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domenica 10 aprile 2016

Teverts - Towards the Red Sky

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Alternative
Se sentite il bisogno di un disco ruvido, oscuro e ricolmo di energia incendiaria, i Teverts fanno al caso vostro. Il progetto è orgogliosamente italiano, i ragazzi sono di Benevento, cattivi come il veleno. Un primo disco è uscito nel 2013 intitolato 'Thin Line Between Love & Hate' ed ora abbiamo tra le mani 'Towards the Red Sky' che ci arriva tramite la Karma Conspirancy Records. La copertina è suggestiva e rende giustizia alla musica: corvi famelici e possenti con i cactus che si stagliano davanti ad un gigantesco sole rosso. L’attitudine è stoner non scevra però dalla sperimentazione e dalle derive psichedeliche. I trenta minuti scarsi di questo LP scorrono velocemente e accendono gli animi, come fare rafting in un fiume in piena. Le chitarre, gigantesche, sembrano quasi bruciare ad ogni accordo e la voce al napalm di Phil Liar, che ricorda a tratti il compianto Lemmy Klimster e a tratti King Buzzo, è come vento sulle braci. Dino Sauro e Head Bomb, rispettivamente basso e batteria, sono talentuosi strumentisti che oltre tutto non si prendono poi così tanto sul serio. A parte la vena ironica della band, quello che passa chiaramente è che non c’è nessuna paura di andare avanti, nessun ostacolo può fermare la cavalcata di 'Towards the Red Sky', tutto viene travolto e divorato. La prima song “Control” fa subito capire in che direzione andiamo, con pensanti riff sabbathiani, assoli lisergici in stile Josh Homme e un incedere da panzer tedesco. La title track non è per niente da meno, grazie alle sferzate di chitarre distorte dritte in fronte e lanciafiamme alla mano. Quella dei Teverts non è rabbia, è voglia di arrivare, una tensione all’esplorazione e una ferma convinzione di proseguire sul percorso intrapreso. Avanzando verso il cielo rosso incontriamo “Charles Dexter Ward”, in cui lo stile è quello dei Melvins sia nella scelta delle note che nel modo di cantare, tuttavia il titolo del pezzo nasconde una storia interessante. Questo strano nome è infatti preso da un romanzo del maestro dell’horror H.P. Lovecraft: si tratta della storia di un ragazzo, appunto Charles Dexter Ward, che, ossessionato dalla fama di stregone di un suo lontano parente, inizia a praticare le arti magiche oscure finendo quasi per perdere la ragione. A proposito di “Two Coins on the Eyes” invece vi è uno strana somiglianza con “Blue” degli A Perfect Circle, non facilmente individuabile perché il sentimento dei Teverts è nettamente più disilluso e impassibile rispetto agli eterei e sognanti APC, ma la parte di batteria e alcune lunghezze risultano simili, a riprova della capacità dei Teverts di iniettare diversi stili nella propria musica, riuscendo ad allargare la normale portata dello stoner inteso in senso classico, cioè per come ci è stato donato da band come Kyuss e Fu Manchu. Degno di nota e sicuramente di un ascolto è poi la particolarissima chiusura del disco, “Sanctuary”. L’intro ricorda ambienti dei Pink Floyd che vengono trasfigurati in un vortice di un cinico e impetuoso stoner per poi ritornare graziosamente calmo e sfociare infine nel silenzio. 'Towards the Red Sky' è un concentrato di fiamme e roccia, un viaggio verso il tramonto nella consapevolezza che il sole, come ogni giorno, sparirà dietro le montagne. (Matteo Baldi)

(Karma Conspirancy Records - 2016)
Voto: 85

sabato 9 aprile 2016

Soijl - Endless Elysian Fields

#FOR FANS OF: Death/Doom, Officium Triste, Red Moon Architect, Et Moriemur
After several years of inactivity, Swedish doom/death project Soijl brings about a rather simplistic and minimalist approach to the genre that’s certainly quite decent enough in it’s approach. Revolving around a simple swirling guitar-and-keyboard heavy framework here, this gives off a series of lethargic-to-slow paced efforts built around those swirling riffing patterns and haunting melodic keyboard work as the drumming keeping the pace behind it all dominate the album overall to the extent of forsaking everything else. Even with this minimal approach here, there’s a rather intriguing dynamic throughout here in that this type of astrological-styled minimalism manages to come off entirely enjoyable and convincing with the plodding rhythms and making for a much more celestial-flavored aspect on display than would otherwise be the case here. It’s still pretty slow-going and lumbers along at a sluggish pace, though it’s still somewhat energetic at times when it gets going. It’s just not often enough here due to the slower pace. The opening title track takes a strong lilting riff around plodding paces filled with celestial patterns that work nicely along through the slower rhythms churning along to the simplistic and minimalist environments throughout the final half for a solid opening here. ‘Dying Kinship’ offers swirling riff-work thumping along with the celestial melodic patterns against the minimalist atmosphere that plods along throughout as it changes into a more lively and engaging epic celestial melodies into the finale for another solid effort overall. ‘Swan Song’ features a light series of swirling celestial rhythms and simple drumming as the haunting rhythms throughout here bring along plenty of plodding beats with the swirling riff-work leading into bigger chugging patterns in the final half for a decent enough track. ‘The Formation of a Black Nightsky’ immediately takes the celestial swirling patterns along the sluggish chugging with plenty of tight patterns leading along through the scorching riff-work coming along through the mid-tempo riffing in the final half for an enjoyable and impressive highlight. ‘Drifter, Trickster’ takes an extended, long-winded series of swirling riffing and plodding tempos accompanied by the rather tight drumming bringing along the driving riff-work leading the celestial patterns through a series of tight swirling patterns through the finale for a fine if slightly long-winded effort. ‘The Cosmic Cold’ features a strong swirling series of riffing with plodding rhythms augmented by the occasional mid-tempo gallop and urgent chugging riffing off-set against the celestial swirling rhythms throughout the final half for another strong and enjoyable effort. Finally, ‘The Shattering’ takes swirling rhythms and plodding rhythms bringing along the slower pace here with the different engaging melodic patterns keeping the tight, flowing celestial arrangements keeping the tight patterns and swirling rhythms in line through the finale for an overall decent lasting impression. It’s good enough to be enjoyable though it comes off a tad too long. (Don Anelli)

(Solitude Productions - 2015)
Score: 80

Sleepers’ Guilt - Kilesa

#PER CHI AMA: Groove Death, Soilwork, Dark Tranquillity, Megadeth
Iniziano col botto i lussemburghesi Sleeper's Guilt, che dopo un paio di EP, vanno a debuttare sulla lunga distanza nientedimeno che con un doppio album, 'Kilesa'. L'ambizioso lavoro conta dieci tracce nella sua prima parte e tre lunghi brani per trenta minuti nella seconda, il tutto sotto l'egida di André Alvinzi e Tony Lindgren, ai rinomati Fascination Street Studios in Svezia (Katatonia, Opeth, In Flames tanto per citarne qualcuno). La cosa che mi ha stupito immediatamente, dando uno sguardo al digipack, è il supporto ricevuto dal Ministero della Cultura lussemburghese per la realizzazione del cd, avanguardia pura! Iniziando ad ascoltare il disco, quello che si apprezza maggiormente, oltre alla pulizia (inevitabile) dei suoni, è il quantitativo esagerato di groove che risiede nel disco, che lo rendono decisamente accessibile, pur collocandosi nell'ambito di un death metal di scuola Soilwork. Qui però le ritmiche sono meno esasperate rispetto ai più famosi colleghi svedesi e buona parte del lavoro viene lasciato al cesello artistico delle due asce che contribuiscono nel forgiare splendide linee melodiche, elaborati orpelli chitarristici, resi ancor più interessanti dagli ottimi arrangiamenti orchestrali che contraddistinguono l'intero platter. Cosi è assai facile avvicinarsi alla opener "Sense of an Ending" (dove compaiono nelle sue linee melodiche anche un violino e un violoncello) o alla successiva "Two Words", dove tonnellate di granitici riffs vengono prodotti e confezionati a dovere, per essere dati in pasto ad una fetta assai ampia di pubblico. Il risultato è del sano e grondante groove (in stile Scar Symmetry) che riempie ogni singolo spazio del disco, soprattutto a livello solistico. Quando c'è da spingere il piede sull'acceleratore, il quintetto di Dippach non si fa certo pregare ("Scars of War"), con i risultati che si confermano sempre eccellenti, merito di una già acquisita maturità artistica, di un certo gusto compositivo e di una buona maestria strumentale. Gli Sleepers’ Guilt sanno mostrare anche il loro lato più gentile ("Angel Eyes") con una intro che sa quasi di ballad, prima di esplodere in una tonante fase ritmica in cui, oltre alle graffianti chitarre del duo formato da Chris T. Ian e Manu De Lorenzi (sembra esserci anche un po' di Italia nei nostri), è l'ottimo growl di Patrick Schaul ad emergere; da urlo poi l'assolo conclusivo. Se "I Am Reality" ha modo di strizzare l'occhiolino anche al djent dei Tesseract, con "The Mission" (e pure in "Dying Alive") i nostri si rilanciano nel costruire muri ritmici che compaiono peraltro anche nel nuovissimo disco dei Megadeth, il che dovrebbero indurre anche gli amanti di sonorità thrash e heavy progressive ad avvicinarsi a questo lavoro. Lo dicevo all'inizio, 'Kilesa' è un album che può aprirsi ad un pubblico ben più vasto di quello death metal, il tempo mi darà ragione, ne sono certo. Nel frattempo, le song si alternano con fortuna nel mio lettore: "Teardrop Bullets" ha un approccio assai catchy in un'altra semiballad che strizza l'occhiolino ai Dark Tranquillity di 'Projector'; "Supernova" continua a citare i gods svedesi del Gotheborg sound, mentre l'ultima strumentale "Not For Words", funge da chitarristico outro al disco. Menzione a parte per il secondo disco, contenente i tre lunghi brani che si muovono da "Kleshas" song presa in prestito a livello ritmico da uno degli album centrali della discografia dei Sepultura ('Chaos AD' o 'Roots') che però evolve dinamicamente verso ritmiche serrate alternate a frangenti etnici, il che si discosta dalla proposta contenuta nel primo dischetto. Tutta da decifrare poi la seconda parte del pezzo, con un assolo hard rock che spiazza non poco e un finale affidato a female vocals, per una songs indecifrabile stilisticamente quanto mai interessante a 360°. "Akusala-Mula", il secondo brano, è un altro concentrato di sonorità death grooveggianti che potrei ricondurre ad altre mille band (in ordine sparso, Meshuggah, Megadeth, Tristania), cosi come a nessuna e in cui a prestar la propria voce c'è un'altra gentil donzella (da rivederne però la prova). A chiudere il disco ecco il folk acustico di "Vipassana" che nella sua imprevedibile evoluzione, avrà modo di solcare i sentieri del death offrendo anche tiratissime ritmiche dal vago sapore black. Tanta carne al fuoco con i 13 brani totali di questa release che sicuramente non avranno modo di annoiarvi, ma anzi sapranno catturare i vostri sensi cosi come hanno fatto col sottoscritto). Bravi! (Francesco Scarci) 

(Self - 2016)
Voto: 75

The Shiva Hypothesis - Promo 2015

#PER CHI AMA: Black/Death
Arriva dai Paesi bassi questo quartetto agguerrito e dal sound tanto radicale, immerso nel soundblast più viscerale del black metal e vicino a certe realtà trasversali degli ambienti avantgarde metal. Il confine tra i due generi è sempre labile e molte volte viene oltrepassato, spesso sormontandosi a vicenda, donando sfumature e colorazioni diverse alla musica dei tre brani che formano questo demo autoprodotto. Ottima la qualità di scrittura, varia ed equilibrata, buona la produzione curata dal cantante MvS assieme ai suoi compagni. Tutti musicisti competenti e navigati che danno prova delle loro capacità sfornando tre suite di tutto rispetto, unendo raffinatezza, potenza, velocità e fantasia, nel nome di Dodheimsgard, Enthroned e Mgla, Voce maligna e ritmi incalzanti ad alto contenuto tecnico, strumenti ben amalgamati fra loro, momenti musicali in chiaroscuro dal risultato certo e gratificante, venature progressive, senza mai dimenticare una matrice al vetriolo di natura black/death e thrash metal nera come la pece. Venti minuti di puro cataclisma sonoro, curato e rivestito di oscura, agghiacciante, buia e profetica allucinazione (anche nel nome dei God Dethroned) a sostenere il significato di un nome dai richiami apocalittici com'è The Shiva Hypothesis. L'ipotesi di Shiva è una teoria scientifica esogeologica chiamata, in nome del dio della distruzione degli Hindu, che intende spiegare un apparente schema nelle estinzioni di massa causate da eventi di impatto (cit. wikipedia). Questo promo cd, uscito nel 2015, lascia ben sperare per il futuro e non deve passare inosservato, cosi come buona e inaspettata anche la cover dei Nasum fatta uscire su bandcamp a febbraio di quest'anno che rinforza le nostre speranze per l'avvenire di questa band. Aspettiamo il full length ora. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 70

Cult of Occult - Five Degrees of Insanity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, primi Cathedral
Quando si dice "non è certo una passeggiata" mi vengono in mente le asperità che ho affrontato nell'ascoltare questo tormentato disco dei francesi Cult of Occult. 'Five Degrees of Insanity' è il terzo album dell'act transalpino, che in cinque brani raggiunge la considerevole durata di 70 minuti poco più. La band di Lione ha da offrirci il proprio malsano sound fatto di sonorità sludge doom a dir poco claustrofobiche, che hanno scomodato dalla mia memoria storica, i Cathedral di 'Forest of Equilibrium'. Già proprio dall'iniziale e delirante "Alcoholic", lo spettro sinistro di Lee Dorrian e soci dell'album d'esordio, è rievocato in un disco dal difficile approccio, ma che ha nelle sue corde, aspetti sicuramente intriganti e pregni di contenuti. L'incedere è mortifero e ipnotico, debitore sicuramente di act quali Black Sabbath e Saint Vitus, ma qui riletti in chiave ancor più asfissiante e apocalittica che si spingono quasi al limite del funeral. La durata poi del brano, quasi 15 minuti, non aiuta di certo un ascolto easy listening, in quanto è richiesta una totale immersione sonora nella criptica dimensione dei Cult of Occult e un ascolto, per ovvi motivi, attento, per non lasciarsi sfuggire sfumature e molteplici altri dettagli qui contenuti. Quando in cuffia ti senti montare poi il riffing marziale di "Nihilistic", puoi solo sentire i polsi tremare e farti sopraffare dalla pericolosità di atmosfere raggelanti e vocals demoniache. In realtà il brano non acquisisce mai velocità o pesantezza, continua lungo i suoi 12 minuti a tenere il passo con il suo monolitico riffing infernale. Ci penseranno invece i 16 minuti di "Misanthropic" a catapultarvi nei più profondi abissi infernali con un ferocissimo attacco black che dopo pochi frangenti preme violentemente sul pedale del freno, facendoci impantanare nel distretto delle sulfuree pozze del doom più melmoso e ossessivo. Qui l'asfissia dovuta allo zolfo si fa assai pesante e insopportabile e la necessità di trovare una bolla d'aria sempre più impellente per potere uscire dalle sabbie mobili di un sound che ha addirittura da offrire intermezzi psych-space rock. Non lasciatevi però troppo ingannare da queste mie parole, la proposta dei Cult of Occult continua ad essere ostica e neppure la più breve "Psychotic" sarà per noi la classica e piacevole "scampagnata" della domenica: i suoi dieci minuti infatti, continuano nella malsana direzione fin qui imboccata da questi misteriosi musicisti, che in questo caso arrivano a saturare il proprio psicotico sound doom anche di suoni drone, che echeggiano fino alla conclusiva "Satanic", quando finalmente ci troveremo al cospetto della bestia. Infernali! (Francesco Scarci)

(Deadlight Entertainment - 2015)
Voto: 70

mercoledì 6 aprile 2016

Pearls Before Swine – Lay the Burden Down

#PER CHI AMA: Grunge/Stoner, Alice in Chains
Se decidi di usare per la tua band lo stesso nome di un’oscura formazione di culto degli anni sessanta, devi accettare il fatto che, almeno all’inizio, ogni ricerca in rete relativa a quel nome restituisca nelle prime due pagine di risultati solo indirizzi relativi a quel gruppo. A questo punto, quindi, non rimangono che un paio di opzioni: o si cambia nome o si diventa molto piú famosi degli altri, come pensarono bene di fare i Nirvana (sfido infatti oggi ricordarsi degli altri Nirvana). Così, mentre “quei” Pearls Before Swine erano lo pseudonimo dietro il quale Tom Rapp celava le sue psicosi apocalittiche riversandole in dolcissimi dischi psych-folk dalle copertine che riproducevano Bosch e Bruegel, questi altri sono un trio proveniente da Münster, Germania, usciti sul finire dello scorso anno con questo loro secondo EP, ricco di spunti interessanti tanto quanto lasci intravedere ampi margini di miglioramento. Grunge e stoner gli ingredienti alla base di una ricetta che, se non brilla certo per originalità, si fa apprezzare per passione e sostanza. Se l’iniziale “Valar Morghulis” è uno strumentale piuttosto innocuo, la successiva “Misfortune Cookies” ci riporta immediatamente nella Seattle di metà anni 90, tra Alice in Chains, Screaming Trees e Mad Season, anche per via dell’impressionante somiglianza della voce del vocalist con quella di Layne Staley. Allo stesso modo in ”On My Own”, blueseggiante come potevano esserlo i Temple of the Dog, e nella conclusiva “Shattered Dreams”, dalla lunga intro orientaleggiante, i nostri pescano a piene mani da quello stesso florido bacino e lo fanno con il giusto rispetto, quasi timore reverenziale, riuscendo però a cogliere nel segno anche e soprattutto grazie a capacità di scrittura decisamente sopra la media, tanto che questi tre brani non sfigurano nel confronto con le fonti di ispirazione. Resta da dire di una “I, Jekyll” non proprio a fuoco nel suo voler essere troppe cose e nessuna, e di un artwork non proprio memorabile e forse anch’esso nostalgico degli anni '90. Al netto di qualche ingenuità, la stoffa è evidente, e personalmente sono molto curioso di assistere a sviluppi futuri. Attesi alla prova di un album intero, con l’augurio che possano in futuro comparire come primo risultato di una ricerca in google (per il momento, direi che Tom Rapp può dormire sonni tranquilli). (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

martedì 5 aprile 2016

Black Reaper - Flames of Sitra Ahra

#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection
Dalla Cina, Fujian per la precisione, arriva questo cd datato dicembre 2014 e firmato Black Reaper, giovane duo formatasi nello stesso anno, noto per essere la prima black/death metal band conosciuta in patria, che ha visto sfociare la propria ispirazione in un EP uscito sotto l'ala protettrice della formidabile Pest Productions, un album in perfetta sintonia con le atmosfere promosse dall'etichetta black/folk/dark metal di Nanchang. Suono tagliente, radicale, gelido e underground, sferragliante, primordiale ed essenziale, rude, reale e senza fronzoli. Si tratta di un evocativo black/death metal dalle tinte urticanti e violentissime, fatto di riff veloci e al veleno, espressi ad ogni battuta per una sequenza di quattro brani di media/lunga durata e notevole velocità, una produzione buona per gli amanti del genere trattato dalla label cinese, da evitare invece fuori dagli ambienti underground. 'Flames of Sitra Ahra' tocca buone vette di epicità e maleficio in alcuni suoi brani tra cui il secondo, "Marching Towards of Infinity" e il terzo, "Heavenless", dai toni thrash molto accesi, graffianti e ossessivi. Lo screaming incarna poi perfettamente il tipo di musica e la band sembra già in ottima sintonia. I due giovani musicisti certamente godono di una forte personalità, cosa che li porta a proporre come quarto brano una cover dei Dissection ("Soulreaper") e per assurdo un quinto brano che è una composizione classica scritta ed eseguita dal dinamitardo Kakophonix (vedi anche Hvile I Kaos, Empyrean Throne) con il suo violoncello infernale. L'aggiunta di questo brano finale spiazza un po' l'ascoltatore ma rende bene l'idea della linea anticonformista, che la Pest Productions e le sue band intendono mantenere per far convivere black, dark, folk e musica classica, tutti nella stessa oscura residenza. 'Flames of Sitra Ahra' non sarà un EP fondamentale ma di sicuro interesse. Un buon lavoro uscito per una etichetta assai rispettabile e coerente con le proprie indipendenti idee artistiche. (Bob Stoner)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 70

Black Vulpine - Hidden Places

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Queens of the Stone Age
Stoner-doom dalla Germania, precisamente da Dortmund. Solo che questa volta non si tratta di energumeni barbuti (non tutti, per lo meno), ma di un quartetto che vede alle chitarre e alla voce due ragazze di aspetto quanto mai gentile e pacato. Questi sono i Black Vulpine, e il loro esordio sulla lunga distanza, dopo un demo nel 2013, è uno di quelli che potrebbero (e dovrebbero) fare rumore. 'Hidden Places' è un bel disco di stoner fortemente influenzato dai Queens Of The Stone Age, senza disdegnare puntate doom psichedeliche, che colpisce per potenza, maturità e una certa originalità, non fosse altro per l’immagine pulita e quel senso di innocenza e fragilità che tanto contrasta con i watt sprigionati dal gruppo. I tour a supporto di band come i Kylesa, hanno permesso di cementare un’intesa e un suono che appaiono granitici, riuscendo a valorizzare al meglio la bella voce della cantante, allo stesso modo dolce, sinuosa e potente - senza essere urlata - e con un certo mood vintage. E se brani come l’opener “Twisted Knife”, una potenziale hit, seguono in maniera piuttosto fedele il canovaccio tracciato dai QOTSA (“Drowning in Lakes” potrebbe essere un’outtake di 'Rated R'), i Black Vulpine piacciono di più quando riescono ad affrancarsi dal modello, allentano la presa sulle briglie e tentano qualcosa di più personale, come le sortite psych di “Dark Glow”, la chitarra acida di “Mother of Pearl” o l’incedere vischioso di “Devil’s Blanket”, un terzetto di tracce in sequenza in cui sono più evidenti le vibrazioni occult doom che donano all’atmosfera un che di sinistro, contribuendo ad innalzare il fascino di un disco davvero di alto livello. Se proprio bisogna fare un appunto, si potrebbe denunciare un’eccessiva uniformità di atmosfere, che non è per forza un difetto, ma forse una maggiore varietà e alternanza di vuoti e pieni avrebbero giovato all’album, soprattutto alla lunga (sono 46 minuti ma sembrano qualcuno di più). Sono però dettagli, che non intaccano il giudizio su un lavoro di prim'ordine, in un genere dove è sempre più difficile avere qualcosa da dire. (Mauro Catena)

(Moment of Collapse - 2015)
Voto: 75