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giovedì 21 luglio 2011

Meshuggah - Catch Thirty-Three

#PER CHI AMA: Djent, Techno Death
Avevo 16 anni, quando acquistai nell’estate del 1991, il primo Lp dei Meshuggah, “Contradictions Collapse”, album pesantemente influenzato dai primi lavori dei Metallica. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti fino a condurre il combo svedese a rappresentare una delle più importanti e influenti band in ambito estremo. Oggi ripeschiamo “Catch Thirty-Three”, che rappresenta una delle tappe che hanno portato alla consacrazione definitiva il quintetto scandinavo, anche se tuttavia questo lavoro non è uno dei più brillanti fin qui partoriti. Di primo acchito, ci si rende subito conto che per assimilare i 47 minuti che compongono l’album, servono ripetuti e ripetuti ascolti. La musica non differisce più di tanto dalle precedenti release: si rende solo più arzigogolata e schizzata, talvolta snervante al punto tale da farmi spegnere lo stereo e riprendere fiato; e ancora, in altri frangenti (quando la band si ferma, e per 5 minuti si intestardisce a ripetere gli stessi 3 accordi) risulta noiosa e prolissa. Sicuramente questo è l’album più sperimentale dei 5 ragazzi di Stoccolma: allucinati riff di chitarra in primo piano (chitarre a 8 corde, accordate bassissime - downtuning) sorreggono una batteria totalmente impazzita (ottimo come sempre l’apporto di Tomas Haake dietro le pelli, a conferma del fatto che sia uno dei migliori batteristi in circolazione), e poi i classici controtempi su controtempi tipici dei Meshuggah, con i ritmi dispari, spezzati, e il cantato urlato di Jens Kidman sopra. Concludendo, “Catch Thirty-Three” rappresenta una tappa di avvicinamento al grandissimo "Obzen"; mi aspettavo qualcosina in più... Comunque, lo sapete anche voi, i Meshuggah o si amano o si odiano, voi da che parte state? (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast)
Voto: 70
 

Confusion Gods - At the Gates of Confusion

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Il nome scelto da questa band italiana si identifica perfettamente con le sonorità che l’album stesso prova a ricercare nella sua evoluzione. Confusione… si… e di confusione ce n’è molta, ve lo posso garantire, nelle 6 tracce che andrete ad affrontare. Dal thrash sporco degli eighties inviato all’ascoltatore come un pacchetto anonimo, al rimando atipico (mai come in questo caso) della scuola black dei primi nineties, con una sosta al genere atmosferico senza diritto di cittadinanza. Lo screaming è violato alternativamente da sussurri e da un growl death che fatica a raggiungere tonalità profonde (non si possono forzare troppo le corde vocali, se non ci si è portati). Nichilistica e corrotta, la voce mi riporta agli esordi dei blasfemi Enthroned, e a mio avviso la band si doveva mantenere su questa precisa direttrice. Facendo le veci del critico stronzo che cerca il cosiddetto ‘pelo nell’uovo’ (scusate, oggi mi ci sento costretto) posso dire che i Confusion Gods hanno una buonissima conoscenza della tradizione black più semplice e statica. Per intenderci: quella delle registrazioni veloci e poco ricercate. Manca quel personalissimo valore spirituale del nord più freddo, ammesso che questa componente non sia stata evitata volontariamente nel lavoro di creazione delle canzoni. Se d’altronde manca la componente armonica dei riff ritmici, i passaggi melodici da una sezione all’altra delle tracce risultano al contrario molto ricercati. È questo che intendo con ‘confusione’ musicale.Davvero non comprendo l’obiettivo della band. Un piccolissimo bagliore di personalità emerge dalle mie cuffie quando li ascolto; nulla più. Indubbiamente è un buon album, certo, e ci sono tutti gli elementi per poter confidare in futuro in qualcosa di più ragionato. Ma per adesso, purtroppo a malincuore, le orecchie del mio spirito blackster-doom non provano che un minimo sussulto. Album adatto a chi vuole ascoltare un po’ di thrash-black senza tanti fronzoli. (Damiano Benato)

(Self/Necrotorture)
Voto: 65

Fangtooth - Fangtooth

#PER CHI AMA: Heavy Doom, Ozzy Osbourne, Tristitia, Cathedral
Se amate le tonalità heavy doom dei Cathedral o i riff del primo Ozzy potenziati all’estremo (Ozzy da solista) non potete lasciarvi scappare questo prezioso album dei Fangtooth. I pezzi sono davvero possenti, pesanti in sonorità, melodici negli assoli, a tratti epici. Ampio l'uso della batteria e dei piatti annessi (avete presente i Cathedral di “Electric Grave”?). La voce presenta diverse gradazioni di tono, ma risulta comunque pulita e omaggia la follia ironica del buon vecchio Osbourne. Al di là di tendenze musicali più estreme, e ce ne sono, il gruppo a cui più si possono rapportare i Fangtooth, giusto per dare un’indicazione di stile, sono i Tristitia di Luis Galvez. Magnifici gli esempi di chitarra doom dai toni compressi, arpeggi melodici profondi e graffianti. Magari ce li vedo solo io, ma gli innesti della southern school Down e BLS mi sembrano più che voluti. È un lavoro che combina moltissime influenze in un insieme compatto e coerente, davvero molto piacevole da ascoltare. L’andamento dei ritornelli acquista come una valenza cerimoniale, plasmata su una voce che funge da litania. Le liriche utilizzano tematiche care al doom: il rapporto dell’uomo con la divinità, le colpe e le condanne di una vita vissuta nel bene e nel male, la futura distruzione dei popoli corrotti, aspetti occulti e rimandi alla stregoneria e alla mitologia. L’ultima canzone si intitola “Cry of the Nephilim”, l’antica razza semidivina che avrebbe avuto uno stretto rapporto con l’evoluzione della razza umana. Vi cito un paio di versi della track “Martyr”, poiché riassumono in toto l’ideologia della band: “Now / I’m going to die / No fear inside my heart / The light embrace my soul”. È questo l’apogeo e il mistero della bestia Fangtooth (in senso positivo) celato in poche righe. Un gruppo da seguire obbligatoriamente nel suo evolvere. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85

http://www.myspace.com/fangtoothdoom  

Aamunkajo - Avaruuden Tyhjyydessä

#PER CHI AMA: Black Funeral Doom
Signori miei, questo è puro funeral doom. L’effetto ipnotico sui sensi è garantito. Lo stacco da una canzone all’altra, infatti, appare nel complesso innaturale: toglie all’armonia un suono che pretende essere di infinito, perennemente in attesa come il cosmo. Anche in questo album l’alternanza di voce pulita a growl-screaming, funge da collante per i lenti riff. Efficacissimo l’uso di tastiere, che più che creare una loro melodia fungono da irreale sfondo. Per quaranta minuti sarete inghiottiti in un abisso vasto e profondo, dominati dal senso spasmodico di una perdita continua. Aamunkajo ci introduce in questa desolazione con la simbolica “Seinättömässä Talossa Kanssasi”, ovvero “In a Wall-less House with You”, facendoci capire fin da subito che da questo momento in poi non esisteremo altro che noi e lui, nell’universo conosciuto. Esatto: universo ‘conosciuto’… perché il titolo dell’album ha evidentemente a che fare con il senso di vuoto buio ed eterno, inneggiando a quella solitudine cosmica tanto esplorata da Lovecraft (“Avaruuden Tyhjyydessä” significa precisamente “In the Emptiness of Space”). Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, tutte le canzoni, se non contiamo l’ultima di 8 minuti, durano attorno ai 5-6 minuti. È davvero un peccato, perché questo genere necessita di tempo, non di una toccata e fuga. Si sente l’influenza di Burzum, prevalentemente in quelle parti che alternano voce sofferente ad una gutturalità decisa. Citazioni alla lontana di “Until Death Overtakes Me”. Fantastiche anche le chitarre, che lasciano graffiare senza ritegno le loro corde, lente e dure, accompagnandoci per mano attraverso la vacuità della rovina. Il cantato è totalmente (a quanto sembra) in finlandese, lingua madre dell’autore (eh già, one man band nella più consueta tradizione funeral). Questa è realmente musica nera, senza alcun rimando ad emozioni. Doom del più buio, dove la melodia esiste solo per evitare la perpetrazione di uno slow più tetro. Per precisazione si dovrebbe parlare più di un black metal rivisto in chiave doom (è l’impossibilità di una definizione che crea la qualità). L’ultima traccia, “Graves” è la più angosciante, l’alchimia tormentata dell’intero album. Da ascoltare evocando lovecraftiane creature, ad altitudini estreme, persi tra i boschi notturni, quando le ombre che temevate da piccoli iniziano la loro processione verso oscuri antri di anfratti antichi, i cui snodi conducono a recessi insondabili. (Damiano Benato)

(Satanarsa Records)
Voto: 90
 

martedì 19 luglio 2011

Shadow Man - Dark Tales

#PER CHI AMA: Doom/Gothic, Candlemass, Solitude Aeternus
Gli Shadow Man sono una one man band formatasi ad Aachen, Germania, che ha pubblicato il primo lavoro nel 2010 (da li in poi ne sono susseguiti altri tre, da gennaio a giugno 2011, con cadenza bi/trimestrale). Come visione d’insieme, si può dire che "Dark Tales" sia un album a tratti noioso, senza alcuna emozione se non fosse per gli incipit di stampo orrorifico. Si parte con "At the Gates of Trigania”, la prima traccia puramente strumentale: l’intro è misterioso, l’ambientazione che ne esce potrebbe far parte di un film thriller; degne di nota poi possono essere la terza traccia, “I Am Not” - in cui i suoni sono duri e cadenzati (con un forte rimando ai Candlemass) con la voce che si alterna tra quella di Messiah Marcolin e dei sussurri nel buio - e “The Human Factor” – che con un inizio in pieno stile Metallica, in cui in primo piano viene messa la chitarra, prova a rifarsi poi alla tradizione doom americana. Proseguendo nell'ascolto, sebbene l’inizio prometta bene, non vi sono altre tracce che possano dare particolari emozioni. Andando per ordine i commenti sono più o meno uguali. “Anachronisma” e “Black Swan Dying” sono pressoché identiche nel loro ritmo, con l’unica differenza nella voce cantata (poco incisiva, monotona e a tratti lamentosa). Da notificare il fatto che 7 minuti poi per un brano strumentale sono esagerati, per il forte rischio di cadere nella narcolessia profonda. "Bitter Sweet” e “Still Silent” sono accomunate dal fatto di essere entrambe acustiche, mentre il cantato si rivela piatto, monotono e sofferente (addirittura sembra di sentire David Bowie cantare “depressive metal”, anziché gothic metal, con risultati terribili): il nostro "uomo oscuro" tende ad inserire un po’ di cattiveria nei brani, ma manca la convinzione di base. “Fear” e “The Inner Path” sono definitivamente orfane di ispirazione e della sopraccitata cattiveria, ingredienti base perchè una canzone che possa far parlare di sé. Se mai si fosse alla ricerca di un brano strumentale buono per un videogioco di ruolo, “Life in the Shadows” potrebbe essere l’ideale. Suoni campionati e nulla più, ma almeno diventa orecchiabile. L’apice del “depressive metal” (è la definizione che più si adatta, in quanto mi ha messo di cattivo umore) è “Eternal Winter” dove si possono ascoltare gli stessi insieme di note trovate nei brani precedenti, il che ha reso arduo l’ascolto fino in fondo (dettato più dalla speranza di trovare qualche sorpresa che mi possa ridestare dal buio in cui sono piombata, piuttosto che dal piacere di ascoltare l’album). La sorpresa di cui parlavo poco fa l’ho trovata invece in “Cold Silence”, anche se tanto distante dall’essere una traccia entusiasmante e viva. Se l'uomo nero provasse a modificare un po’ la voce, magari tentando altre tonalità, il commento potrebbe anche essere diverso. Fortunatamente tutto il lavoro si conclude con una nota positiva: non per il fatto che “Zar’rah” si distingua dalle altre canzoni perché diversa, migliore o ricca di sonorità, ma perché dura pochissimo (rispetto ai 6 minuti di lunghezza media, ne dura 2,45): un collage di riff di chitarra elettrica (ovviamente identici gli uni con gli altri) messi assieme con la saliva, che non convince nemmeno un passante casuale. Concludo dicendo che questo cd andrà nell’angolo buio della scrivania, quasi nel dimenticatoio, con la richiesta che il quinto album (che magari starà producendo ora) possa avvalersi della collaborazione di qualche musicista di talento, in modo da diventare di maggior piacevole ascolto. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 55
 

Mortal Form - Taste the Blood

#PER CHI AMA: Death, Arch Enemy, Death, Kreator, Over Kill
Sono un po’ perplesso perché di solito i ragazzi della My Kingdom Music difficilmente sbagliano un colpo nello scegliere le band da inserire nel proprio roster eppure non riesco ancora a capire, dopo vari ascolti, cosa abbiano trovato di cosi interessante negli olandesi Mortal Form. Con questo non voglio dire che il combo dei Paesi Bassi non sia valido, ma di band che suonano questo genere (e forse meglio), su cui puntare in Italia, ce ne sono una infinità, e mi viene da pensare ad esempio ai napoletani Symbolyc. Veniamo comunque al quintetto di Arnhem/Duiven: la band propone un suono dal primo impatto decisamente roccioso, che non può che riportarci indietro nel tempo di quasi vent’anni, per quel suo stile vicino agli Over Kill o al sound ruvido di stampo teutonico. Il thrash e il death metal delle ritmiche si fondono con gli influssi dell’heavy classico, riscontrabili negli assoli di chiara scuola maideniana, ad opera dei 2 axemen Vince e Teun. Il suono si presenta bello solido, compatto, una sorta di tanker schiaccia sassi, brutale e melodico al tempo stesso che però, a causa della sua scarsa originalità, ci porta a spasso nel mondo, riecheggiando nelle nostre menti gli act storici che hanno reso grande questo genere: Kreator, Morbid Angel, Death e In Flames, si ritrovano infatti nelle note di questo “Taste the Blood”, album che per forza di cose, non può avere grandi pretese, se non piacere agli amanti di questo genere di sonorità, peraltro andate evolvendosi, lungo gli anni. Growling vocals e blast beat completano il quadro di un disco dal suono non troppo ricercato, ma bello diretto e adrenalinico; se è questo quello che cercate, l’album dei Mortal Form, può fare al caso vostro, altrimenti è meglio girarci alla larga, rischiereste di stancarvi alla velocità della luce… (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 65
 

domenica 17 luglio 2011

Eternal Tragedy - Forever

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse, Bloodbath
Gli Eternal Tragedy sono il progetto di Stefania Ponzilacqua, virtuosa chitarrista che con l’aiuto di Enrico Francescato, brutal vocalist dei Soulpit ed Emilio Dattolo, ultratecnico bassista degli Illogistic, ha concepito questo cd nel 2006, rilasciato poi nel 2008 via GEMA. Mettiamo subito in chiaro che il sound proposto non è decisamente di facile approccio: si tratta infatti di un death bello incazzoso, in pieno stile americano, “floridiano” per l’esattezza (sarà un caso ma Stefania vive in Florida), ricco di cambi tempo, stop’n go, killer riffs e meravigliosi assoli. Premesso che amo questo genere di musica, “Forever” si presenta invece difficile da digerire, forse talvolta troppo pretenzioso o in alcuni passaggi troppo prolisso, con una serie di virtuosismi che non fanno altro che annoiare l’ascoltatore. Il cd, nei suoi lunghi otto pezzi, risulta davvero troppo granitico nel suo incedere, grazie alla devastante sezione ritmica e un po’ povero di aperture melodiche, che lo fa quindi di sovente scadere nel già sentito. Ciò che poi più non mi piace di questo cd è il suo suono, molto old style, abbastanza grezzo, che non consente di godere di quei particolari, che solo suoni puri e cristallini, sono in grado di trasmettere in album di questo tipo. La matrice di fondo è troppo impastata, talvolta confusa, la tecnica e l’estro di Emilio e Stefania per quanto ineccepibili, non sono sufficienti a far decollare l’album che si perde spesso in inutili scorribande brutali. Devo poi ammettere di non gradire molto il modo di cantare di Enrico, troppo piatto e convenzionale: per carità stiamo parlando di death metal e non sono richiesti certo vocalizzi raffinati, però se ripenso al buon vecchio Chuck Schuldiner, lui di classe sopraffina ne aveva da vendere. Il lavoro sicuramente potrà piacere agli amanti del techno death, ma sono convinto, conoscendo le potenzialità della sua leader, che gli Eternal Tragedy, siano in grado di fare molto di più, migliorando da subito la produzione (curandola decisamente più nei minimi dettagli) e rendendo il sound meno inquadrato in schemi predefiniti. Della serie “son bravi ma non si applicano a sufficienza”. (Francesco Scarci)

(GEMA)
Voto: 65

Ava Inferi - Onyx

#PER CHI AMA: Gothic Metal, The 3rd and the Mortal, Aenima
A passo lento, attraverso un cammino in salita, scandito dalla pubblicazione di quattro album, gli Ava Inferi, hanno infine raggiunto la vetta. Sin dall’esordio “Burdens” del 2006, il duo composto dalla portoghese Carmen Susana Simões e dal norvegese Rune Eriksen aveva dato prova di possedere un gusto insolito e mai banale per la melodia, eppure nelle prime produzioni in studio stentavano ad emergere slanci creativi che fossero di concreto risalto, tant’è che i primi due lavori risultano tutt’ora un po’ ostici ed appesantiti da un’eccessiva staticità. Se con il terzo album “Blood of Bacchus” le timide intuizioni degli esordi cominciavano finalmente ad aprirsi ad una scrittura più consapevole ed emozionante, è solo con “Onyx” che si può parlare di un vero e proprio rigoglio artistico. “Onyx” ha il profumo di un giglio in piena fioritura, il colore intenso di un frutto maturo, la grazia di forme femminee scolpite nel marmo lucente. Le note attingono sempre dalle suggestioni malinconiche del gothic metal, ma gli Ava Inferi dimostrano di non avere maestri ispiratori e di non cogliere nulla dalla “tradizione”, offrendo invece una variante tutt’altro che canonica del genere. Il contributo di Carmen è fondamentale per la riuscita dell’opera, semplicemente perché possiede un’ugola divina, adatta a confrontarsi con qualsiasi cambiamento d’umore dei brani, mentre l’apporto di Rune si rivela di immenso spessore, soprattutto dopo ripetuti ascolti, confermando che la struttura ed il valore dell’album non si appoggiano solamente sulle doti canore della compagna. E’ curioso poter ammirare la versatilità di Rune come compositore, un tempo abilissimo ad immortalare riff crudi e dissonanti per i Mayhem ed oggi ugualmente a suo agio nel costruire intricati e imponenti passaggi di chitarre che tratteggiano atmosfere continuamente mutevoli, da quelle tetre e solenni della splendida “The Living End” a quelle più vitali ed energiche di “Majesty”. Vanno assolutamente citate anche “The Heathen Island”, che ci regala un assolo di ammirevole fattura, la spettrale traccia d’apertura che dà il titolo all’album e “By Candlelight & Mirrors”, che stupisce per il registro improvvisamente solare e leggiadro, quasi a testimoniare che gli Ava Inferi riescono a muoversi con abilità ed eleganza su qualsiasi terreno. Impeccabili. (Roberto Alba)

(Season of Mist)
Voto: 90