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giovedì 28 novembre 2019

Kenneth Minor – On My Own

#PER CHI AMA: Rock Blues
Arriva dalla Germania l'acclamato terzo album dei menestrelli di Wiesbaden Kenneth Minor, premiati qua e là per i precedenti lavori e dopo aver suonato un po' ovunque in giro per l'Europa. Musicalmente si vedono evoluzioni stilistiche più intime e pop, la produzione è molto buona, forse troppo chirurgica e leggermente fredda, manca infatti un po' del sudore e della polvere del blues, mentre country e folk si fanno sentire, anche se non sempre con un carisma e calore perfetti. Più sporco sarebbe stato meglio, un errore forse legato alle tecnologie digitali moderne che hanno colpito anche i Rolling Stones nella loro ultima fatica. I brani filano e la voce nasale di Bird Christiani s'intreccia bene con quella di Athena Isabella ("Fed Up" – "Hidden Berries"), evocando il ricordo della mitica coppia Johnny Cash & June Carter in una forma più consona all'epoca attuale. Il blues sporcato di punk rock si presenta in "Wrap up a Deal", brano dinamico dotato di una buona verve e bei suoni, ma con modi troppo pop per poter esprimere una certa rabbia. Non male anche il blues fumoso di "On My Own" ma ai Kenneth Minor le vesti più intime del folk si prestano di più, cosa che emerge con forza nei riff della ballata "True", brano scarno fatto di voce/chitarra/armonica dal sapore rurale, di terra e cieli aperti, sognante e riflessiva allo stesso modo, in puro stile Dylan. In verità, la figura acustica ed elettrica del vecchio Bob si aggira spesso tra le note della band, cosa non disdicevole che non passa inosservata. Anche l'estro alla Andy White non sfigura nello stile dei nostri, associato peraltro ad una esposta vena alla Fab Four, ("Bad Conscience Blues" ricorda con il suo lento incedere da funerale "The Importance Of Being Idle" degli Oasis), forma un sound maturo e coinvolgente. In "Dash of Sadness" emergono per una manciata di minuti, cenni di sperimentazione tra le retrovie ritmiche vicine al Tom Waits dei giorni più acidi ma poi tutto torna alla normalità con una coda conclusiva che si divide tra umori rock alla Steve Earle, là dove il campo di suoni diviene più colorato e psichedelico, grazie all'ingresso delle tastiere e la perfetta chiusura con tributo finale al mito Neil Young di "My My, Hey Hey (Out of the Blue)". Un disco derivativo ma di certo ben fatto. (Bob Stoner)