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mercoledì 6 febbraio 2013

Stagnant Waters - Stagnant Waters

#PER CHI AMA: Avantgarde, Black, Industrial, Free Jazz, Shining, Abruptum, DHG
La prima cosa che colpisce – e colpisce duro, in piena faccia – al primo ascolto di questo duo franco-norvegese, è il contrasto con il nome della band: nella loro musica non c'è proprio nulla di stagnante. Tutt'altro: ascoltare gli Stagnant Waters è come essere travolti da una spirale di caos distorto che non lascia respiro, che continua a mutare forma e velocità trascinando l'ascoltatore di volta in volta in territori black metal, grind, elettronici, industrial, noise, free-jazz, progressive. Aymeric Thomas (clarinetto, batteria, elettronica) e Camille Giraudeau (chitarra, basso) tessono labirinti sonori con precisione chirurgica, sui quali l'ospite Svein Egil Hatlevik (già nei DHG di "666 International") costruisce vocals multicolore. A differenza di alcuni illustri precedenti (penso proprio ai DHG ma anche a Shining e Abruptum), gli Stagnant Waters osano di più: alla meccanica del beat digitale che scandisce una certa costruzione del brano, preferiscono il song-writing folle e centrifugo di certi lavori avant-garde di John Zorn. Il risultato è uno zapping fluidissimo di violenza distorta che assale l'ascoltatore, privandolo quasi del tutto di riferimenti stabili di tempo, genere, struttura, forma-canzone o melodia. La traccia "ССАЕР ЦНАП" (dopo l'opening "Algae", che gioca sulla tensione continua tra ruvidi segmenti death e inquietanti soundscapes) racchiude in sé il paradigma degli Stagnant Waters: 30 secondi di acidissimo riff sfociano all'improvviso in un delirio electro-death solo apparentemente senza capo né coda, dove la voce di Svein si distingue per la sua brutalità. Giusto il tempo di abituarsi al fraseggio, e ci si trova immersi in una palude jungle-jazz tra percussioni, vocalizzi di synth, clarinetti e sussurri vari. Dopo un beat di cassa techno, è l'anima post-black del trio a dominare: un lentissimo e oscuro riff cadenzato da un drumming elettronico asciuttissimo ci accompagna al termine del brano – non prima di un solo di sax che sembra uscito da "Discovolante" dei Mr. Bungle. Ancora, "Castles": un'intro orchestrale e una chiusura dissonante di piano elettrico fanno da contenitore a sfuriate di doppia cassa e cantato growl. O la lunghissima "Axolotl" (oltre i 10 minuti), in continuo equilibrio tra free-jazz e industrial, che mette alla prova l'ascoltatore con quasi due minuti finali di disturbi elettronici, arpeggiator e lamenti vocali. Intendiamoci: “Stagnant Waters” è un disco per pochi, pochissimi – un disco che molti accuseranno di essere gelidamente (de)costruito a computer, in un esercizio di follia fine a se stesso. Ma se avete orecchie e cervello sufficientemente allenati da reggere l'intero album dall'inizio alla fine, vi accorgerete che è così denso di incubi sonori da non lasciare spazio alla noia. E che, soprattutto, la visione d'insieme degli Stagnant Waters è forte e chiara: alla fine del disco, la sensazione è quella di aver percorso un labirinto delirante e malato – del quale ricorderete ben poco – ma di essere stati accompagnati per mano da qualcuno che conosceva perfettamente la strada. (Stefano Torregrossa)