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lunedì 11 febbraio 2013

My Evil Me - Ep

#PER CHI AMA: Nu Metal, Korn
Questo EP mi è arrivato tra le mani solo qualche giorno fa anche se risale addirittura al 2008, ma andiamo comunque ad ascoltarlo. Il quartetto vicentino My Evil Me nasce circa cinque anni fa ed è uscito subito con questo lavoro di buona fattura a conferma che il feeling e gli obiettivi dei componenti sono stati chiari sin da subito, seppur provenienti da passati musicali diversi. Nu metal di qualità, tantissima influenza Korn in molti risvolti, ma interpretato con una buona tecnica e approccio personale. Cinque tracce sagomate e rifinite in ogni sfaccettatura e ognuno del quartetto fa il proprio dovere. Il vocalist riprende in parte lo stile di Jonathan Davis e lo adatta alle proprie corde, sia in modalità screamo che melodico con buoni risultati. L'importante è conoscere i propri limiti e aggirarli con piccole accortezze, poi il duro lavoro farà il resto. Belle le chitarre, personalmente avrei usato una distorsione più rotonda, ma qua ognuno potrebbe dire la sua, comunque bei riff. A volte il pezzo chiama l'assolo, ma perché tediare l'ascoltatore con i soliti pacconi ultra tecnici? Approvo la scelta, anche perché così resta spazio al basso che sa mostrare di che pasta è fatto e non scompare mai nei vari pezzi, anzi, spicca in più punti a conferma delle sue qualità. Idem per la sezione ritmica che macina a dovere e trascina il resto del gruppo con la propria energia battente. La qualità dei pezzi è costante, qualche picco lo si nota in "Sweet Doing Nothing" che parte introspettiva con uno scarno arpeggio di chitarra pulita che viene spazzato via velocemente dalle distorsioni. I cambi ritmici danno una discreta dinamicità alla traccia che in circa quattro minuti presenta i My Evil Me come in carosello per l'ascoltatore. La canzone è meno rabbiosa delle altre e lascia intuire anche l'aspetto riflessivo della band che non vuole solo urlare rabbia gratuita. "Regret" risente delle influenze nu metal più famose, unendole comunque ad un cantato che trasmette emotività, mentre la parte strumentale crea l'impatto sonoro necessario senza mai essere eccessivamente pesante. Chiudo con "The Sick", breve traccia che ho apprezzato per gli arrangiamenti e il cantato che simile ad un serpente nell'ombra crea un'atmosfera di sofferenza psicologica/fisica ad hoc. Non posso che dire bravi ai My Evil Me, fossi in loro mi concentrerei maggiormente sui suoni, soprattutto delle chitarre e cercherei di dare maggior risalto alle sfumature personali che riescono a dare in alcuni punti delle canzoni. Aspetto quindi un nuovo EP o meglio ancora un album per vedere cosa hanno combinato in questi quattro anni di pausa dalla registrazione, visto che la parte live mi sembra tutt'ora attiva. (Michele Montanari)

Cidodici - Freedom Rebellion

#PER CHI AMA: Thrash, Nu metal, Crossover, Korn
Il buon Franz mi fa arrivare sulla scrivania (ormai troppo caotica) questo “Freedom Rebellion” dei bergamaschi Cidodici. Prima mi cade l’occhio sulla cover, poi però è l’adesivo con lo strillo che annuncia la presenza di Manuel Merigo (sì, è quello degli In.Si.Dia., come non li conoscete?! Rimediate subito) a incuriosirmi. Pronti, via, il disco è già lì che mi gira sul lettore; io ricevo in cambio una bella botta nei miei timpani (e anche nelle palle). I nostri attingono a un giacimento di energia e la incanalano in un prodotto che corre fluido, in cui le tracce si susseguono coerenti per struttura e atmosfere. Un album che prende spunto dal thrash, a cui sono aggiunte buone dosi di sound nu metal (tipo Korn, Machine Head e, negli inserti elettronici, Fear Factory) e qualche inserzione melodica. Il tutto è amalgamato poi in maniera abbastanza originale. Le chitarre ben suonate e gli assoli sono le cose che più risaltano e mi piacciono. Bella la prova del cantante: non ha sbavature particolari e si adatta anche a registri diversi. Ho molto apprezzato il potente e continuo lavoro del batterista; defilata e nascosta la parte di basso. Una paio di pecche si possono trovare nell’eccessiva lunghezza dell’album e nel non aver osato maggiormente su un songwriting più diversificato. Molto azzeccata la presenza di artisti ospiti: arricchiscono e danno un bel tocco al piatto. Già nell’intro melodico suona il primo, Carmelo Pipitone, chitarrista dei Marta Sui Tubi. Quindi troviamo gli assoli di Aldo Lonobile (Death SS) e Dario Beretta (Drakkar) in “A Life To Learn”, un episodio tra i più riusciti del platter. Segnalo il brano cantato in italiano “Gli Occhi Degli Altri”; l’ho trovato apprezzabile, ma anche meno quadrato rispetto agli altri (come dite? Vi pare di sentire i Linea 77? Anche a me). La band si merita una stretta di mano vigorosa per aver fatto una cover metal di “Impressioni di Settembre” (quella della Premiata Forneria Marconi), anche se non mi ha convinto del tutto l’averla mescolata ad un vecchio pezzo degli In.Si.Dia.. Certo non era una cosa facile gestire una canzone di quel tipo, ma loro ci hanno provato. Bravi Cidodici, mi permetto di consigliargli di puntare di su un prodotto ancora più personale e magari dalla durata minore. (Alberto Merlotti)

(Buil2kill Records)
Voto: 70

http://www.cidodici.net/

Drom - Hectop

#PER CHI AMA: Post Metal, Amenra, Cult of Luna, Neurosis
Tornano gli amici Drom, band originaria di Liberec (Rep. Ceca), con un album nuovo di zecca, che narra le gesta di Nestor Ivanovič Machno, anarchico e rivoluzionario ucraino che si unì alle lotte operaie, organizzando scioperi e iniziative di vario tipo dopo la Rivoluzione di Febbraio del 1917. Quattro lunghi pezzi, che si aprono con l’impronunciabile “Kruh Z Ohné a Oceli”, song che mette in chiaro subito la linea compositiva dei nostri: l’immancabile post metal che ormai da un bel po’ popola il mio lettore stereo. Ma d’altro canto, lo sapevo già, dato che li avevo apprezzati non poco con il precedente “I”. E il sound di “Hectop” non si discosta poi cosi tanto dal passato, se non per avere ingentilito la propria irruenza e aumentato le parti atmosferiche, mantenendo comunque come costante, la voce acida del frontman Charlie (in stile Amenra). Le oscure melodie continuano a costituire la matrice di fondo dei Drom, che a livello di vivacità dei suoni, mantengono sempre velocità controllate e assai cadenzate (scuola Cult of Luna), non sfociando mai in nevrotiche scariche adrenaliniche. Ascoltando “Hectop”, potrete poi cogliere le altre influenze dei nostri che a livello di suoni chiamano in causa anche i Neurosis, e questo non può che essere un punto a favore per il five pieces ceco. I pezzi, che per comodità eviterò di scrivere, data la difficoltà per la scrittura ceca (per non parlare poi della pronuncia in sede radiofonica), scivolano via ben più piacevoli che in passato, segno di un consolidato songwriting e di una maturità, che ha ormai ben poco da invidiare ai grandi act statunitensi, e che vede tra l’altro nei 13 minuti abbondanti della conclusiva “Hrob Z Ledu a Kameni”, il punto massimo di questo secondo lavoro, con un incipit affidato ad una raffinata e assai poco scontata parte acustica che si muove in territori post rock. Forse il sound del combo ceco, pecca ancora di una certa ripetitività di fondo, quando si perde negli stessi ipnotici giri di chitarra, ma il risultato conclusivo ha a dir poco del miracoloso. Che dire ancora, se non andare a visitare il loro sito bandcamp e fare vostro questo lavoro che tra l’altro esiste in sole 150 copie in 3 differenti design; e meno male che io ho già la mia… (Francesco Scarci)

Three Steps to the Ocean - Scents

PER CHI AMA: Post-Metal, Karma To Burn, Loose, Pelican
Sfornare un disco strumentale credibile non è facile: ci vuole poco a scadere nella noia, e ancor meno a ripetere gli stessi passi dei più illustri colleghi, che del post-metal senza voce, hanno fatto il loro marchio di fabbrica. Il quartetto milanese dei Three Steps to the Ocean ci prova con questo "Scents", terzo lavoro in studio dopo un EP del 2007 e un full-lenght accolto con discreto successo due anni dopo. Gli ingredienti sono quelli che già conosciamo bene, niente di nuovo: l'alternanza di rabbia e malinconia, le chitarre stratificate, le tastiere oniriche, il pathos e l'atmosfera liquida, qualche crescendo ben orchestrato e una spolverata di elettronica qua e là. Il tutto è suonato con perizia, senza inutili virtuosismi e senza un’apparente soluzione di continuità tra i brani, che scorrono uniformi e compatti come un unico viaggio di poco più di mezz'ora (scelta intelligente, la sintesi, per un genere difficile come quello strumentale). Il disco si apre con "Hyenas", tanto furiosa nell'iniziale riff di basso distorto – unico momento davvero memorabile del disco – quanto epica ed eterea nel finale. "Zilco" procede in punta di piedi per i primi due minuti e mezzo, per poi esplodere di disperazione urlata dall'unica voce del disco (è Federico Pagani dei Diskynesia). I primi dubbi arrivano con "Cobram", che dopo sei minuti un po' confusi, mi lascia con l'amara sensazione di canzone-riempitivo senza grossa personalità. "Rodleen" viene salvata da un intelligente inserto di batteria elettronica, ma il disco torna a deludere con l'ossessiva "Collider", che chiude il disco: oltre otto minuti dove i Three Steps ripetono forse una volta di troppo la ricetta "malinconia-rabbia-malinconia" già ascoltata nei venti minuti precedenti. Stimo chi affronta con coraggio e ostinazione una strada complicata come quella del post-metal strumentale. I Three Steps to the Ocean suonano bene e compongono benino, sono una realtà nostrana decisamente atipica e vanno supportati anche per la scelta di pubblicare un album col sistema del name-your-price ("Scents" si scarica dal loro sito, il prezzo lo stabilisce l'ascoltatore). Non me la sento di dire che sono noiosi, intendiamoci: il punto è che l'ascolto di "Scent" richiede davvero molta concentrazione per essere apprezzato: l'eccessiva omogeneità tra i brani rischia di trasformarlo in semplice colonna sonora di sottofondo, che dimenticherete dopo pochi minuti. (Stefano Torregrossa)

mercoledì 6 febbraio 2013

Stagnant Waters - Stagnant Waters

#PER CHI AMA: Avantgarde, Black, Industrial, Free Jazz, Shining, Abruptum, DHG
La prima cosa che colpisce – e colpisce duro, in piena faccia – al primo ascolto di questo duo franco-norvegese, è il contrasto con il nome della band: nella loro musica non c'è proprio nulla di stagnante. Tutt'altro: ascoltare gli Stagnant Waters è come essere travolti da una spirale di caos distorto che non lascia respiro, che continua a mutare forma e velocità trascinando l'ascoltatore di volta in volta in territori black metal, grind, elettronici, industrial, noise, free-jazz, progressive. Aymeric Thomas (clarinetto, batteria, elettronica) e Camille Giraudeau (chitarra, basso) tessono labirinti sonori con precisione chirurgica, sui quali l'ospite Svein Egil Hatlevik (già nei DHG di "666 International") costruisce vocals multicolore. A differenza di alcuni illustri precedenti (penso proprio ai DHG ma anche a Shining e Abruptum), gli Stagnant Waters osano di più: alla meccanica del beat digitale che scandisce una certa costruzione del brano, preferiscono il song-writing folle e centrifugo di certi lavori avant-garde di John Zorn. Il risultato è uno zapping fluidissimo di violenza distorta che assale l'ascoltatore, privandolo quasi del tutto di riferimenti stabili di tempo, genere, struttura, forma-canzone o melodia. La traccia "ССАЕР ЦНАП" (dopo l'opening "Algae", che gioca sulla tensione continua tra ruvidi segmenti death e inquietanti soundscapes) racchiude in sé il paradigma degli Stagnant Waters: 30 secondi di acidissimo riff sfociano all'improvviso in un delirio electro-death solo apparentemente senza capo né coda, dove la voce di Svein si distingue per la sua brutalità. Giusto il tempo di abituarsi al fraseggio, e ci si trova immersi in una palude jungle-jazz tra percussioni, vocalizzi di synth, clarinetti e sussurri vari. Dopo un beat di cassa techno, è l'anima post-black del trio a dominare: un lentissimo e oscuro riff cadenzato da un drumming elettronico asciuttissimo ci accompagna al termine del brano – non prima di un solo di sax che sembra uscito da "Discovolante" dei Mr. Bungle. Ancora, "Castles": un'intro orchestrale e una chiusura dissonante di piano elettrico fanno da contenitore a sfuriate di doppia cassa e cantato growl. O la lunghissima "Axolotl" (oltre i 10 minuti), in continuo equilibrio tra free-jazz e industrial, che mette alla prova l'ascoltatore con quasi due minuti finali di disturbi elettronici, arpeggiator e lamenti vocali. Intendiamoci: “Stagnant Waters” è un disco per pochi, pochissimi – un disco che molti accuseranno di essere gelidamente (de)costruito a computer, in un esercizio di follia fine a se stesso. Ma se avete orecchie e cervello sufficientemente allenati da reggere l'intero album dall'inizio alla fine, vi accorgerete che è così denso di incubi sonori da non lasciare spazio alla noia. E che, soprattutto, la visione d'insieme degli Stagnant Waters è forte e chiara: alla fine del disco, la sensazione è quella di aver percorso un labirinto delirante e malato – del quale ricorderete ben poco – ma di essere stati accompagnati per mano da qualcuno che conosceva perfettamente la strada. (Stefano Torregrossa)

Sea of Disorder - Sea of Disorder

#PER CHI AMA: Post Rock quasi strumentale
Questa release è uscita in digitale il due ottobre dello scorso anno, ma io sto impazientemente attendendo l’ufficiale rilascio sul mio adorato supporto rigido, previsto, a quanto pare, per l’imminente primavera. Ciò non mi dissuade tuttavia dal recensire il disco di questo duo austriaco, costituito da Robert Czeko (alle chitarre, basso ed effetti vari) e Christian Hubmann (batteria, chitarre, basso e tastiere), supportati da due guest star, Loïc Rossetti (dei The Ocean) alla voce e Chris Huber (Sounds of Earth tra gli altri) all’effettistica. Vista cosi, dalla formazione ci si aspetterebbe un sound veramente micidiale, infarcito di effetti e suoni cibernetici. In realtà, questo omonimo EP rappresenta quanto l’ascoltatore moderno si possa attendere da un più che discreto album di post rock: suoni rilassati e alquanto rilassanti. Il cd si apre con “Chapter I – Frozen Tide”, una song strumentale dal forte sapore malinconico, fatto di intimistiche e soffuse melodie, che attraverso un inquietante intermezzo rumoristico e di voci indistinguibili, ci conduce al secondo capitolo. Trattasi di un’altra interessante traccia, che passerà alla storia però, più per la lunghezza del suo titolo, che vado ad omettere, che per la performance musicale dei nostri, anche se alla voce, finalmente si sente il bravo frontman dei teutonici The Ocean, che vede però fare il suo debutto solo ad un minuto e mezzo dalla fine del pezzo e con una parte di cantato piuttosto stringata. Mi avvio verso l’ascolto dell’ultimo capitolo piuttosto perplesso, avvolto da un senso di frustrazione misto ad insoddisfazione. Questo perché, mi sembra che la band austriaca abbia ottime potenzialità da sfruttare, ma che alla fine quanto contenuto nei 27 minuti di questo esordio, sia solo un piccolo antipasto di quello che dovremo attenderci in futuro; ed ecco perché mi alzo da tavola un po’ con la fame. C’è da dire che “Chapter III” è una song che dura fortunatamente 13 minuti, una lunga cavalcata che vede miscelate tutte insieme le componenti portanti del sound dei Sea of Disorder: un riffing pungente (da rivedere però il suono del drumming, forse troppo finto e poco incisivo) all’inizio e alla fine (dove appare anche una componente stoner), interrotto da un’interessante parte atmosferica, cesellata dall’ottimo lavoro alle chitarre acustiche del duo Robert/Christian, e qualche guaito cavernoso del buon Loic. Il problema è che l’album stenta a decollare, sembra sempre li li per esplodere, per iniziare a raccontare una storia, ma poi il tutto non trova il giusto sbocco e viene strozzato nella bocca dello stomaco. Da qui appunto nasce la mia frustrazione. Ora attendo non solo che questo lavoro esca in formato fisico, ma che a stretto giro di boa, veda la luce anche un album nuovo di zecco, che mi faccia sussultare e non poco. Della serie “suo figlio ha le potenzialità ma non si applica”. (Francesco Scarci)

(Le Crépuscule du Soir productions)
Voto: 70

http://seaofdisorder.bandcamp.com/

martedì 5 febbraio 2013

Chaos E.T. Sexual - Ov

#PER CHI AMA: Drone, Dub, Industrial, Noise
Le intenzioni di questo trio parigino sono evidenti fin dalla strumentazione non esattamente ortodossa: due chitarre, drum machine ed effetti vari per un progetto ambizioso che intende innestare sonorità pesanti su una ritmica di matrice hip-hop per un risultato che, secondo i titolari, vorrebbe avvicinarsi a Godflesh e Neurosis. Il rischio del guazzabuglio sembra essere sempre in agguato, ma i tre francesi riescono a mantenersi in questo loro esordio (uscito fisicamente ad agosto 2012, anche se reperibile in formato digitale già dal febbraio 2012) bene eretti sul filo di un difficile equilibrio grazie a buone dosi di inventiva, classe innata e invidiabile senso della misura. I tre sembrano preferire le progressioni lente alle esplosioni improvvise, prediligendo una circolarità ipnotica che gioca sull’accumulo e la stratificazione delle due chitarre (una dedita a riff lenti, bassi e melmosi in puro stile doom, l’altra più libera di vagare a briglia sciolta), arrivando ad esprimere una notevole potenza, senza mai eccedere in pesantezza e ossessività, che si dispiega con sorprendente fruibilità in lunghe composizioni dall’effetto quasi trance, come la monolitica e ossessiva “Novaya Zemlya”. Il pezzo di apertura, “Kolmogorov Falls”, funge in questo senso da manifesto programmatico, aprendosi con una coltre di feedback e distorsioni dalle quali emergono scansioni ritmiche quasi dub, fino a trasformarsi in breve in una sorta di trip-hop saturo e metallico. Spazi larghi e dilatati che si alternano a episodi più movimentati, “Sed Non Satiata”, o ad atmosfere plumbee come nella magistrale “Brain-Stat-In-A-Box” dove, su un beat scuro e bristoliano, si staglia una guerra di chitarre che lottano in direzioni diverse: da una parte un gorgo vischioso che intrappola e rallenta i movimenti, dall’altra un lancinante tentativo di fuga verso l’alto. La conclusiva “Lyapunov” riprende i temi del pezzo di apertura, saldandosi ad esso in un senso di circolarità compiuta. Lavoro molto interessante che dovrebbe vedere a breve il suo successore, stando a quanto si apprende dalla pagina facebook dei Chaos E.T. Sexual (il nome del gruppo è formato dai – presumo – soprannomi dei tre membri), nel quale saremo curiosi di verificare eventuali evoluzioni di un suono che può incontrare qualche rischio di staticità, ma che può potenzialmente aprirsi a qualsiasi soluzione. (Mauro Catena)

lunedì 4 febbraio 2013

Handlingnoise - Handlingnoise

#PER CHI AMA: Alternative Post Rock, Lingua, Aoria, Swarm of the Sun
Cd consumato… No, non mi sto riferendo al fatto di avere ricevuto un digipack con la custodia usurata, ma di aver ascoltato cosi tante volte questo lavoro nell’ultimo mese, che devo aver realmente rovinato la superficie del suo meraviglioso disco argentato. D’altro canto, se una band arriva dalla Finlandia catalizza fin da subito la mia attenzione, perché sono certo che nel 90% dei casi, dovrò aspettarmi sicuramente qualcosa di originale ed intrigante. Sbagliato? Neanche per idea, gli Handlingnoise sfornano un cd di musica post rock progressive davvero da paura, racchiudendo nel proprio sound la stravaganza tipica del paese lappone miscelata alla grande con ondeggianti divagazioni alternative d’oltreoceano, di scuola Tooliana. L’impatto con “El Topo”, la melliflua opening track, è folgorante: atmosfere palpitanti, emozionali che scorrono lungo i suoi quasi nove minuti, con ricchi intermezzi ambient e il suo riffing post rock. Quando nel mio stereo irrompe poi “Hannibal”, il suo lento incedere in chiaro scuro, con i vocalizzi darkeggianti e la sua ipnotica danza tribale, decreto che questo è il mio disco preferito degli ultimi 30 giorni, che raggiunge per intensità, quello che fu l’esordio di un’altra band a me cara, ma ormai disciolta, gli svedesi Lingua. Magari avrei rinunciato a qualche coda rumoristica dei pezzi, per dare ancor più spazio al dolce avanzare dei sinuosi suoni degli Handlingnoise. Pezzi molto lunghi a dire il vero; lo confermano anche i nove minuti di “Son of Ugly Box”, che inizia a mettermi in crisi, che diavolo di voto dovrei dare a questa giovane band? Troppo alto, no di certo, altrimenti poi si montano la testa; più basso, no svilirei il loro amabile lavoro. Un meritevole 85 mette subito in risalto la bontà di un album, di una band che deve sfondare per forza, a costo di metterci io i soldi per dar modo a questi giovani ragazzi di farsi conoscere nel mondo, partendo dall’Italia. L’ipnotica atmosfera dei nostri, contraddistinto da un riffing assai oscuro che mi ha ricordato le linee di chitarra di 30 anni fa dei (udite udite) Simple Minds di “New Gold Dream”, mi ribaltano dalla sedia, mentre attacchi noisy (con tanto di trombe e tromboni) su un marziale tappeto ritmico, intermezzi ambient/elettronici, contribuiscono a darmi il definitivo colpo del ko. Malinconici, a tratti strazianti, ma anche un po’ impetuosi, gli Handlingnoise trovano il modo anche per essere un po’ ruffiani con “God Bless the Poor Bankers”, song dal feeling quasi vicino alle cose più dark dei Muse (bello a proposito il lavoro al basso dell’ensemble scandinavo). Con la conclusiva “Smackblossoms”, le sue sorprendenti e progressive melodie (scuola Decoryah, ma chi mai di voi se li ricorderà?) e il suo dirompente finale elettrico, conferma i nostri come mia grande sorpresa per questo inizio di 2013. Band incredibile! (Francesco Scarci)