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domenica 5 giugno 2011

The Project Hate - Bleeding the New Apocalypse

#PER CHI AMA: Cyber Death, Industrial, Progressive
Che io segua i The Project Hate da tempo, lo dimostra la recensione del vecchio “Armageddon March Eternal” su queste stesse pagine. Mi ritrovo ancora qui a scrivere della band di Lord K. Philipson e soci, e lo faccio sempre ancora con estremo piacere, in quanto da dieci anni a questa parte per il sottoscritto, i The Project Hate rappresentano sinonimo di grande qualità. Non è infatti da meno questo “Bleeding the New Apocalypse”, la cui uscita è un po’ passata in sordina ai media (e forse anche ai fan), e allora da parte mia, per poter dare un po’ di enfasi a questa nuova release, ecco dare il mio supporto ad una delle band che più stimo: mi siedo alla scrivania, accendo il pc, inserisco il cd e via all’ascolto del nuovo "Bleeding the New Apocalypse", l’ottavo album dei nostri considerando anche la parentesi Deadmarch. Ebbene, saranno anche passati undici anni dal brillante esordio dell’act scandinavo, ma il sound non è per nulla mutato da allora, e questa non vuole essere una critica nei confronti del four-pieces, anzi vorrei premiare la loro coerenza e costanza nell’arco di questi anni. L’impianto sonoro di fondo continua a rimanere quello del seminale swedish death (Grave e Dismember), su cui si insinuano via via elementi di qualsiasi tipo, dal cyber death all’industrial passando per il progressive, facendo largo uso di elettronica e giocando, al solito, sul dualismo tra le growling vocals di Jorgen Sandstrom e quelle angeliche della vocalist portoghese Ruby Roque, che ha sostituito ahimè, la ben più brava Jo Enckell. Come sempre non mancano neppure gli ospiti e questa volta ad aiutare i The Project Hate, ci pensano Leif Edling dei Candlemass, l’onnipresente Mike Wead (che abbiamo visto anche recentemente nei Kamlath), Jock Widfeldt (Vicious Art) e Christian Ivestam (ex-Scar Symmetry). Il risultato di questo connubio? Quanto mai pazzesco, in grado di certificare la grande qualità della band svedese, all’esordio tra l’altro con la Season of Mist. Da sempre caratterizzati da pochi e lunghissimi brani, anche la release in questione non è da meno, con sei pezzi per un totale di 65 minuti di musica feroce, psicotica, dalle strutture assai complesse, ma al contempo assai melodiche, grazie all’utilizzo sempre indovinato delle keys e dei suadenti momenti in cui Ruby ci delizia col suo cantato, anche se meno convincente della precedente Jo. Da un punto di vista tecnico, la band si conferma ad alti livelli, forti anche di un nuovo batterista, l’esplosivo Tobias Gustafsson (Vomitory) e di un lavoro in chiave ritmica e di solos che si conferma eccelso. Difficile indicare un pezzo piuttosto che un altro (anche se eleggo “Summoning Majestic War” mia song preferita), in quanto tutti si potrebbero giocare la palma di brano più riuscito dei The Project Hate. Insomma credo l’avrete intuito, a me "Bleeding the New Apocalypse" piace parecchio, per quella sua capacità di fondere le ritmiche selvagge del death made in Sweden, con sonorità estranee agli estremismi nord europei, quali gothic, progressive ed elettronica perennemente in grande evidenza. Ottimo il songwriting, cosi come pure eccellente la produzione con tutti gli strumenti ben bilanciati tra loro e un sound davvero pieno ed efficace che mi spingeranno ad eleggere questo lavoro tra i migliori del 2011. Una piacevole conferma, ma non avevo alcun dubbio a tal proposito, i The Project Hate, per quanto ingiustamente snobbati da critica e fan, rappresentano per il sottoscritto tra le band più interessanti e carismatiche del panorama internazionale. (Francesco Scarci)

(Season of Mist)
Voto: 85

Canaan - A Calling to Weakness

#PER CHI AMA: Gothic Dark Ambient
Malinconia e poesia: dall'incontro e dalla fusione di due degli aspetti più nobili dell’animo umano sorge "A Calling to Weakness", composizione di rara intensità, che brilla come una perla incastonata in un cielo di nero disinganno. Tra le uscite della Eibon Records, quelle dei milanesi Canaan, sono sicuramente tra le più prestigiose, testimonianza che anche l'Italia può vantare artisti dalla vena creativa più che mai viva e in grado di creare uno stile personale, assolutamente unico e che, nel caso dei Canaan, è a mio parere decisamente italiano. Diciassette canzoni, 70 minuti di musica vissuta intensamente e pacatamente sofferta, ma mai banale… musica che reclama la nostra attenzione e che cattura il nostro animo, impreziosendolo e arricchendolo di intima delicatezza, commuovendoci e toccandoci nel profondo, fino alle lacrime! Fluidi arabeschi melodici che avanzano flessuosi, sostenuti da morbide parti di batteria e completati da impalpabili strutture di chitarra… e al tutto si unisce e lega indissolubilmente la voce di Mauro, che svela una maturità interpretativa che da "Brand New Babylon" attendeva di emergere e che in "A Calling to Weakness" è perfettamente integrata nel contesto melodico. E' una musica per certi versi eterea, le cui aggraziate trame si dischiudono come i petali di un fiore rivelando le mille sfumature del dolore interiore, della sofferenza che accompagna silente il quotidiano, rendendo opaca ogni visione della realtà, filtrata attraverso occhi che non hanno più lacrime. Ne scaturiscono una forte sensazione di alienazione dal mondo circostante e una ricerca estrema di introspezione, di meditazione sulla propria interiorità e sul valore della propria esistenza. Canaan penetra nelle nostre notti più buie, illuminandole di un tenue riverbero di mestizia, si insinua nei nostri pensieri più tristi, velandoli di rassegnazione e ci accompagna in questo viaggio interiore verso la solitudine eterna. Tuttavia, in taluni momenti si percepisce un'energia forse sprigionata da un improvviso desiderio di ribellione ad una situazione di oppressione e che si impone, sostituendo momentaneamente l’apatia generata da una vita senza aspettative, per poi lasciare nuovamente il passo al vuoto imposto dal grigiore di una pallida esistenza che non regala emozioni. Far menzione di qualche canzone potrebbe sminuire il valore dell'opera, che va catturata nella sua interezza, ascoltandola svelarsi alla nostra anima, mettendo a nudo le riflessioni e i tormenti che l’hanno originata. (Laura Dentico)

(Eibon Records)
Voto: 85

The Project Hate - Armageddon March Eternal

#PER CHI AMA: Cyber Death, Industrial, Black Symph
Cari ragazzi, prendete carta e penna e segnatevi questa release; andate dal vostro negoziante di fiducia e acquistate questo disco; fatte tutto ciò se siete logicamente alla ricerca d’emozioni forti e di musica estremamente originale. Eh sì, perchè i The Project Hate hanno dato alle stampe un lavoro veramente eclettico, interessante ed emozionante. Quello che andiamo ad ascoltare oggi è il quarto album della band svedese (escludendo il live “Killing Helsinki”), band capitanata dal polistrumentista Lord K. Philipson e dai suoi fidati compagni che arrivano da esperienze più o meno importanti nella scena death scandinava (Grave, 2 Ton Predator, Evergrey ed Entombed tanto per citarne alcuni). Ma veniamo ad “Armageddon March Eternal” vero crocevia di stili: il platter mischia infatti sonorità tipiche del death scandinavo (Entombed, Dismember e Grave) a momenti cyber death alla Fear Factory, giocando sull’eterno dualismo tra bene e male, qui contrapposti attraverso la musica, ma anche attraverso la voce eterea dell’angelica Jo e il profondo growling del luciferino Jörgen. Prodotto egregiamente da Dan Swano presso i suoi Square One Studios, il quarto sigillo della band nordica ospita tra i suoi solchi numerosi ospiti, da Gustaf Jorde dei Defleshed ad Anders Schults degli Unleashed. Il sound proposto dai nostri geniali ragazzi però non si ferma a quanto scritto sopra, va ben oltre: nei sessantasei minuti di musica, se ne sentono davvero di tutti i colori, anche grazie alle strutture altamente complicate dei lunghi brani. Se appunto, la matrice di fondo del disco resta un granitico death metal, su questo si vanno a insinuare, tra le trame chitarristiche, anche dei momenti di inaspettata atmosfera, così come pure campionamenti elettronici presi in prestito dall’industrial e dall’EBM. Curioso l’effetto che ne deriva, una miscela esplosiva di emozioni, una colata di lava metallica che investe l’ascoltatore: nelle note di “Armageddon March Eternal” possiamo udire echi derivanti dalla musica più progressiva e d’avanguardia (Opeth, The Provenance e Arcturus sono i primi nomi che mi vengono in mente), ma anche schegge di black sinfonico tanto caro ai Dimmu Borgir. Svariate le influenze che si celano dietro a quanto partorito dalle menti di questi ragazzi: probabilmente il difetto maggiore dell’album sta in alcune ritmiche brutal un po’ troppo scontate, per il resto considero questo nuovo cd, un eccellente lasciapassare per la via verso il successo, anzi per l’Armageddon... imprevedibili e disorientanti, che volete di più? (Francesco Scarci)

(Threeman Recordings)
Voto: 80

Hopeless - Elements

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Funeral Doom, Shining
“Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente… Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Queste frasi, dal senso così tremendo e oscuro, sono scolpite sopra la porta dell’Inferno, che Dante si appresta a varcare ne “La Divina Commedia”. E facendo proprio un confronto con l’opera del poeta toscano, mettendoci all’ascolto di “Elements” degli spagnoli Hopeless (appunto “senza speranza”) e del loro catastrofico suicidal black metal, le sensazioni che emergono sono le medesime di quelle descritte nel più grande capolavoro della letteratura di tutti i tempi. L’aver scomodato Dante per la recensione di questo cd, non deve trarvi però in inganno, perché ahimè non ci troviamo al cospetto di una cosi maestosa opera d’arte, anche se la musica proposta dalla one man band di Malaga è molto buona, ma credo che ai più potrà risultare di difficile fruizione. Eh si, perché il sound mortifero proposto da Lvcciferian e dai suoi Hopeless, è un black ambient dalle pesantissime tinte depressive/suicide che emergono fin dall’iniziale “March 13th” e perdurano fino alla conclusiva title track (tralasciando l’ultima inutile cover, da “Il Padrino” “The Ghostfather“). A dispetto di una produzione non proprio all’altezza, la musica dell’act iberico sconvolge i nostri sensi con composizioni dal forte impatto emotivo, con ambientazioni nere come la pece, squarciate da dannate litanie angoscianti. La ritmica non è mai veloce, semmai assai ripetitiva; tuttavia la noia non finisce mai per intaccare il nostro ascolto, nonostante le lunghe durate (sugli 8-9 minuti) di alcune tracce. Non mi stancherò di ripetere che quello che abbiamo fra le mani è un cd di funeral black doom apocalittico, di faticherà a trovare molti consensi; tuttavia mi sento di poter consigliare l’ascolto di questo lavoro anche a chi non è cosi abituato a questo genere di sonorità, perché potrebbe risultarne piacevolmente sorpreso. Sia chiaro che “Elements” non è un disco da poter gustare in auto o in compagnia di amici, ma da assaporare chiusi nell’oscurità della propria camera, magari con un paio di candele accese. Sofferente, malato, sconfortante: devo ammetterlo, a me la musica degli Hopeless piace molto e vi invito a dargli un ascolto; avvicinatevi con cautela però! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75

venerdì 3 giugno 2011

Astral Silence - Astral Journey

#PER CHIA AMA: Funeral Doom, Cosmic Black Metal
Ancora una volta Svizzera (come per i Mal Etre), ancora una volta viaggi spaziali come era successo per i compagni di scuderia Spuolus, ancora una volta una one man band, questa volta guidata da Quaoar. La proposta che oggi fa visita al mio stereo è il full lenght di debutto degli Astral Silence, che arriva a convincermi che il paese alpino non sia importante per il cioccolato o per alcune grandi band (Celtic Frost, Samael, Coroner), ma che ci sia realmente un fermento continuo nell’underground che cresce e spinge per farsi conoscere. Certo, c’è anche da dire che non tutte le ciambelle escono col buco, ma questo è un altro discorso che magari affronteremo nel corso della recensione. Partiamo col dire che “Astral Journey” è uno di quegli album di difficile approccio, ma devo ammettere che sono quelli che poi talvolta regalano anche le maggiori soddisfazioni. Si apre con la classica intro ambient (peccato che duri “solo” poco più di dieci minuti). Già messo a Ko dalla ipnotica, quanto mai inutile apertura, finalmente riecheggia nelle casse del mio stereo, la musica del factotum Quaoar e del suo cosmic black metal (definizione che sta prendendo sempre più piede ultimamente) che quasi istantaneamente, guida la mia mente verso il sound dei conterranei Darkspace. Vuoi per la definizione del genere, vuoi per i punti di contatto che accomunano le due band, ossia quella ripetitività di fondo che lacera le nostre menti, effettivamente le due band finiscono inevitabilmente per assomigliarsi. Non voglio bollare gli Astral Silence come dei meri cloni dei ben più famosi colleghi, però questo finisce per inficiare un po’ il mio voto. Ci prova “Hydra” a risollevare le sorti di un album che rischia di finire nel dimenticatoio dei cd perduti. Per carità nulla di innovativo o personale, però il suicidal black degli Astral Silence si lascia ascoltare piacevolmente, tuttavia senza impressionare o senza spingersi verso lidi sperimentali, in quanto il riffing non si sforza di cercare soluzioni alternative e finisce per continuare a riproporre lo stesso giro di chitarre per l’intero pezzo. Quello che finisce poi per il placare il mio desiderio sacrificale, sono quelle ambientazioni ricche di tensione, che comportano un totale senso di rassegnazione e abbandono a chi le ascolta: tutto ciò emerge alla grande nelle conclusive “Dysnomie” (il mio brano preferito) e “Oort”, dove si respira tra l’altro un fetido odore di morte. Il funeral doom, con il suo impietoso riffing, le vocals quasi sussurrate, le cupe tastiere, finisce per prendere il sopravvento, scaraventandoci in un intenso stato di terrore. Il respiro si fa più affannoso e la visione più distorta, man mano che l’incedere della song si fa più che mai minaccioso; l’impressione che mi rimane alla fine di questa bieca danza della morte è che la sua mano abbia afferrato la mia gola per condurmi insieme a lei negli inferi. Mi risveglio, sono sudato, realizzo che è stato solo un incubo, lo stereo ormai si è spento in automatico e il cd degli Astral Silence è terminato, ma quel senso di angoscia perdura ancora nel mio animo e chissà ancora per quanto durerà. Destabilizzanti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

Mal Etre - Torment

#PER CHI AMA: Ritual Black Metal, Funeral Doom
Come riporta il booklet del cd, questa è una raccolta di tracce di un viaggio personale, che riflette momenti di isolamento e crisi personale dell’individuo, Nocturnalpriest, che si cela dietro il nome di Mal Etre. La one man band svizzera finalmente, dopo 4 demo rilasciati a partire dal 2007, fa uscire per l’attivissima Kunsthauch, questo cd di sette pezzi che fa del suo titolo, il proprio inno… il tormento, si. Ora capisco per quale motivo viene spiegato il perché della nascita dei brani, poiché fin dall’iniziale “Vie Impure”, non posso esimermi dal constatare che proprio questo sentimento, cosi straziante e lacerante, costituisce la base delle sonorità di questo oscuro lavoro, anche se spesso ci si abbandoni in selvaggi tripudi alla malvagità. Dopo l’adattamento al corrosivo sound della lunga opening track, mi lascio cullare dalle soavi note di “Forest”, prima di immergermi nell’angosciante trip creato dalla tenebrosa “My Funeral”, macigno ipnotico di funeral doom miscelato ad ambientazioni che mi hanno riportato alla mente gli ahimè disciolti Decoryah, forse prima fonte di ispirazione dell’act alpino, insieme allo shoegaze moderno dei maestri Alcest. Nulla di cosi immediato, il sound dei Mal Etre è un qualcosa in grado di spingerci fino all’orlo del precipizio e probabilmente anche qualcosa in più. Gocce di pioggia a metà brano sottolineano quel senso di malinconia (per non dire cupa disperazione) che attanaglia l’intero cd; la pioggia lascia poi il posto a linee di chitarra contraddistinte da un uso estremamente basso dell’accordatura, in compagnia di urla disumane in sottofondo e apocalittiche visioni da fine del mondo. Il senso di sofferenza prende il sopravvento anche con la successiva “Unblessed Beings”, dove l’artefice di questi suoni finisce per compiangersi sin dai primi tocchi arpeggiati di chitarra. Poi quando sopraggiungono i cori, l’influenza del combo finlandese sopraccitato si fa più forte, e la musica del nostro eroe finisce per mescolarsi con un riffing epico di chiara matrice Burzum, per un finale da brividi. Evocativo, malato, contemplativo, questi sono solo alcuni degli elementi che emergono dall’ascolto di questo “Torment” che è in grado di regalarci ancora altri momenti di mistero con “Sad Day” e di solenne black metal con “Son Ame Saigne”. Peccato solo che la produzione non sia delle migliori, sono convinto che con altri suoni si sarebbe potuto apprezzare maggiormente i dettagli di questo seminale opera. Tormentati! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75

giovedì 2 giugno 2011

Kamlath - Stronger than Frost

#PER CHI AMA: Dark Gothic Doom, Moonspell, My Insanity, Evereve
A volte mi domando come possano nascere le collaborazioni tra artisti cosi lontani o semisconosciuti tra loro, un’amicizia, un gioco tra etichette o cosa? Quindi mi chiedo come e cosa possa aver accomunato Max Konstantinov e Peter Shallmin, entrambi provenienti dalla Siberia con lo svedesone Mike Wead (Mercyful Fate/King Diamond, Candlemass), Dennis Leeflang (Within Temptation, Epica) e infine addirittura con l’italianissimo Marco Benevento, singer dei The Foreshadowing? Insomma il connubio tra Russia, Svezia, Olanda e Italia ha partorito i Kamlath e il genere Siberian Metal (in quanto il concept ruota intorno alla tradizione della comunità siberiana, ma qui se la potevano anche risparmiare), tra l’altro sotto l’apporto grafico di un altro membro della scena internazionale, Seth Siro Anton, dei greci Septic Flesh. Il risultato a conti fatti non è affatto male, se siete però dei fan del vocalist dei nostrani The Foreshadowing, in quanto se, come me, non apprezzate la timbrica del buon Marco, avrete grosse difficoltà a digerire la proposta del combo, ma cercherò di analizzare il tutto con estremo raziocinio. La proposta è certamente accostabile ad un gothic dark doom che viaggia sempre su linee di chitarra compassate e atmosferiche, con le vocals che raramente travalicano il cantato pulito. La musica si lascia piacevolmente ascoltare sin dall’iniziale “Isgher”, dove immediatamente è Marco ad assurgere a ruolo di assoluto protagonista grazie alle sue melodie vocali, su un sound mai troppo graffiante. I suoni, forse un po’ troppo glaciali, sono riscaldati ben presto dal chitarrismo solista di Mike Wead che regala sprazzi di grande classe. La seconda “Seven Thousand Winters” apre quasi con piglio black metal, con una ritmica selvaggia, per poi prontamente assestarsi su un mid-tempo melodico, ma ripartire, nello sviluppo del brano, ancora più furiosa. La voce ammaliante di Marco è sovrana (e lo sarà per tutta la durata del cd) e domina su un tappeto ritmico rutilante, creato dalla batteria incalzante di Dennis. Con la terza “Thy Revelation” tocchiamo l’apice compositivo di questo inaspettato “Stronger than Frost”, con una song struggente che si conclude con un assolo meraviglioso. La tecnica di certo non manca al quintetto internazionale e i nostri non esitano di certo a palesarla. La title track ha più le sembianze di un pezzo dei Moonspell, mentre la successiva “One Tired Wise” si rivela meno sostenuta e con un mood notevolmente malinconico, che si riproporrà anche nella splendida conclusiva “From Siberian Deeps”. A suggellare il lavoro dei nostri ci pensa poi un’ottima produzione nei romani Temple of Noise Studio a conferire una maggiore italianità a questa release. Un unico appunto vorrei fare: limitate la performance vocale di Marco che rischia di sovraccaricare e rendere noioso l’ascolto del cd. Oscuri! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Addiction Crew - Lethal

#PER CHI AMA: Crossover, Nu Metal
Recensire questo “Lethal” mi mette un po‘ a disagio. Perché è un disco dai molti pregi, che tuttavia mi lascia una grande perplessità. Gli Addiction Crew sono un ensemble italiano e rilasciano questo ellepì a tre anni di distanza dalla loro precedente produzione. Credo che “Lethal” si ispiri al crossover nu-metal dei primi 2000, con qualche contaminazione elettronica (carino l’effetto spada laser di guerre stellare all’inizio di “Target”), ma che poi tutti ruoti intorno al desiderio di fondere questo genere con la voce della cantante Marta Innocenti. Risultato: dodici tracce piacevoli all’ascolto (easy-listening?) dalle sonorità spesso compresse, come se volessero lasciare il posto alla melodica voce della singer. Desiderio di scalare le classifiche con delle canzoni orecchiabili? Se anche fosse, non ci sarebbe nulla di male. Non mancano le componenti forti, le linee di chitarra violente e una batteria sempre presente e incalzante. Ascoltate con attenzione“ Target”, “Along The Way”, e “Surrounded”, sono le migliori del mazzo. Prese singolarmente, le song sono un’alchimia ben riuscita tra aggressività, pulizia dei suoni, melodia. Nel loro insieme, però, scorrono via come sabbia tra le dita, lasciando una sensazione di vuoto. Mancano quei picchi, quel qualcosa in più che rimane nell’orecchio e nella mente dell’ascoltatore. Il lavoro col bilancino da farmacista per equilibrare il tutto ha creato un qualcosa di sfuggente e vagamente asettico. (Alberto Merlotti)

(Aural music)
Voto 65