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#PER CHI AMA: Sonorità esoteriche |
Chiudete gli occhi e meditate. Concentratevi sullo scorrere del tempo visualizzandolo come note sul pentagramma. Ascoltatele o meglio abbandonatevi al loro lascivo abbraccio. Sentitevi avvinghiare dalla loro densa, impudica nebbia. Vi avvolge. Vi stringe. Vi penetra. Vi possiede. Aggrappatevi a questa fonte di inesauribile piacere e fatelo vostro. Viaggiate. Viaggiate molto, molto lontano. Tanto, tanto tempo fa. Indietro. Indietro. Indietro nel tempo. Sarò la vostra mefistofelica guida in un’epoca più che remota, prima della comparsa del vecchio saggio Vyāsa. Un’epoca dove le persone comuni ancora ricordano i Veda a memoria, al primo ascolto, afferrandone nell’immediato le profonde implicazioni. Nell'epoca del Kali Yuga (l'era attuale) durata della vita e memoria si sono assopite, vengono meno, gli individui sono spiritualmente meno acuti. Ecco che allora Vyāsa discese nel mondo, mise i Veda in forma scritta, li divise in quattro parti e compose tutti i 18 Purana, uno in particolare: il Bhagavata Purana. 25 sono i maha avatara che lo compongono. Kalki è sempre l'ultimo di questi in ordine cronologico: la tradizione lo descrive nelle sembianze di un valoroso condottiero dalla fiammeggiante spada in pugno, a cavallo di un bianco destriero. Sradicherà il male dal mondo, si dice. Rinnoverà la Creazione stabilendo un regno dei giusti, si narra. I lettori più accorti avranno certo colto questo mio tentativo d’iniziazione ai magici misteri dell’induismo. Religione poco nota, da noi, se vogliamo, e proprio per questo molto affascinante. Ma questo è solo un mio personale punto di vista, non condivisibile se vi pare. Fatto sta che queste rocce millenarie rappresentano il fulcrum, vero e proprio concept di questo EP “Mantra for the End of Times” rilasciato in sole mille copie da Kalki Avatara: tricolore progetto solista autoprodotto da Paolo Pieri "Hell-I0-Kabbalus" nel 2008 (già attivo in band quali Aborym e Malfeitor, per chi non lo conoscesse) e rilasciato poi dall’etichetta canadese Shaytan Productions nel 2009 in sole mille copie. Ma procediamo con ordine nell’eviscerare questa tetraedrica liturgia dai sapori orientali decisamente evocativa. Mi calo in una sorta di sopor aeternus cullato come un fanciullo dai primi atmosferici suoni di “Mankind Collapses”. Poche, ma ben concepite note di tastiera s’amalgamano armoniosamente ad un ritmo molto lento di batteria. Molte, e lunghe, le pause. S’intersecano a quest’arcano disegno, voci corali che mi accendono circuiti neurali del tutto inesplorati. Le scintille si fanno poco a poco fiamma che prima tentenna al vento per poi sfociare in fuoco con l’avvento della voce. Uno screaming cavernoso, da rigurgito (senza offese, è un complimento) ben dosato, senza eccessi dunque, che si contrappone alle pulite, alte voci corali. Segue un intermezzo strumentale costruito su una magnifica fuga di tastiera, coadiuvata dalla batteria, che qui si concede una breve galoppata. Il pezzo torna a rallentare e viene reintrodotto il tema principale che conduce alla fine del pezzo. Campane tubulari, percussioni e non ben definiti strumenti etnici introducono “Ruins of Kali-Yuga”. L’introduzione sfocia però poi in un tema che ricorda tutti i sapori della precedente traccia. Unica novità, a mio avviso, è la presenza di un intermezzo jazz che prende il posto di quello che prima era il posto della fuga di tastiera. Segue “Purification”: la sorpresa qui sta nel fatto che è cantata in tedesco, una lingua dura che sposa molti, anche se non tutti (power e progressive ad esempio), i generi di metallo. Caratteristica degna di nota di questo pezzo è, per me, la tastiera. Qui ricorda un carillon e mette brio alla composizione melodica di base. La fine dei tempi viene scandita dall’ultima delle quattro track, l’outro “Awaiting the Golden Age”: ancora una volta odo i cori ma qui diventano salmodici, oserei dire omelici. Sono accompagnati da quello che azzarderei essere un sitar. L’urlo finale mi catapulta senza preavviso al presente: fatto di tasse, crisi ed imminenti elezioni. Non c’era quindi titolo più azzeccato di questo per fare ironia: bisognerà purtroppo aspettare davvero molto per entrare nell’età dell’oro, anche se le pepite che da sempre preferisco sono quelle di metallo pesante. (Rudi Remelli)