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lunedì 27 agosto 2018

Sólstafir - Masterpiece of Bitterness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Experimental Black Metal
Nell'ultradinamica e quintessenziale epica "I Myself the Visionary Head" (al termine della quale la band deve essere stata senz'altro frustrata, appagata e sfinita almeno quanto i Pink Floyd al termine di "Echoes") si riassumono i temi della rivoluzionaria (white) diffrazione (black) metal operata definitivamente dalla band islandese. Abbrivio ferino, pestaggio veloce e basso incalzante, vocalismi da plantigrado affamato. Prosieguo elementale. Terra: il drumming concreto e tagliente di Pálmason; acqua: il tumultuoso basso di Svabbi Austmann, bollenti vapori sotterranei, gelide creste ondose che erodono la costa; aria, il guitar riffing nebuloso di Pjuddi Sæþórsson; le lingue di fuoco Addi Tryggvason, sempre meno a suo agio con lo screaming. E poi, la dirompente ma obsoleta chiusura speed/tk-tk-tk. Dall'altra parte, la modulare e consapevole "Ritual of Fire", prossima e lontana da certo teutonic-wave. Le due epiche sono i fuochi nodali da cui scaturirà l'intera successiva produzione della band, senza dimenticare i rigurgiti black/lagunari di "Bloodsoaked Velvet" e l'epic thrash atmosferico (e amplissimo) di "Ghosts of Light" e "Nature Strutter", che completano mirabilmente questo straordinario e prodromico album. (Alberto Calorosi)

(Spikefarm Records - 2005)
Voto: 80

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