dei primi lavori dei The Cure, almeno fino a quando le chitarre un po' più pesantucce di Mr. M. prendono il sopravvento. L'approccio è comunque quello tipico del sound anni '80-90, con song dalle brevi durate, atmosfere eteree, suoni malinconici e vocals che potrebbero ricordarvi quelle pulitissime degli Alcest (anche loro hanno tuttavia scopiazzato dalle grandi realtà dei tempi d'oro), con Morbid accompagnato da una gentil donzella, tale Michelle Nighshade. Il disco scivola piacevolmente verso la sua breve conclusione (22 soli minuti), passando attraverso la discreta "Abduct Me", la lunga (5 minuti) "Sleepless Lullabies", e le conclusive "Swallowing Conciousness" e "3Am", pezzi che, a dire il vero, si assomigliano un po' tutti, per melodia e architettura. Però chi conosce lo shoegaze, sa perfettamente che la musica riflette questi canoni e pertanto sa già a cosa va incontro. '3Am' è un album onesto che non ha nulla da chiedere, se non un vostro gentile ascolto. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

https://pestproductions.bandcamp.com/album/3am

domenica 19 ottobre 2014

The Bastard Sons - Roads

#PER CHI AMA: Hard Rock Blues
No, non sto per scrivere una recensione sulla band italiana omettendo la divinità greca che ne completa il nome, quindi mettete pure giù i forconi e le torce perché non ho perso il senno. Questi cinque bastardi provengono dalla vecchia York (Inghilterra) e si sono formati nel 2011. 'Roads' è il loro secondo EP ed pieno zeppo di suoni al limite hard rock e metal. Un mix che sapientemente dosato può dare ottimi risultati, quindi immaginate la mia frenesia nell'accendere il fido impianto Hi-fi e aspettare i primi giri del cd. "O' Brothel where Art Thou" apre l'EP con tutta la birra che la band ha in canna, quindi ritmica veloce e riff grossi, ma con la classica equalizzazione che fa l'occhiolino al popolo hard rock sparso nel mondo. Assoli old stile e doppio pedale nei punti giusti aiutano il brano a stare sempre in alto, senza incappare in cali di tensione che permettono all'ascoltatore di cambiare traccia o andare al bancone a prendesi la sesta o settima birra. Il vocalist è aggressivo, non ha un'estensione vocale degna di nota, ma punta tutto sul timbro graffiante, a volte un pelo troppo strozzato. "Sobre la Muerte" è il brano più riuscito, ritmica meno veloce, ma tanta botta e headbanging spinto a più non posso. Gli arrangiamenti sono stati fatti ad arte, alternando momenti più distesi che poi permettono di apprezzare al meglio l'accelerazione. Gran musicisti i The Bastard Sons, dove gli axemen trascinano la composizione dei brani, ma drummer e bassista non sono da meno. La ritmica è in continua evoluzione durante tutti i brani, sempre pulita e precisa, feeling non sempre facile da trovare. In generale i suoni sono abbastanza moderni, non ripudiando però la vecchia scuola che tanto ha insegnato negli ultimi vent'anni. Peccato per "Season End" che poteva essere sviluppata maggiormente, invece che essere tagliata a poco più di un minuto di durata. Batteria e voce carichi di effetti creano grande atmosfera, un fertile terreno per le tastiere che dominano e puntano sul fattore emotivo di chi si immerge nell'ascolto. Se la band l'avesse sviluppata maggiormente con un attacco di quelli che fanno tremare i muri, probabilmente avremmo avuto la traccia perfetta. Gli inglesi ci sanno comunque fare e questo EP non lascia dubbi, inoltre fa ben sperare nel fatto che non siano ottusamente chiusi nel genere, ma si possano aprire ad altre influenze, abbracciando vecchio e nuovo. Dai ragazzi, fatto l'EP ora datevi da fare con un vero e proprio album. (Michele Montanari)

Storm Breeder - The Knave

#FOR FANS OF: Progressive/Thrash Metal, Vektor, Abysmalia
When thinking of the term ‘One-Man Band,’ it is quite rarely used to describe Thrash acts so Australia’s Storm Breeder are in very rarified air on this debut. The most apparent factor on the album is Ben Petch’s obviously skilled guitar playing on here which is the main highlight to many of these songs as the skill-set featured here is quite varied and dynamic with just about all the main songs here ranging over seven minutes, one clocking in at nine and only one at five minutes so there’s a lot of material to get through here. The progressive influences come from the incredibly varied tempo changes and dynamics that occur throughout most of the tracks here given that their extended running time allows for such experimentation and variety to happen, while also utilizing the more renown part of Progressive Metal of incorporating the chugging guitar rhythms for its main weapon of attack here which is at times fitting to the music, while others are such radical departures that they cause the music, however well-written and composed they are to stick out quite readily throughout. Despite the length being a big factor here, the music does have a tendency to remain far-too low-key and down-tempo when it really should be a lot faster so the plodding energy can have a lowered effect on the music as a whole here when it really fails to muster any kind of energy for the music on hand. Still, the majority of the tracks here being quite good does make-up for those flaws. The title track immediately sets things in motion with a slew of proficiently arranged rhythms, challenging drum-beats and various tempo changes that showcase the talent on hand while giving off a clear view of what’s to come. A huge misstep after that fine opener, ‘Blood Stained Crown’ nearly eschews thrashing paces for simple riffs, melodic dirges and an energy level that rivals your average ballad for its extended running time, barely keeping the interest in there. The massive epic ‘Scarlet Shade of Death’ is little better with a slew of light, melodic guitars, female vocals and simple riffs throughout a near-ten minute romp that occasionally features a few harder segments but really keeps the lighter sections in play until the finale when it really thrashes away with abandon to save it, but it’s still barely eight minutes into this. Thankfully, ‘March of the Damage Men’ gets back into the energetic riffing with plenty of up-tempo patterns, technically-complex arrangements and plenty of melody while still keeping this going along nicely which makes for a more enjoyable track overall. ‘Mechanised Extermination’ opts for more industrial influences in terms of cyber-sounding keyboards and pounding drumming alongside tight, marching guitars for another rather enjoyable track here. Offering a bit of a further departure from the norm, ‘Demoniacal’ offers the kind of plodding pace, lush keyboard histrionics and melancholic vibe that recalls Gothic Metal at times, a strange choice on a straight-up Thrash record and does have a love/hate relationship to it: it’s a good song as it’s written but just seems like such a left-handed turn from the rest of the material it doesn’t mesh well with anything else. The instrumental ‘A Cold Day in Hell’ serves well as a fine break in the action with its lighter pace and plodding rhythms keeping this short and to the point. Starting off with a bang, ‘Revelation’ carries the better elements in here along with quite a few rather engaging segments that switches things up nicely and ends this on a positive note. Overall, this one isn’t that bad and has some rather decent moments to make for a rather engaging if flawed listen. (Don Anelli)

(Paragon Records - 2013)
Score: 70

https://myspace.com/stormbreeder

sabato 18 ottobre 2014

Necroart - Lamma Sabactani

#PER CHI AMA: Black/Dark/Doom, Rotting Christ, Sadness, primi Anathema
A cadenza quasi di un lustro da ogni uscita (2005, 2010 e ora 2014), tornano i Necroart, che ben avevano figurato sulle pagine del Pozzo dei Dannati all'epoca della precedente release, 'The Sucidal Elite'. Quattro anni se ne sono andati: mentre io ho perso qualche capello in più e ho messo su un po' di pancetta, il sestetto pavese sembra essere in ottima forma e non risentire dei segni del tempo. 'Lamma Sabactani' è un altro album all'insegna dell'oscurità più profonda che ancora una volta miscela black, death e doom, non dimenticandosi anche di piazzare qualche sonorità etnica. Già infatti nella title track, posta stranamente in apertura, si sentono arabeschi richiami di atavica memoria "moonspelliana". I nostri avviano poi i motori e si lanciano nella loro personale descrizione dei demoni che albergano la loro anima intrisa di morte. Il sound delle chitarre è sporco cosi come l'intera produzione di questo nuovo lavoro, le cui ritmiche potrebbero essere tranquillamente definibili rock dalle tinte progressive. Se non fosse inftti per alcune sfuriate estreme e per l'utilizzo rutilante del drumming, o le vocals che si dimenano tra lo scream, il growl e il narrato, questo disco potrebbe essere etichettato in altro modo. L'atmosfera caliginosa è comunque l'elemento portante di questa release e si conferma in tutte le tracce assai decadente, non nel senso più ruffiano che talune volte acquisisce questo termine, ma le song sono tutte assai tetre e asfissianti nella loro vestigia e i richiami musicali col passato si spingono ai primi Rotting Christ, ai Sadness di 'Ames de Marbre', agli Anathema di 'Pentecost III' (ascoltate "The Demiurge" per capire anche l'utilizzo delle vocals, cosi come fatto da Darren White all'epoca), ma anche addirittura a King Diamond, almeno a livello di ambientazioni (penso ad "Agnus Dei", traccia da cui è stato estratto anche un videoclip). In qualche traccia (la già citata "The Demiurge" e "Redemption", una specie di ballad dai toni foschi e pacati) fa anche la comparsa una eterea voce femminile, che appartiene a Gaia Fior del Coro dell'Arena della mia Verona, che già aveva collaborato in passato con i nostri. La seconda parte del disco, già a partire da "Redemption", sembra muoversi su sonorità più rilassate: "Stabat Mater" sembra suonata all'interno di una chiesa per l'effetto magniloquente dato dalle sue tastiere, dall'impronta liturgica data al suo incedere e dalla performance in stile preghiera dei due vocalist. Le conferme di un approccio più blando, arrivano anche dalla spettrale "Of Ghouls Maggots and Werewolves" e dalla conclusiva malata "Cyanide and Mephisto", un sensuale e sessuale outro che chiude brillantemente 'Lamma Sabactani'. Speriamo ora di non dover attendere un altro quinquiennio prima di avere buone nuove dai Necroart, non vorrei immaginarmi con un neonato in braccio a recensire il prossimo album. (Francesco Scarci)

(Beyond Production - 2014)
Voto: 75

http://www.necroart.net/

Huldra - Black Tides

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Neurosis
Mi accingo a recensire con gioia ed entusiasmo il quarto lavoro degli Huldra. Ormai, ogni qualvolta la band statunitense se ne esce con qualcosa di nuovo, io sono sempre li, in pole position per scoprire cosa bolle in pentola in quel di Salt Lake City, per capire se i nostri saranno in grado o no di superare i maestri di sempre. E ogni volta devo ammettere che i nostri sfiorano l’impresa nel raggiungere i gods della East o della West coast. Non che abbia già sancito che questo nuovo ‘Black Tides’ non sia all’altezza, anzi ora andiamo giusto a scoprirlo meglio. Si parte con “The Eye of the Storm”, titolo di reminiscenza “neurosiana”, dotata anche di una certa alchimia sonora che richiama inevitabilmente la band di Oakland. Le linee di chitarra si rivelano infatti distorte quanto basta per non guastarne il risultato finale, i suoni tesi e oscuri, le vocals di Matt abrasive come sempre. Solo a metà brano, trovano spazio quelle atmosfere eleganti che strizzano l’occhiolino al post-rock, che già i nostri avevano acuito nel precedente album. Non male, ma dagli Huldra le mie aspettative sono ormai molto alte. Con la title track, le cose sembrano prendere una piega diversa, migliorandone notevolmente l’esito conclusivo. A fronte di un incipit all’insegna dell’ambient, la song scorre tra chitarre in tremolo picking e rabbiosi vocalizzi. Altri dodici minuti che scorrono via rapidi e decisi, alternando sonorità caleidoscopiche che si muovono tra chiari e scuri, in cui vorrei rilevare una forte componente malinconica e un bellissimo finale corale, che ci introduce a “The Sky Split Wide Open”, in realtà semplice interludio che fa da apripista ai quindici minuti di “From Out of the Maelstrom”. Il brano apre con il tamburellare leggero di Chris Garrido dietro le pelli, e una chitarra tenue e gentile che funge da sottofondo. L’eco degli Isis in questo pezzo è assai forte, ma ancor di più l’elemento post-rock dai tratti sognanti, che per più di sette minuti ci accompagna e delizia con le sue raffinate suggestioni strumentali, prima di lasciare il posto alle ondeggianti ritmiche che vedono l’intervento di un synth fine e non invasivo a livello di arrangiamenti e l’utilizzo di qualche clean vocals. A chiudere sulle ali dell'entusiamo il disco, ci pensano i quasi 17 minuti dell’infinita (anche nel titolo) “He Was Compelled To Turn Westward Out of Some Misplaced Sense of Hope”, in cui tutte le influenze del sound degli Huldra affiorano in contemporanea. Isis, Neurosis e Cult of Luna (e forse qualche sentore di The Ocean) si ritrovano infatti nei solchi di questa lunga e ben strutturata song, che viaggia lungo i binari del post-metal desolante, graffiandoci e cullandoci con i suoi suoni marziali, educati, vagheggianti e ipnotici, in cui trova posto anche lo splendido suono di un violino. Ottimo il songwriting, da elogiare la band a livello tecnico, l’unico appunto che forse mi sento di fare in questo nuovo ‘Black Tides’, è che rispetto a ‘Monuments Monolith’, la progressione musicale, nel senso d’innovazione della proposta, è quasi impercettibile. Certo che per chi è un fan della band dell’Utah, poco importa, solo che l’impressione è che questo nuovo lavoro sia una sorta di ottime, e sottolineo ottime, B-sides del vecchio cd. In definitiva, ’Black Tides’ è un gran bell’album, ma mezzo voto in meno rispetto al passato è, per diritto di cronaca, dovuto. Comunque sia, ben tornati amici! (Francesco Scarci)