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venerdì 5 maggio 2017

Gli Altri – Prati, Ombre, Monoliti

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Screamo
A volte, oggi più che mai, diventa difficile riuscire a tenere dietro a tutte le uscite interessanti che costellano l’underground italiano e non. Capita quindi di perdersi qualche pezzo per strada, pure quando il pezzo in questione è una cosa che avevi visto e ti eri segnato per tempo. Arrivo quindi un po’ in ritardo a parlare di 'Prati, Ombre, Monoliti', secondo album dei liguri Gli Altri, di cui avevo particolarmente amato l’esordio 'Fondamenta, Strutture, Argini', che nel 2013 aveva scosso la mia personale percezione del panorama post-hardcore italiano con un punto di vista che univa l’esperienza di band fondamentali come Fluxus, Massimo Volume e Marnero, alternandole ad esplosioni di rumore incontrollato. Tre anni dopo qualcosa è cambiato nel suono de Gli Altri e questo nuovo lavoro, co-prodotto da un qualcosa come 38 (se non ho contato male) etichette indipendenti internazionali, fotografa una band straordinariamente affiatata e focalizzata verso un genere meglio codificato, quello screamo che potrebbe avere i Raein come punto di riferimento, ma che forse perde un briciolo di originalità. Ora la formazione si è allargata con l’ingresso di un violino che aggiunge nuove sfumature, e i testi si fanno dichiaratamente più politici e universali, declinando in “noi” e “voi” quello che nell’esordio era più intimo e personale. Dieci brani in meno di mezz’ora che sono un concentrato densissimo di suoni e parole, una musica che si fa furiosa e serrata senza per questo rinunciare a strutture complesse e articolate, tanto da richiamare più volte un paragone illustre con gli At The Drive In di 'Relationship of Command'. Non c’è tempo per riflettere qui dentro, nemmeno quando le parole lo richiederebbero ("Idomeni", "Oltre la Collina", "Nuovo e Diverso da Te"); si viene investiti da un’onda che toglie il fiato e ti prende a schiaffi, costringendoti a guardare in faccia un mondo da cui distogliamo troppo spesso gli occhi. Doloroso e necessario. (Mauro Catena)

(Santavalvola Records/Taxi Driver Rec/DreaminGorilla Records & molti altri - 2016)
Voto: 75

https://glialtri.bandcamp.com/album/prati-ombre-monoliti

giovedì 4 maggio 2017

Kinit Her - The Blooming World

#PER CHI AMA: Avantgarde/Musica Medievale/Psichedelia/Ambient
Immaginate Angelo Branduardi, Enya e i Mumford & Son fatti di allucinogeni; ora, dategli in mano strumenti medievali, trattati di esoterismo ed una manciata di campioni elettronici, tritate il tutto per bene, e avrete i Kinit Her. Troy Schafer e Nathaniel Ritter sono le menti dietro questo progetto arcano e sperimentale, che unisce musica corale, folk, psichedelia e musica classica in un disco perfettamente prodotto ('The Blooming World' è addirittura il dodicesimo album per i Kinit Her, attivi ormai da oltre 7 anni!). Il songwriting è fortemente influenzato dalla scrittura medievale, condita da una forte volontà avanguardista: non aspettavi quindi ritmiche decise, né battute in quattro, né una forma canzone tradizionale. Chitarre acustiche e percussioni danno la struttura (“Learning Conveyed in Daylight”), ben supportate da string e da una per nulla artificiale elettronica sullo sfondo (“Blooming World”), che pure si concede episodi più ambient (“Opposition”). E poi voci, voci e voci; cori che decantano formule magiche e versi arcani; sussurri, intonazioni orientali, vocalizzi lontani, cantiche gregoriani, litanie inquietanti. Siamo di fronte ad un lavoro che è assolutamente fuori dal tempo e dallo spazio (i Kinit Her sono del Wisconsin, ma questo disco è internazionale — pesca a piene mani dalla tradizione musicale orientale e occidentale, passata e presente), un viaggio acustico e interstellare in un universo oscuro e inconoscibile. Per pochi. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://kinither.bandcamp.com/

mercoledì 3 maggio 2017

Combat Astronomy – Symmetry Through Collapse

#PER CHI AMA: Jazz-core/Industrial/Noise/Ambient
Ogni nuovo lavoro della creatura di James Huggett è guardato da queste parti con grande attenzione e, vale la pena dirlo subito, anche questa volta l’attesa è stata pienamente ripagata da un’esperienza d’ascolto davvero intensa e appagante. A due anni e mezzo da quell’oscuro capolavoro che era 'Time Distort Nine', i Combat Astronomy tornano a riproporre il loro impossibile mix tra industrial, sludge, doom e free jazz, alzando ancora di più la posta in gioco. Accanto ad Huggett (basso, diavolerie elettroniche varie e produzione), e sempre più Deus Ex Machina del progetto, troviamo nuovamente gli straordinari Martin Archer (sax e tastiere) e Peter Fairclough (batteria), occasionalmente supportati dalla chitarra di Nick Robinson e dal violino di Wesley Ian Booth; questa volta a prendersi gran parte della ribalta è però Dalila Kayros, una ragazza sarda che i più attenti avranno già incrociato come voce dei post metallers Syk e soprattutto in quel gioiello di sperimentazione vocale che era 'Nuhk', esordio in solitaria datato 2013. Per chi non la conoscesse, Dalila ha una voce straordinaria, con una timbrica che ricorda da vicino quella di Björk, e che con il folletto islandese condivide la passione per la ricerca e l’esplorazione delle possibilità vocali, anche se il suo approccio è decisamente più trasversale e vicino a quello di altri grandi sperimentatori come Diamanda Galas, Mike Patton, Yoko Ono o Demetrio Stratos. Sono quindi le sue corde vocali a marchiare a fuoco queste sei lunghe composizioni, come sempre inafferrabili nel loro muoversi su più piani, scivolando da uno all’altro in maniera repentina quanto inaspettatamente organica. Quello che colpisce lungo l’arco di questi 56 minuti è la netta sensazione che questa sia una musica urgente e necessaria, che non lascia mai l’impressione di essere studiata a tavolino, nonostante sia allo stesso tempo evidente il grande lavoro preparatorio a cui tutti i musicisti si sono sicuramente dovuti sottoporre, soprattutto pensando che, come al solito, le tracce sono state registrate separatamente dai vari musicisti a migliaia di chilometri di distanza l'uno dall'altro. E questo è vero tanto nei brani più aggressivi e abrasivi (le iniziali "Iroke" e "Bhakta") quanto in quelli più riflessivi e dilatati, dove la componente sperimentale si fa più presente e spinta (la title track, "Collapsed" e "Kyber") e dove sembra di essere al cospetto di una versione contemporanea di 'Starsailor' di Tim Buckley, sospesi tra percussioni tribali, derive free jazz e sovrapposizioni vocali che sembrano uscire dalla penna di György Sándor Ligeti. Creatura al solito multiforme e imprendibile, i Combat Astronomy hanno realizzato un nuovo, preziosissimo tassello che impreziosisce il mosaico della musica sperimentale meno prevedibile e non per forza accademica, anzi più che mai viva e pulsante. Ascolto obbligato. (Mauro Catena)

Moldun - S/t

#PER CHI AMA: Death/Metalcore, At the Gates, Machine Head
Sebbene quest'album sia uscito nel maggio 2014, ci tenevo a sottoporre all'attenzione dei lettori del Pozzo dei Dannati il nome Moldun. Ai più non dirà assolutamente nulla, a qualche amante delle serie TV invece, non sarà sfuggito che la band islandese abbia fatto una brevissima comparsa nella prima fortunata serie di 'Fortitude', dove l'ensemble suonava in un pub una song, "This Time You Dig the Hole", strabordante di groove e rabbia, caratteristiche che hanno avuto l'effetto di catalizzare, nel concitato evolversi del film, la mia attenzione e spingermi a prendere contatti con la band islandese e saperne di più dei Moldun e di un side project di cui parleremo certamente in futuro. Nel frattempo godiamoci queste nove tracce dinamitarde che vi faranno amare il quintetto di Reykjavík e la loro verve artistica all'insegna di un death melodico sporcato di venature thrash/metalcore. Si apre con l'irruenza di "12.9.05", una data a quanto sembra tragica o comunque fonte di discordia per i nostri, che non so se si rifaccia all'arrivo dell'uragano Maria o quant'altro, fatto sta che la song dapprima feroce, lascia poi il posto ad un passo più ritmato e decisamente melodico, con i vocalizzi del frontman Haukur, graffianti più che mai e tributanti gli At the Gates. "A Doomed Night" continua la sua opera di devastazione (per lo meno) iniziale, per poi assestarsi su un death-mid tempo, mutare ancora pelle e lanciarsi in pericolose scorribande in territori estremi, e ancora offrire ubriacanti cambi di tempo e sul finale, addirittura acidi rallentamenti al limite del doom. Della terza traccia vi ho già parlato in apertura: vi basti ricordare la splendida melodia che traina il pezzo e il pattern ritmico davvero catchy, che strizza l'occhiolino al periodo più violento (ed ispirato) degli In Flames. Ottimi i cambi di tempo a metà brano cosi come le caustiche vocals del cantante in una song carica di energia che mi spinge a volerne sempre di più. E i Moldun mi accontentano con un pezzo un po' più classico nel suo approccio, "Vermin", traccia che sottolinea l'apparato ritmico dei nostri, qui a richiamare anche i Machine Head per robustezza e poi nei suoi continui repentini cambi di tempo, ad evocarmi altri mostri sacri del thrash metal, gli Over Kill. I Moldun sanno muoversi con disinvoltura anche su pezzi più rallentati: è il caso di "Of Pigs", song che inizia piano e che ovviamente trova modo di sfogarsi attraverso accelerazioni, rallentamenti, stop & go funambolici ed appesantimenti del sound. Eccolo il segreto dei Moldun, cambiare costantemente approccio, essere mutevoli e di conseguenza vari, pur non impressionando poi per l'utilizzo di inutili orpelli tecnici o di melodie più ruffiane. Il quintetto della capitale nordica picchia duro, inutile girarci attorno, ma lo fa con sapienza e con l'intelligenza di un mestierante di lunga esperienza. E dire che quest'album è solamente il loro album d'esordio, sebbene alcuni suoi membri vantino pregresse esperienze musicali. Ci si continua a divertire anche con l'esuberanza claustrofobica di ''Goodbye & Godspeed'' che vede il cantante sperimentare nuove forme vocali o con la feralità di "Dead Hope", una song che palesa una sezione ritmica affilata come rasoi, in quella che è la vera cavalcata dell'album, con chitarre sparate alla velocità della luce. Un drumming militaresco apre "Homesick", brano che mostra delle belle e melodiche (a tratti) linee di chitarra, con un finale decisamente ipnotico e sperimentale rispetto alle precedenti tracce. Sebbene giunti al finale, posso constatare che i nostri, ancora belli freschi, persistono a picchiare come degli assatanati, scagliandosi su chi ascolta con la veemenza dell'ultima "Morbid Love". Che altro dire, se non auspicare l'uscita di un nuovo lavoro a breve ed invogliarvi intanto nell'ascolto di questo mastodontico album di debutto dei Moldun. Ottima prova di violenza, non c'è alcun dubbio. (Francesco Scarci)

(Copro Records - 2014)
Voto: 80

https://moldunband.bandcamp.com/releases

martedì 2 maggio 2017

Hateful Desolation - Withering in Dust

#PER CHI AMA: Depressive Black
Void e Gray Ravenmoon sono due loschi figuri: l'uno è un polistrumentista egiziano che milita in altre band dell'underground più profondo, il secondo invece è un giovane vocalist italiano. Si sono trovati nel 2014 e hanno generato, col nome di Hateful Desolation, questa release di tre pezzi di un interessante depressive black. Ventitré minuti (ma dovrei dire 14, visto che la terza song non è altro che la prima "Your Memory Will Never Fade" riproposta in versione strumentale) di sonorità deprimenti che mi abbracciano con la loro calda forza costituita da magiche sonorità black mid-tempo, complici le azzeccatissime atmosfere che si respirano lungo i suoi nove minuti, tracciate da evocative melodie, da sinistri slanci chitarristici e da demoniache vocals che ben si collocano sul tappeto tastieristico costruito dal duo italo/egiziano. Peccato solo che la song sia troncata malamente nel finale e si rilanci in un black più convenzionale nella successiva "Withering Away in Solitude", song dal piglio più maligno ma che comunque mantiene intatto il mood oscuro dell'ensemble. Da rivedere sicuramente l'apparato ritmico, con un vero batterista la band ne beneficerebbe certamente. E da curare anche la produzione dell'album cosi come gli imbarazzanti stacchi tra una canzone e la successiva. Le carte in regola per fare bene ci sarebbero anche, e con una maggiore applicazione, gli Hateful Desolation potrebbero farsi notare a più alti livelli, speriamo solo non si fermino a questo breve EP. Ah dimenticavo, un ultimo suggerimento: lasciate perdere le versioni strumentali delle tracce, sembrano dei semplici tappabuchi. (Francesco Scarci)

lunedì 1 maggio 2017

CRNKSHFT - S/t

#FOR FANS OF: Heavy/Hard Rock/Post-Grunge, Alice in Chains, Pantera
I’ve to admit that my first impression of CRNKSHFT wasn’t the best. Not only because of the no-vowels all-caps stupid-looking monicker, my inability to guess the correct pronunciation (“Crankshift”? “Crunkshift”?), or the album cover, which reminds me too much of something that Five Finger Death Punch would come up with, but also the fact that they mention groups like Shinedown, Godsmack, and other butt rock bands I totally despise as influences. But some people say you don’t have to judge a book by its cover, or a band by the way they chose to present themselves, and CRNKSHFT manage to overcome my prejudices, most of them created and developed by years of liking to talk a lot about things I don’t like, with their debut EP. Not sounding that much like the aforementioned bands, or at least not in the way I use to remember them, this Canadian group delivers four songs of good “modern” hard rock, with heavy guitars and catchy choruses. Instrumentally, they sometimes remind me of the rockier Metallica, and the vocals sound in-between Alice In Chains and the typical post-grunge “clean growls”. Without being mindblowing in any shape of form, I never wanted to skip any of this songs while I was listening to them, which is a lot more than what I can say about any fucking Puddle of Mudd song. If I had to pick a favorite, “Breaking The Silence” would’ve been played to death at Mtv, and the catchyness of “Tears Me Apart” is really hard to miss. The mixing and production are great, very professional without sounding overproduced. There are some things to improve, obviously: CRNKSHFT don’t seem very interested in taking many risks, with the songs being a little samey-sounding in repeated listens. And sometimes they come as a little over-dramatic, although their subtly socially conscious lyrics makes it a little more palatable than with other bands of the same style. Overall, CRNKSHFT’s self-titled debut EP is a pleasant surprise. I’d recommend it to anybody who likes any of the aforementioned bands. And if you don’t like them, you can listen to it and rock some tunes without any guilt. (Martín Álvarez Cirillo)

(Self - 2017)
Score: 70

https://soundcloud.com/crnkshft

Mindful of Pripyat/Stench of Profit - New Doomsday Orchestration

#FOR FANS OF: Death/Grind
'New Doomsday Orchestration' showcases two disgusting deathgrind bands whose sounds crash right into you from the first second and refuse to relent through their mind-melting onslaughts of blast beats. Where Mindful of Pripyat has a solid enough approach and balances between grinding and letting the guitar ring out its slight death metal moments, Stench of Profit plays frenetic grindcore closer to the noise side of the spectrum.

This split is a demonstration of why grindcore, despite all its chaotic energy and frantic forms, is not the heaviest of metals in the long run. Though this noisy and blatantly in-your-face music can be some of the fastest in notation and quickest to change pace, its tendency towards structural atonality and constantly ambiguous formlessness in theme lays waste without attempting to pick up any pieces. In Mindful of Pripyat, the general push is to grind down a death metal riff as mercilessly as possible. Stench of Profit attempts to be as offensive an affront to your sensibilities, their tongue-in-cheek self-deprecating description as “ignorant music for smart people” is only halfway correct.

The crazed hammering throughout these songs will eventually decay your patience for this toxic noise. Despite a longer half-life than the band following it, Mindful of Pripyat reminds me of the limitations of extreme grindcore music while at the same time conjures in me a feeling that is all too familiar with writing. Each song is a start. As has been said by smarter people than me, 'beginning is easy and continuing is hard'. Mindful of Pripyat plays one-minute starts to songs with barely ripe riffing ideas intermixed with the same raucous blazing blasts that have been done to death by the likes of Skinless, who has not changed form, and Carcass, that has pupated and exploded from its cocoon of grind to become a fantastic death metal example. Like too many of my own scribblings that will probably never get their own physical forms, Mindful of Pripyat's meager manifestations are a pile of underdeveloped blast-laden mush that has little form and even less direction. I wanted to go through this album because of the fact that I don't listen to enough grindcore. Though that makes me no authority on how to review grindcore, despite my attempt to explore a bit more with this album, it gets to the point that a series of atonal one-minute blasts and ridiculous attempts at feeble structures becomes not metal, but a dysfunctional mesh of worthlessness knitted together thematically only at the end by the sound of a Geiger counter clicking away as though it had something to do with disappointing deluge preceding it. This is no album. It's a page of notes that needs some serious editing, discipline, and time to coalesce into something worthy of the moniker of metal.

Stench of Profit is a bit more measured in its approach despite playing songs that are far shorter than Mindful of Pripyat. Reveling in its migraine-inducing madness, this band's relentless surge starts with slower blasts through seventeen psychotic songs, each faster than the one before. The album rises to a height of intensity, stripping the listener of his sanity through formless frenzied flurries. Even though it's easily noticeable where one song ends and another begins, songs like “Calve Fast”, “Divine Education”, and “The Dance of Deceit”, all clocking in at exactly eighteen seconds long, are the same thing over and over. “No Sense” is the shortest song on this half of the album and is just two blast beats separated by a slight tempo change with two screams behind it. Then again, that's really all that every song is here. There's always one change in each song as relentlessness is met with more of the same relentlessness. This isn't “ignorant music for smart people.” It's ignorant music for morons who are so ignorant that they think they're smart.

As radioactive as the decaying abandoned town of its Chernobyl-infected namesake, Mindful of Pripyat's music is a toxic punishment diminishing slightly slower compared to what Stench of Profit has to offer. The attempt at mindless fun in these two grind albums makes for a combination that shows just how much punishment a dead horse can receive from its petulant abusers. At least it's silent between some of these songs, those moments are the best that this split has to offer. I'm done trying to be nice and open-minded about it. This album is obnoxious crap. (Five_Nails)

venerdì 28 aprile 2017