Cerca nel blog

domenica 3 ottobre 2010

The Way of Purity - Crosscore


Premesso che la band che mi accingo a recensire usa dei nicknames ed è solita coprire il volto per cui mi risulta assai difficile conoscere i nomi reali e le facce dei nostri. Sfogliando il booklet, si trovano poi immagini di braccia tagliate, croci insanguinate e persino un Cristo in croce bruciacchiato: si parla di religione e natura, in questo strano connubio che rappresentano uno il male e l'altra il bene, con la voce pulita femminile in netta contrapposizione con il growling che occupa con forza la scena. Ad un primo ascolto, l'album ricalca fedelmente le sonorità americane del crossover/nu metal: già dalla prima traccia, “The 23rd Circle Breeds Pestilence”, la batteria e il growling ci danno dentro terribilmente, tirando fuori il meglio in fatto di rabbia e cattiveria. “Lycanthropy”, seconda track, prosegue perfettamente il ritmo e il sound della precedente, cosi come pure in “Anchored to Suffocation”, sebbene il ritmo sia meno incalzante e più cupo. Il cantato è sempre sull'urlato, anche se è comprensibile (a fatica, lo ammetto). Per quanto possa sembrare troppo sintetica, le canzoni lasciano poco spazio ai pensieri, ma ti colpiscono così a fondo che viene spontaneo aggregarsi alle sensazioni che la band esprime. Con “The Rise of Noah” il sound dei nostri prende un'altra piega: la voce pulita di una fanciulla prende il sopravvento (vedi Lacuna Coil), accompagnata sempre da un sound nu metal più - oso dire - commerciale, con qualche nota qua e là del bel urlato furioso di cui fecevo menzione in precedenza. Chiusa la parentesi femminile, arriva “Loyal Breakdown of Souls”, in cui tutto l'astio viene messo in luce e gli strumenti straziati, sebbene ancora qualche particella in pieno stile nu sopravviva. Arrivati a metà disco, con “Sinner” si ha il totale ritorno al crossover: ritmo incalzante, niente respiro, headbanging sfrenato e la sensazione di essere invincibili! “Egoist” non cambia direzione, se non forse il piccolo mal di collo che sta uscendo dal movimento della testa e per qualche incursione della female vocal. Da segnalare che in questo album c'è una cover, “Deathwish”, uscita dalla mente malata dei Christian Death nel lontano 1982, e rifatta degnamente anche dai nostri svedesoni: nel loro stile ovviamente, esattamente agli antipodi dal goth rock dei suddetti Christian Death. “Burst”, la penultima canzone, riprende lo stesso motivo di “Egoist”, senza cambiarne nemmeno una virgola. Si arriva così a fine album, con la bella “Pure” che chiude questa sequela di rabbia furiosa senza limiti: normalmente si pensa che con l'ultima traccia, ci si senta un po' stanchi e si voglia rallentare il ritmo ma non in questo caso, visto che i nostri rimangono “crudi e puri” fino alla fine, magari aiutati qualche volta dalla suadente voce femminile che tende ad ammorbidire il sound. L'album si chiude di punto in bianco, senza alcuno strascico od eco, punto di cessazione dell’energia dei nostri. Da risentire… (Samantha Pigozzo)

(WormHoleDeath)
voto: 70

Nauthisuruz - State of Mind


Correva l'anno 2008, Mosca. Un duo, formato da Casuru e Sequoror, sfornava un album totalmente sperimentale: 8 tracce una diversa dall'altra, che presentano delle atmosfere che passano dall'incubo, all'elettronica più pura (che rimanda anche a sonorità fine anni ‘80) e alle atmosfere funebri. Iniziando l'ascolto dell'album, troviamo “Cosmos”: il nome di suo la dice tutta, infatti le atmosfere ivi contenute sarebbero più che perfette per un viaggio nello spazio: chitarra e tastiere sono al loro apice, mentre la mente vaga tra i gruppi di costellazioni e di ammassi globulari; difficile tenere la mente concentrata, visto che la musica ti entra nei meandri della mente e accompagna i pensieri ben oltre la realtà. Arriva poi il turno di “Whisper of a Soul”, più adatta ad una processione funebre, con la voce sussurrata e appena percettibile, mentre la tastiera e la chitarra sembrano avere vita propria: non vi è traccia di malinconia o tristezza, ma più un senso di ipnosi che ti svuota la mente, quasi eliminando ogni pensiero e disperdendo lo sguardo. “Lust”, invece, è più rancorosa e cattiva: caratterizzata da cori tipicamente eighties (probabilmente anche Casuru si è prestato alla voce, assieme a Sequoror), la song sciorina riff solisti e una batteria abbastanza tranquilla. Il cantato in puro growl alternato allo screaming, espelle tutta la frustrazione e la rabbia: da metà in poi anche la tastiera fa il suo solenne ingresso, presentando anche una parte di cantato “pulito”. “Dream, Mesmerize and Think” è a dir poco psichedelica. Con questo termine intendo che sembra non seguire affatto un filo logico, in quanto la chitarra va per la sua strada, la voce è grave e flemmatica e la mente ritorna a vagare sperduta, senza nemmeno rendersi conto del tempo che passa: è in questo modo che mi accorgo di stare già ascoltando la quinta traccia, “My New Way”, la traccia più industrial del lotto (e anche la mia preferita) con una chitarra distorta che mi fa destare ed illuminare: persino la tastiera fa la parte della chitarra (la cosiddetta nota modulata), il che porta questa traccia ad entusiasmarmi, piacevolmente sorpresa. Ascoltando il resto della traccia in religioso silenzio, seguendo attentamente i cambi di ritmo e di strumenti, arrivo a “Requiem to the Darkness”; qui il vento soffia forte e freddo, le atmosfere sono cupe, mentre una voce pare arrivare da molto lontano, portando con sé urla di paura e di dolore indistinguibili: sembra di essere in un film horror, più che in un album... ma, essendo totalmente sperimentale, è anche normale sentire questo lato “terrorifero”, demoniaco e infernale. Sarò visionaria, ma questo brano lo vedrei bene nel “Dracula” del 1931, con Bela Lugosi: magari si sono ispirati a lui nella stesura del brano, chissà. Pian piano si arriva alla fine dell'album: la prossima tappa la si trova in “Nostalgia (Disco in Hell 2008)”: come dice il titolo, lo stampo ricalca un po' la musica disco, ma senza mai abbandonare il filone di appartenenza metal sperimentale. Si ha così come risultato un “disco inferno” (non la canzone, ma proprio l'idea di una discoteca demoniaca), una cosa che le mie orecchie non avevano mai sentito prima, ma che sono una bella sorpresa. Chissà come sarà dal vivo, di sicuro smuoverà le masse. “Back to the Cold Reality”, chiude il platter: se l'inizio si mostra pacato, il resto del brano ce la mette tutta per riportare la mente alla realtà e per caricarci in modo da poter affrontare la dura vita. Elementi orchestrali si mescolano al growling e la calma si alterna alla furia, esattamente come le onde del mare. La nota nuova di questo brano è il violino, portatore di malinconia, che sembra quasi prepararci ad uscire dalla porta di casa. Ed è così che il viaggio nel lavoro dei russi Nauthisuruz arriva al capolinea, con la consapevolezza di essersi in qualche modo perduti e ritrovati. Concludo con una parola: spettacolare! (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80

Adimiron - When Reality Wakes Up


Pochi istanti d’ascolto ed eccomi violentemente catapultato nell’ipnotico trip degli Adimiron. Subito mi identifico in uno di quei caduchi angeli ribelli di Pieter Paul Rubens, al seguito dei quali precipitano a catena uomini e donne trascinati sulla via del male. Gli Adimiron sono cinque, sono italiani, sono vincenti. Con “When Reality Wakes Up” giocano la loro partita e la vincono. Nulla da spartire con quegli undici perdenti d’azzurro vestiti. Le vorticose note di “Desperates”, prima track della release e la successiva “Wrong Side of the Town” dal sound potente, tecnico ed aggressivo, mi travolgono, ghermiscono o forse abbracciano. Mi sento sempre più vicino, sempre più solo, sconfitto e perduto, al fondo degli inferi. Si, proprio là dove sta il drago, a cibarsi dei dannati ma senza alcun San Giorgio a dissuaderlo. “Mindoll”, al contrario di una droga, stimola nel mio encefalo la formazione di nuove lisergiche reti neurali cablate dalla successiva “Das Experiment” e cauterizzate definitivamente poi con “Spitfire” (cover dei Prodigy): ormai sempre più vicino al drago, avverto l’odore del suo mefitico fiato. Non convince invece, a mio parere, la scelta della strumentale title track come titolo di questo lavoro: non che sia brutta ma nemmeno da premiare. Una parentesi, a questo punto, se la merita sicuramente anche il packaging: davvero ben curato, esteticamente perfetto, grafica riuscita ed un libretto davvero moderno. Chiusa la parentesi, tornando alle musiche, a chiudere per sempre(?), di sicuro in bellezza, le fauci del drago ci pensa “Flag of Sinners”. Ancora una volta, quindi, vince Giorgio ma stavolta, non con una lancia ma con l’asta di una bandiera. D’altronde questo è un anno di mondiali ed al posto delle trombe ad annunciarci l’apocalisse ci tocca, purtroppo, una schifosissima vuvuzela. (Rudi Remelli)

(Alkemist Fanatix)
voto: 75

Moloken - Our Astral Circle


Lo ammetto: ho appena iniziato ad ascoltare l’album di questi svedesi Moloken, che seguono l'EP di debutto “We All Face the Dark Alone”, e la mia faccia si è dipinta di un’espressione indecifrabile, misto tra curiosità, senso di cattiveria e anche stupore: questo perché l’album presenta un’alternanza di suoni, che passano dalla furia accompagnata da un growling cavernicolo alla pacatezza e alla lentezza delle note, rendendo il tutto a tratti pesante e a tratti rilassante. L’opera d’arte (perché anche la capacità di mescolare tonalità contrapposte è un’arte) si apre con le atmosfere lugubri di “Molten Pantheon”, ben sottolineate da una voce cattiva e cavernicola, alternata da chitarre e batteria ben equilibrate tra loro: il sound risulta degno del death che più death non si può, rendendo l’animo ben oscuro e pesante. Se si provasse a chiudere gli occhi mentre scorre il cd, si verrebbe attanagliati dai incubi paurosi che scaturiscono dalla menti di questi oscuri individui Svedesi, immagini che riportano alla mente le distese infinite di boschi durante il lungo inverno, che sembra non avere mai fine. Qualche barlume di speranza lo si ha con “Untitled I”, grazie ad un riffing di chitarra molto malinconico e pacato, ma che viene sconvolto quasi subito dal growling del singer. Tutto il brano, comunque, alterna la furia del trio chitarra-batteria-basso con le note della sola chitarra, come a voler risanare le orecchie prese d’assalto. “Die Fear Will” sembra voglia strapparci di dosso l’anima, grazie ad una voce disumana e agli strumenti che la seguono fedelmente, come in un turbine senza fine. È poi la volta di “Followers”, che riprende le atmosfere ferine e il sound della precedente, anche se si rivelerà un po’ più melodica. “Untitled II”, strumentale all'inizio, genera sensazioni più malinconiche e tristi ma man mano che la traccia avanza, e il ritmo si fa più serrato è un senso di oppressione a schiacciarci il petto. Arrivati a metà album, il sound rimane sempre lo stesso, anche se inizia a far tiepidamente capolino una certa vena progressive rock anni '70: ne è l'esempio “Ebeorietement”, con molti inserti di chitarra, ad opera di Patrik Ylmefors, che rallentano la traccia, giusto per lasciare un po’ di respiro alla mente (e alle orecchie). Questa pace, però si conclude ben presto con “My Enemy”: una vera e propria dichiarazione di guerra con la batteria di Jakob Burstedt e la chitarra a picchiare veramente duro, ma condito da un mood a volte rallentato e subdolamente perfido. Sembra che la band scandinava pecchi un po’ di fantasia visto che arriva anche “Untitled III” più tranquilla rispetto alle precedenti songs con quella sua verve più progressive, per la mia gioia (finalmente posso chiudere gli occhi e immaginare le distese di boschi… ma stavolta di giorno!), anche se per pochi minuti… infatti a metà brano la cattiveria non può mancare, facendo ripiombare la mente nell’oscurità più profonda di un bosco a mezzanotte (e senza luna piena). Si arriva così all'ultimo brano, “11”12”: l'inizio di chitarra non fa presagire nulla di buono, come lo dimostra perfettamente la voce lacerante poi... le vertigini che questo brano crea sono a dir poco inquietanti, quasi non si riesce a scrollarsi di dosso l'angoscia che i riffs di chitarra ripetono continuamente, asfissianti nel loro incedere e a rendere questo brano quasi eterno! Ti martella così tanto che ti viene l'istinto di togliere il cd dal lettore... ma vi consiglio di resistere, perché dovete assolutamente ascoltarla fino in fondo. Traendo le conclusioni, non nascondo che ho faticato non poco ad arrivare alla fine del disco per il forte peso che mi ha messo sul costato! C’è sicuramente da ammirare la capacità dell’act scandinavo, di associare il death metal al progressive rock, rendendo questo album veramente degno di nota e di ascolto. Può piacere e non piacere, ma merita davvero un ascolto attento, anche da chi, come me, preferisce altri tipi di metal ma che comunque vuole comunque spaziare sin nell’oscurità più profonda di questa musica, incontrando l’anima più caotico malvagia del metal. (Samantha Pigozzo)

(Discouraged Records)
voto: 70

Sad Dolls - About Darkness


Formatasi nel 2007, questa band proveniente dalla Grecia (con un’età media molto bassa), dà alle stampe il loro album di debutto (dopo il demo “Dead in the Dollhouse”), mescolando le sonorità più cupe del gothic metal con l'elettronica più industrial: ne esce così un lavoro che può essere definito “electro gothic metal”. Il tema ricorrente sono le tenebre e la sensazione che esse portano (oltre, anche, a tutte le sue caratteristiche come il sangue, lacrime e l'abbandono). L'intro cattura da subito l'ascoltatore in un mondo oscuro, con parole sussurrate e accompagnate prima dalle tastiere e poi dal pianoforte, per poi lasciare spazio ad una chitarra malinconica, in grado di sottolineare con le sue note, i temi dell'oltretomba e della solitudine, oltre al sentimento di smarrimento e d'inquietudine. “Bleed All I Can” è già meno cupa, ma ricorda immediatamente il sound degli Him, con la voce alterata ed accompagnata dal connubio tastiere-chitarra, lasciando in secondo piano la batteria: si direbbe quasi che il sound sia perfetto per il tipico brano da cantare a squarciagola. Seguendo il filone dell'electro-metal, “Misery” lascia più spazio alla batteria, denotando un sound più industrial (leggasi Deathstars) rispetto al gothic della prima traccia. La voce è meno alterata, le chitarre sono messe in primo piano assieme alla batteria e le tastiere si limitano nella creazione dell'atmosfera. “Life Equals Zero” invece si distacca dal sound verso cui l'album stava virando e torna sul percorso gothic iniziale, con l’elettronica elemento costante di fondo e con la voce del singer tendente al grave/cupo: alta è la concentrazione di suoni elettronici e graditissimo l’assolo di chitarra nel mezzo del brano. “Watch Me Crawl Behind” prosegue con le sue atmosfere tetre, sottolineate anche dalle liriche incentrate su angeli, tenebre, sangue e amore finito: colonna sonora perfetta per film come “Twilight” e affini. “In Your Lies” si prosegue sulla stessa linea d’onda della precedente, se non per l'inserto di una voce femminile che sottolinea le tematiche meste e desolate: tastiere e chitarra sono all'ordine del giorno, come anche gli archi e la voce pulita e tenue. Con “Hopes” ci si desta dallo stato catatonico in cui si è caduti e si è più spronati a risorgere, cercando di lasciarsi alle spalle tutti i pensieri negativi: finalmente una song che dopo tanta negatività ci dona un barlume di speranza, come il titolo dice. “Death is Your Name” e “Dawn of Love” si avvicinano più a sonorità doom, una vera sorpresa dopo tanta elettronica: un momento di totale relax per la mente, dove da padrone sono le chitarre pure e semplici, con la voce che pare provenire dalle viscere della terra, quasi demoniaca per quel suo estremo growling, dopo averla sempre sentita pulita. “Evil One” è la copia sputata di “Misery”, più electro-industrial sulla scia dei già citati Deathstars, mentre “Mistress, Goodnight” recupera le sonorità di “Life Equals Zero”. L'album si chiude con “Don't Say Goodbye”, caratterizzata da pianoforte e violoncello, oltre alla voce sussurrata e dolce: scelta azzeccata, volendo restare sempre in tema gotico e lugubre. Non può però mancare la parte di chitarra, chiara espressione della tristezza e della disperazione più profonda. Nonostante i Sad Dolls siano una band giovane e influenzata dal sound dei finnici Him, saranno di sicuro in grado di sorprendere e di creare lavori sempre migliori. Quindi sarà meglio tenerla d'occhio, in quanto hanno ancora ampio margine di miglioramento. (Samantha Pigozzo)

(Emotion Art Music)
voto: 70

Sancta Poenas - Artificiell Gnosis


Disturbati e disturbanti. Parafrasando un noto adagio, non bisognerebbe mai giudicare un album dalla copertina. Io però voglio essere sincero: mi capita spesso di farmi un’idea mentale del contenuto dal contenitore. Delle volte le due cose hanno una certa continuità. Prendiamo l’immagine frontale di questo Cd: lisergica, contorta, vagamente disturbante. È un ottimo viatico della musica contenuta. Questa band, formatasi nell'autunno del 2007 da Jimmy e Niclas in Svezia, originariamente era chiamata “Sanctus Pathos”. All'inizio del 2008 si uniscono TH e Marcus ed il nome cambia in "Sancta Poenas”. Ecco quindi la line-up: Niclas (testi, voce), Jimmy (chitarre, composizione, canto), TH (basso) e Marcus (batteria). L’immagine prevalentemente evocata è oscura, indefinita, strisciante, angosciante. Visivamente penso a quei quadri espressionisti tedeschi astratti di metà ‘900, tipo quelli di Hans Hofmann. Sembra di stare in quella zona della coscienza in cui si è a metà via tra la veglia e il sonno, dove i pensieri corrono senza controllo, si compenetrano e formano degli arazzi interminabili. I pensieri sono cupi e tuttavia il loro defluire è aggraziato. Similmente le canzoni dell’ensemble svedese sono ora molto armoniche, ora dissonanti, con ritmi lenti, sognanti. I cantati, calmi nonostante la durezza della lingua svedese, si alternano repentinamente a parti sussurrate, ad altre urlate, alcune persino disperate. Gli innesti elettronici sono spesso distorti e reiterati in maniera quasi malata. Ritmicamente si notano alcuni cambi di cadenza, tuttavia la velocità non ha accelerazioni e fughe. Tutto ciò si amalgama nelle 6 tracce. Se ascoltate l’album tutto d’un fiato, dopo le prime due songs, avrete la sensazione che anche le canzoni si mescolino tra loro, che i confini tra l’una e l’altra si facciano nebbiosi, si perdano, formando un tutt’uno quasi continuo. Un vero punto di discontinuità si trova nella lunga “Geschtonkenflopped”, in cui vi è una parte recitata prolungata, che sembra tratta da un film. Più omogenee le altre tracce. “Artificiell Gnosis”, che apre il disco, è la più elegante della produzione. Sfuggente, inquietante, con suoni di pianoforte che partono limpidi e poi mutano in distorti. “Svårmod” chiude in una maniera per nulla rassicurante. La produzione poi, mi ha spiazzato fin dal primo ascolto, impegnandomi a risentirla più volte, cercando di carpirne l’anima. Un plauso per la componente grafica, molto bella e coerente con l’anima del disco. L’uso degli allucinogeni, come l’acido lisergico, negli anni ’70 era previsto per aumentare la propria percezione del mondo, indurre la sinestesia, l’espansione dei sensi, “sentire” i colori, portare a bei viaggi, ma anche ad alcuni spiacevoli. Ad un tipo di “conoscenza artificiale”... a proposito, qual era il titolo dell’album? (Alberto Merlotti)

(Self)
voto: 70

Nihilosaur - The End is Within Sight


Un bel pugno, un martellamento bellico di chitarre. Non ho una grande passione per gli album troppo lineari. Ascolto con maggiore interesse lavori che diano spunti diversi, eclettici. Tuttavia in certi casi, questa coerenza può essere stimolante. Polonia, da qui arrivano i Nihilosaur. La band si è formata nel 2005 (da ex membri di The Analogs, Felicite Pueros, Wise Squit, Dzieci, Baby Blue Eyes) ed ecco i membri: alla voce Pawel ‘Mazak’ Mazur, alla chitarra Wojtek Nadolny, al basso Artur Ciechorski ed alla batteria Ziemek Pawluk. Nel 2006 esce il loro primo demo, seguito nel 2007 da questo “The End Is Within Sight”, che solamente ora finisce tra le mie mani. Ma tranquilli, non aspettatevi nulla di strabiliante. Non troverete né novità, né fusione di generi e stili, tanto meno alchimie sonore. Ascolterete piuttosto chitarre spianate, riff potenti ripetuti allo sfinimento, batterie rutilanti ed un cantato growl ridotto ai minimi termini. Un disco cocente, ma non originale. Punto di forza è senza dubbio la potenza perpetrante delle chitarre ed il pregevole livello tecnico nelle esecuzioni. I Nihilosaur mi hanno circondato di un mare di accordi potenti e reiterati, accordi scarni, condotti dalla chitarra e dal basso spaventosamente metal mentre il lavoro dietro alle pelli di Ziemek si perde, in questo mare. La voce del singer non varia quasi mai con la sezione canora davvero ridotta al lumicino. Ed è un bene sia così, poiché le doti canore di Mazak non sembrano poi cosi eccelse. Potenza come non ne sentivo da un po’. Concludendo tra up e down, nonostante la mancata originalità, la lunghezza talvolta noiosa di alcune canzoni, la possibile pigrizia compositiva, va detto che il cd è registrato bene e se ne consiglia l’ascolto a chi è saturo di generi meticci ed è invece alla ricerca invece di un muro armato di metal. (Alberto Merlotti)

(Self)
voto: 65

Dekadent Aesthetix - Dekadent Aesthetix


Altro duo questa volte proveniente dalla Romania a turbare i nostri sonni tranquilli. Emi (responsabile di tutti gli strumenti) e Cosmin (vocals), costituiscono questi strani Dekadent Aesthetix che sfoderano come prima prova un concentrato davvero interessante di black metal che incorpora al suo interno sonorità provenienti dai più disparati ambiti musicali. Sebbene si tratti di una produzione minimalista decisamente low cost, devo sottolineare che la masterizzazione è stata fatta ai Unisound Studios, da sua maestà Dan Swano (Nightingale, Bloodbath, Edge of Sanity, Katatonia). Il contenuto? Dicevamo che affonda le sue radici nel black metal primordiale, ma da li poi una girandola di umori ed influenze emergono più forti che mai. Superata l’enigmatica intro, ecco subito emergere la forte personalità del duo rumeno: chaos black, soffuse atmosfere shoegaze/post rock, voci industrial, in un turbinio disorientante di musica dal forte impatto emotivo. Che diavolo succede, dove mi trovo sono le uniche parole che riesco a proferire al termine di “Plethora”. Con “Suicide Hobby”, la musica non cambia e anzi, i nostri ci mostrano che anche senza budget faraonici è possibile produrre musica con le palle, dotata di rabbia dalle venature poetiche. Quarta traccia dedicata alla cover electro pop “17” dei Ladytron; con la successiva “Track 0”, si parte in sordina con un arpeggio acustico, risa di una donna e parole sussurrate in rumeno in una sorta di danza amorosa tra due innamorati. “Rock’n’Roll Machine” mostra un altro lato della band rumena: una sorta di song dal vago sapore stoner-psichedelico, con vocals alcoliche e screaming blacksters, un trip in un mondo malato ma è solo l’abuso di acidi a turbarci le nostre menti inizialmente sane. Ancora una volta non capisco cosa stia succedendo al mio cervello, troppi sono gli impulsi che alterano la mia rete neuronale, sollecitati dalle sonorità completamente schizofreniche di questo duo di pazzi scatenati. Perversi, imprevedibili e folli, signori e signore vi presento i Dekadent Aesthetix… (Francesco Scarci)

(GoatowaRex)
voto: 75