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martedì 7 aprile 2015

Corbeaux - Hit the Head

#PER CHI AMA: Post-rock/Alternative, Cult of Luna, Pelican, The Ocean 
Primo: il disco è masterizzato dal grande Magnus Lindberg, l’uomo dietro i Cult of Luna – e si sente. Secondo: il packaging è piacevole e curato, pur mancando di un booklet. Terzo: è post-rock strumentale, d’accordo, ma il quartetto francese al primo full lenght (dopo un EP nel 2011 e uno split CD nel 2012) sprizza personalità da tutti i pori. Si sente l’influenza di Cult of Luna e Pelican, ma ci sono anche i The Ocean, qualcosa di Mogwai e molto altro ancora. I Corbeaux suonano da dio, curando le dinamiche con grazia ma senza disdegnare distorsioni sporche e suoni grezzi: il disco è suonato davvero, è molto analogico e caldo sia nei suoni che nella tecnica. Apre le danze “Cran d’Arret” – l’unico brano, con “Ezimpurkor”, a superare i 7 minuti – con un riff dispari che condurrà lungo tutta la canzone. Il brano prima esplode, e poi definitivamente deflagra intorno ai 3 min in uno splendido bridge in controtempo con un inquietante bending di chitarra: da antologia, uno dei momenti migliori del disco. “La Bagarre” mi ha ricordato in certi passaggi gli Helmet più noise nei giochi delle chitarre e nella batteria tiratissima. “7th Avenue” si muove eterea ed inquietante tra arpeggio e tastiere, evocando abbandonati paesaggi post-urbani come in una perfetta colonna sonora. Con “Sur Un Fil” si torna alle ritmiche aggressive che mi hanno ricordato alcuni lavori Pelican: il basso (sentite che suono, perfetto!) in primo piano tiene il tempo per tutta la prima parte, per poi lasciare spazio alle oscure pennellate di chitarre nel resto del brano. Splendidi gli scambi forte/piano in “Where Is Dave”, che presto evolve in un ambient ispiratissimo fino alla reprise finale. Conclude il disco “Ezimpurkor”, l’altro gioiello di 'Hit the Head': è il brano più lungo, e i Corbeaux ne approfittano per riassumere un po’ tutta la loro visione: diversi livelli, emozioni, velocità, riff, atmosfere – tutto è mescolato in un brano schizofrenico e a tratti ipnotico (come nel lungo bridge intorno ai 5 min), e contiene l’unica parte cantata dell’intero lavoro: una disperata melodia urlata che si staglia come una perla nel nero mare strumentale del disco: la chiusura ideale di un cerchio. Un bel lavoro, premiato da una produzione praticamente perfetta, scritto e suonato con gusto, precisione, eleganza e idee. Non c’è nulla di spaventosamente innovativo, intendiamoci: ma se questo non è il futuro del post-rock, è senz’altro una delle migliori visioni sul suo presente. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80