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martedì 13 novembre 2012

Shiftlight - Distance

#PER CHI AMA: Post/Death Doom, Isis, Saturnus
Dopo ben cinque demo, di cui il primo uscito ormai nel lontano 2000, finalmente gli svedesi Shiftlight vedono la luce e giungono al tanto agognato album di debutto. “Distance” è un lavoro di sette brani per una durata di 37 minuti, una mezz’ora abbondante di suoni all’insegna di un death doom assai ispirato, perché contaminato da sonorità post. Magnetico. Il suo risultato l’ho raggiunge quasi istantaneamente, colpendomi diritto al cuore con la miscela di suoni rabbiosi e pacati di “Blinded”, che mi conquistano, e mi inducono poi alla riflessione con “End”, ed al suo passo ultra ritmato, alle vocals nerborute del bravo Mattias, ma soprattutto alle melodie di fondo create dalle pesanti ed ipnotiche chitarre, in taluni frangenti addirittura travolgenti e trasudanti un pesantissimo groove. Se proprio vogliamo pensare ad un nome, potremo immaginare una creatura mitologica creata dalla fusione di Isis, Tool e Saturnus. “Endeavour”, come da copione, dà ancora risalto al fraseggio chitarristico dell’act scandinavo, con un arrangiamento che conquista per la semplicità con cui scorre, poi per la comparsa di un chorus pulito e per concludere con un’ambientazione in pieno stile post metal, seguendo le orme dei maestri di Boston. Un arpeggio di chitarra accompagnato da basso/piatti di sottofondo, apre “Black River”, song che percorre ancora le orme dei maestri statunitensi, cosi come sarà per il resto del lavoro, in cui vorrei elogiare l’intimistico break centrale di “Subways” inserito in uno scosceso ed irto saliscendi di chitarre e vocals gutturali. “Wound” si apre con un bel basso, e prosegue con un giro di chitarra abbastanza “tooliano”. A chiudere questo sorprendente lavoro, ci pensa la più tranquilla “Mountain Under the Sea”, che in sottofondo esibisce il folkloristico suono della ghironda, quello strumento medievale a corde azionate da una manovella, il cui feeling inneggia qui invece ai danesi Saturnus. “Distance” è un lavoro che ha saputo rapire la mia attenzione per le emozioni che trasmette e le atmosfere che è in grado di creare, quindi non posso far altro che consigliarvelo a scatola chiusa. New sensation from Sweden… (Francesco Scarci)


(Kamarillo) 
Voto: 75


domenica 11 novembre 2012

Abbas Taeter - Oblio

#PER CHI AMA: Black Death, Rotting Christ
Torna il side project di Mancan degli Ecnephias, dopo ben quattro anni di silenzio da quell’“Infernalia”, che ottenne non pochi consensi dalla critica, ma non troppa fortuna in termini di risposta del pubblico. Speriamo in questa nuova opera, in cui non solo gli addetti ai lavoro, ma anche i fan, possano dare una chance all’ottimo musicista lucano. Veniamo comunque ai pezzi di questa seconda release, che tra l’altro racchiude anche “Vetusta Abbazia” e “Obedimus”, già viste nel debut album. Un’oscura intro recitata, apre “Oblio”, poi una raffinata chitarra e l’inconfondibile vocalizzo di Mancan attaccano, decretando l’inizio di questo viaggio esoterico-spirituale. Maestosi, sinfonici, epici ed eleganti, ma anche violenti, estremi e malvagi: questi gli aggettivi che potrebbero sintetizzare tranquillamente i contenuti di “Oblio”. Immediatamente rimango conquistato dalla miscela feroce tra death/black e musica classica, il tutto cantato in lingua italiana, che mi fa propendere per un pollice alto, per la scelta amletica che da tempo assilla il bravo vocalist italiano. “Preda” è una song oscura, che vede nelle sue accelerazioni ed in spettrali giri di chitarra, i suo punti di forza, con la voce roca di Mancan a ringhiare nel microfono. Di sicuro, si noterà una maggiore propensione da parte del musicista lucano a forzare a livello ritmico, rispetto alla sua band madre, orientata ormai verso lidi più gotici; tenete comunque presente, che una larga componente melodica è ben presente anche nei solchi di “Oblio”, grazie alla elevata presenza di inserti di pianoforte. La costituente occult doom emerge con “Rito dei Fuochi Pagani”, soprattutto a livello delle liriche che mostrano, come se ce ne fosse stato bisogno, l’interesse profondo del mastermind di Potenza, in tematiche occulte. “Dannati dall’Oblio” è un bell’esempio di black death furente, che vede comunque sempre emergere nel suo fluente incedere, una sostanziosa parte sinfonica (di scuola Limbonic Art) ma pure, ed è ciò che più riesce a scompormi maggiormente, drappeggi di chitarra di stampo classic rock. Forse ai più questa cosa sfugge, troppo spesso focalizzati sulla componente estrema di questa release, ma in realtà, devo dire che le partiture rockeggianti saranno alla fine, ciò che rendono ancor più suggestivo questo lavoro, ancor più dei chorus, che si ritrovano anche negli Ecnephias (e che in questo li rende forse troppo simili), e che qui ritroviamo ad esempio nel breve intermezzo, “Antico Sentiero”. “Sanctus in Tenebris” è una celebrazione delle tenebre e dell’oscurità, tematica da sempre estremamente cara all’artista della Basilicata, e che ancora una volta pongono in risalto l’epicità di “Oblio”, frammista alla furia devastante delle sue ritmiche; ma occhio perché anche qui, il black death dirompente, viene spazzato via ancora una volta da divagazioni, che definirei occult rock. Un altro intermezzo acustico e ci si avvia lentamente verso la conclusione, con un organetto che apre “La Notte del Culto” e ne popola, a mo’ di incubo, anche il suo incedere. L’alone mistico dei Rotting Christ (quelli primordiali), da sempre fonte di ispirazione dei nostri, aleggia leggero anche nelle note di “Oblio”. “Vitriol”, che vede la presenza dietro le tastiere di Sicarius, è la song che alla fine prediligo dell’album: spettrale, violenta e maestosa, strano si trovi in chiusura, ma questo testimonia comunque che l’album mantiene una qualità medio alta per tutta la sua durata. Grazie Mancan, portatore delle tenebre. Ottimo ritorno. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 80 

The Gathering - Downfall

#PER CHI AMA: Death/Doom, Celtic Frost
Attenzione! Prima di procedere nella lettura di questa recensione, rispondete alle seguenti domande: siete dei fan sfegatati dei primissimi lavori dei “The Gathering”? di quelli che se vi capita di ascoltare il loro “Always...” vi coglie un attacco di nostalgia canaglia? Pensate che Anneke van Giersbergen (sospiro) come unica voce li abbia rammolliti? Non vedete di buon occhio il mitico “Mandylion” (a me piaceva da matti, nostalgia canaglia) e ancora meno “How to Measure a Planet”? Se avete risposto “sì” ad almeno due di queste domande, potete continuare nella lettura. Questo è un prodotto dedicato agli ammiratori senza remore del gruppo. Altrimenti potete tranquillamente passare oltre che non mi offendo... vabbé un po’ sì. Vi sembra di riconoscere questo album? Avete ragione, infatti si tratta di un ri-edizione di “The Falling - The Early Years”, una loro raccolta del 2001. La Vic Records la ri-pubblica cambiando scaletta e aggiungendo un sacco di extra, alcuni dei quali davvero rari. Le tracce presenti si rifanno ai tempi in cui i nostri producevano un oscuro doom/death metal e le voci femminili erano solo “backing vocals”. Tracce in cui esce il desiderio di creare atmosfere rarefatte ed evocative di sensazioni oscure. Il disco si apre con le prime sei tracce che derivano da un promo del 1992 di “Almost a Dance”; scopro che qui il cantante non è il Niels Duffheus della versione finale dell’album, ma il growler originale Bart Smits. Per me è una bella sorpresa, non ho un gran ammirazione per Niels e forse Bart, sebbene pure lui non fosse particolarmente adatto al desiderio di quei tempi di cambiamento della band, avrebbe dato a “Almost a Dance” un’anima diversa, chissà. Va be’, dicevamo? Ah già, si continua poi con canzoni presenti nella prima edizione del ciddì. Derivano dai demo “An Imaginary Symphony” (1990), “Moonlight Archer” (1991) e da altri inediti. Spicca la cover di “Dethroned Emperor” dei Celtic Frost, ulteriore indizio sulle loro origini. Si prosegue quindi con una serie di registrazioni di performance dal vivo. Una parola sulla qualità del suono: visto quando sono stati registrate, non è per niente male. Cosa ci rimane alla fine di questa cavalcata nei primi vagiti dei “The Gathering”? A me viene naturale confrontare questa raccolta con ciò che lo ha seguito. Il risultato è un sensazione un po’ divertita mista ad una nostalgia distaccata. A coloro che han sostenuto il gruppo fin dagli esordi, e magari poi abbandonato, questa riedizione regalerà sicuramente emozioni più forti. (Alberto Merlotti)

(Vic Records)
Voto 60 

The Reset - Progenitor

#PER CHI AMA: Djent, Progressive Death, Tesseract, Meshuggah
Un grazie a Simone Saccheri (chitarrista degli (Echo)) per avermi suggerito questa giovane band proveniente da Orlando (Florida), autrice di un buon EP d’esordio, capace di miscelare ritmiche brutal death con le sonorità polifoniche del djent (scuola Meshuggah), con spaventosi cambi di tempo, il tutto eseguito in poco più di 12 minuti di tempesta elettrica. Il lavoro si apre con la strumentale “Materia” che permette immediatamente di identificare il genere proposto dall’act statunitense; la song cede il passo, dopo un paio di minuti di bombardamento a tappeto, stemperato solo da ipnotiche keys, alla ancor più ferale “Relativity” che con le sue chitarre ribassate, il growling oscuro di Steven McCorry, e il suo dilaniante incedere psicotico e al contempo efferato (grazie ad una ritimica mega serrata), ha lo stesso effetto di una pesante bastonata dietro alle ginocchia, mi ha piegato in due. La terza “Satcitananda” apre come il ruggito di un leone, ma con la sorpresa di clean vocals (stile Tesseract), con le chitarre che persistono nel loro gioco ubriacante di fraseggio e passaggio da una parte all’altra delle mie cuffie, portandomi al più totale disorientamento. Ancora l’effetto che percepisco al termine di questa song è quella di essere stato incappucciato, fatto girare decine di volte su me stesso, qualche bastonata qua e la, e poi, tolto il cappuccio, mi ritrovo collassato sul pavimento. La conclusiva “Imperium” continua su questo binario, ma sembra la meno convinta del lotto (anche in fatto di vocals non del tutto convincenti), comunque apprezzabile il lavoro in fase tecnico-compositiva, che conferma che per proporre un simile genere, sia necessario avere le palle quadrate. Veloci ma essenziali. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Decapitated - Organic Hallucinosis

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Della serie, riscopriamo vecchi album del passato, mi domando se ci sia qualcun altro che mi voglia prendere a scarpate nel culo quest'oggi? Dopo i Krisiun ecco recensire un’altra bastonata per i miei oramai delicati timpani: trattasi questa volta dei polacchi Decapitated e del loro album edito dall’Earache, “Organic Hallucinosis”: poco più di mezz’ora di furia omicida miscelata alla perfezione con le ritmiche sincopate tipiche dei maestri Meshuggah e di altre trovate strampalate che potrebbero accostare la band ad altri mostri sacri quali Cephalic Carnage o Cryptopsy. L’evoluzione musicale iniziata in “Nihility”, prosegue in questo capitolo, il quarto, proiettando la band, guidata dal nuovo cantante Covan (ex Atrophia Red Sun), ad essere una delle più belle realtà del metal estremo. Il quartetto polacco continua a crescere (e le release successive l'hanno poi dimostrato) e si sente: sono infatti abili nel miscelare la brutalità del proprio sound con divagazioni avantgarde e i tipici stop’n go dei master svedesi. Il tutto poi, fatto con un’invidiabile tecnica individuale, nonostante la giovane età dei nostri, rende il lavoro ancora più appetibile. Buona la performance vocale di Covan che, prendendo le distanze dai gorgheggi tipici del genere, interpreta i brani con assoluta personalità. Assoli al fulmicotone, velocità al limite dell’umano, melodie dissonanti, furenti blast beat, accelerazioni mozzafiato, elucubrazioni chitarristiche e atmosfere snervanti, accompagnate da una equilibrata produzione, completano ulteriormente, uno dei lavori più interessanti tra quelli usciti nel 2006. Sebbene non ci troviamo di fronte ad un capolavoro che brilli per originalità, devo ammettere che la proposta dei nostri è risultata davvero spiazzante per il sottoscritto; bravi, ma ne sono certo, c’è ancora spazio per migliorarsi... (Francesco Scarci)

(Earache Records) 
Voto: 75

Krisiun - AssassiNation

#PER CHI AMA: Brutal Death
Che sonora mazzata nei denti ragazzi... ecco in poche parole cosa racchiude l'album dei brasileiros Krisiun, il sesto della loro esplosiva discografia: 46 minuti di ferocia inaudita, decisa a perforare i nostri sempre resistenti (ancora per poco) timpani. Il combo sud americano non si allontana di molto dal proprio tipico stile techno-brutal-death, che oramai contraddistingue la band, fin dal lontano debutto del 1993: un sound compatto, solido e rovente, suonato costantemente con un’elevata perizia tecnica. Disumano è il lavoro alla ritmica, con una batteria rutilante, precisa e variegata a costruire atmosfere annichilenti e claustrofobiche; le debordanti ritmiche, ricche di cambi di tempo, constano di selvagge chitarre laceranti, efficaci nel creare un muro sonoro insormontabile, che si alternano, con imprevedibile naturalezza, a momenti d’insana tranquillità, quasi a preannunciare l’arrivo della tempesta, fatta d’impeccabili assoli che giocano molto spesso, a rincorrersi l’un con l’altro, nell’arco dei vari brani. Musicalmente i Krisiun sono accostabili agli Hate Eternal, anche se gli ultimi lavori del combo statunitense non mi avevano convinto completamente, per una certa immobilità di fondo; al contrario, l’ascolto di “AssassiNation”, si è rivelato davvero entusiasmante. L’assalto sonoro profuso dal platter, targato Century Media, e coadiuvato dall’eccellente produzione ad opera di Andy Classen, consacra definitivamente il trio, guidato dai brutali grugniti di Alex Camargo, quale migliore band nel genere. Consigliatissimi agli amanti del genere. Devastanti... (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 80

Australasia - Sin4tr4

#PER CHI AMA: Sonorità Post
Dannazione, solo 22 minuti! Io ne volevo molto di più… Signori, vi presento gli italiani Australasia, ennesima dimostrazione di come il nostro bel paese, pur regredendo sempre più da un punto di vista economica, stia invece facendo balzi da gigante in territori musicali/artistici, tanto da rischiare di scalzare i godz mondiali. Gli Australasia ci presentano la loro personale interpretazione di post rock, dalle fosche tinte autunnali si, ma anche contraddistinto da un più elettrico e corrosivo uso delle chitarre. “Antenna” funge quasi da intro (ma intro non è) del lavoro e non fa altro che palesare l’amore del duo per l’entità post rock mondiali, penso soprattutto a God is an Astronaut ed Explosions in the Sky, certo che poi, quando la ritmica inizia a pestare sul serio deduco, che con il duo italico, si va ben oltre al post rock, nella normale accezione della definizione. Quando “Spine” attacca infatti, e ricompare il feroce fragore dei blast beat, rimango attonito ed affascinato dinnanzi siffatta espressione musicale. Sicuramente nel sound dei nostri compaiono le classiche stemperanti aperture ariose del genere “gentile”, ma accanto a queste si collocano pure, roboanti cavalcate dall’incedere devastante. E forse proprio in questo imprevedibile connubio tra forza e delicatezza, tra mostruosi riffing ed inserti elettronici, parti atmosferiche e melodie soffuse, che si nasconde il punto di forza dei nostri. “Apnea” inizia in modo più sinuoso, rilassato e finalmente si vede la comparsa di un angelo alla voce, mentre la musica assume connotati che esulano completamente dal metal e i suoni pian piano avvinghiano le mie terminazioni nervose, provocando un esaltante rilascio di endorfine, ma la song dura troppo poco per poterne assaporare tutte le sue sfaccettature. Va di scena (e scusate il gioco di parole) “Scenario”, song che si apre in modo canonico, per poi lasciar posto all’ennesima scarica al limite del post black (chi ha citato Deafheven?) contaminato dallo shoegaze. Cavolo anche questa dura troppo poco, che nervoso. Diamine, qualche brano più lungo non si poteva fare? Va beh, rassegnato di fronte a questa evidenza, mi lancio all’ascolto della seconda metà di questo EP: “Satellite”, “Retina” e “Fragile” completano questa release di sette pezzi, contraddistinte dalle melodie sonnacchiose della prima traccia, dalla robusta sezione ritmica della seconda contrappuntata da bei giri di chitarra ed infine dal pomposo e seducente sound dell’ultima traccia. Beh che dire, se non che anche oggi abbiamo scoperto una nuova interessante realtà nostrana, che auspico possa esplodere molto presto, grazie anche al vostro supporto, e possa dare del filo da torcere a tutte le realtà statunitensi, che ancora per poco primeggeranno nel panorama mondiale. “Sin4tr4”, una fantastica scoperta… (Francesco Scarci)

(Golden Morning Sounds)
Voto: 80

Frozen Ocean - A Perfect Solitude

#PER CHI AMA: Ambient/Post Rock
Ritorna sulle pagine del Pozzo, la one man band moscovita dei Frozen Ocean, sempre guidata dal factotum Vaarwel. La band, che avevamo incontrato in occasione dei due interessantissimi lavori che precedono questo “A Perfect Solitude”, esce con quello che probabilmente rappresenta il perfetto connubio tra “Vestigial Existence” e “Likegyldig Raseri”, però in una veste drasticamente più soft. La nuova release infatti risulta maggiormente orientata verso lidi ambient post rock, con ampio spazio concesso alla componente strumentale, con ben cinque song prive di vocals. Dopo la malinconica intro affidata a “Broken Window”, incontriamo “Somewhere Clouds Debark” e le nuvole cariche di pioggia iniziano ad incombere sulle nostre teste. Ecco subito trasparire quindi l’immagine autunnale legata al freddo, alle intemperie e quant’alto, con un’atmosfera drammatica e triste, che permea, fin dagli albori, il sound dei Frozen Ocean. Le chitarre drappeggiano decadenti tonalità grigio fumo, dall’incedere lento e oscuro, mentre le drammatiche clean vocals, recitano su un tappeto di ispiratissime tastiere. La terza “A Sunflower on the Prison Backyard” è una traccia di 13 minuti, di cui la metà, spesa in tocchi eterei di synth e la seconda metà che presenta invece la stessa plettrata alienante per i successivi sette minuti, con un riff melodico che fortunatamente si sovrappone, nell’ultimo spezzone di brano. Straniante ma deludente. “Mare Imbrium” ci avvolge ancora con delle tetre ed ipnotiche melodie, create dalle sue ammalianti tastiere, coadiuvate, in un secondo momento, anche da uno splendido giro di chitarra e dal freddo suono della drum machine. Poco importa però, la traccia, in piena tradizione burzumiana, fluttua nell’etere, catturando i miei sensi. Con “Camomiles” mi aspettavo qualcosa di sonnacchioso, invece si sfocia nel noise, con suoni non proprio cosi facili da identificare, tanto meno da immagazzinare; questa tematica sarà ripresa anche nella conclusiva “Cleavage and Emission”. “Unavailing Steps on Perpetual” mostra infine il lato più brutale dei Frozen Ocean, con un epico attacco blackish (e un quasi un accenno di screaming vocals), e delle atmosfere darkeggianti che mi hanno ricordato i finlandesi Throes of Dawn. Insomma, “A Perfect Solitude” è un lavoro contraddistinto da luci ed ombre, in cui la componente ambient/noise, mi ha lasciato un po’ con l’amaro in bocca, mentre le song cantate e quelle più ispirate, mi hanno davvero entusiasmato. Da rivedere col prossimo album, in cui sinceramente nutrirò molte più aspettative. (Francesco Scarci)

(Wolfsgrimm Records)
Voto: 75