#PER CHI AMA: Post rock, Kraut-rock, Can, Sonic Youth, Mogwai |
Ho sempre avuto una teoria, la cui validità è supportata da una ventina d’anni di assidua frequentazione di quei posti strani chiamati negozi di dischi, e cioè che la bellezza della copertina sia in qualche modo legata a quella della musica contenuta nel disco da essa custodito. Ebbene, questo esordio dei francesi Le Reveil Des Tropiques, licenziato dall’ottima Music Fear Satan, è uno di quei rari casi (le eccezioni ci sono sempre, e potrei stilarne una classifica qui su due piedi) in cui la teoria viene facilmente confutata. Cominciamo dalla fine, dai quasi cinque minuti di schermaglie chitarristiche rarefatte e garbate di “Anthemusa”, e dalla sensazione di estrema soddisfazione mista a stanchezza propria del momento in cui si porta a termine un lungo viaggio, dove la fatica ha il merito di spazzare la mente dai pensieri superflui, e tutto appare improvvisamente più chiaro. Ebbene, non è azzardato paragonare questo esordio ad un lungo viaggio (2 cd per 83 minuti di musica), spesso molto impegnativo e, proprio per questo, capace di regalare una grande esperienza di ascolto, quasi un senso di realizzazione. Il viaggio era cominciato addirittura da “Jerusalem”, questo il titolo della traccia di apertura del primo disco, tra ritmi circolari che rimandano agli illustri connazionali Ulan Bator, tastiere dagli echi orientaleggianti, e due chitarre contrapposte, una morriconiana, l’altra capace di improvvise bordate rumoriste, a creare un lento crescendo nel quale vagiti kraut-rock virano verso asperità degne dei Sonic Youth prima maniera, per poi esplodere, senza soluzione di continuità, nel basso minaccioso di “Tenochtitlan”, affogato tra colate di feedback, quasi fosse una outtake di "In Utero". Il lavoro mette poi in fila una serie di gemme da non crederci, come una collana preziosa rimasta nascosta troppo a lungo. Ecco così la fenomenale "Antibes", 14 minuti di groove singhiozzante che non avrebbe sfigurato affatto su "Ege Bamyasi" dei leggendari Can o la maestosa “Tunguska”, sinfonia chitarristica che chiude il primo cd, ridimensionando buona parte della discografia recente dei Mogwai. Il secondo dischetto si apre con la sferragliante “Sigiriya”, tiratissima e acida, una corsa a rotta di collo in discesa per lanciarsi nella cavalcata noise appena sporcato di elettronica di “Kinshasa” e prima di affrontare l’ultima salita impegnativa, costituita nella fattispecie dai 17 minuti di “Yonaguni”, che attualizzano i Pink Floyd di "Meddle" o i primi Soft Machine, ibridandoli con le sperimentazioni rumorose degli ultimi Flaming Lips. Lavoro davvero grosso, in tutto e per tutto, decisamente profondo e sfaccettato, che va ben al di là delle definizioni di genere. Uno di quegli esordi che possono mettere in crisi una carriera, tanto parrebbe difficile regalargli un seguito che sia alla sua altezza. E noi, naturalmente, saremo lì a fare il tifo per loro. (Mauro Catena)
(Music Fear Satan - 2012)
Voto: 85
http://lereveildestropiques.grand-public.org/
Voto: 85
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