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Visualizzazione post con etichetta Doublegood Records. Mostra tutti i post
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venerdì 29 marzo 2013

Buildings – Melt Cry Sleep


#PER CHI AMA: Noise Rock, Jesus Lizard, Shellac, Unsane
Mentre ascoltavo per la prima volta il secondo cd di questo trio di Minneapolis, mi sono per un attimo convinto di essere tornato nel 1993. Per una mezz’ora ho provato di nuovo la stessa rabbia repressa che il solo Kurt Cobain sembrava potesse capire, la stessa non-voglia di prepararmi al compito di matematica e lo stesso bisogno di giocare a pallone con gli amici fino a non sentire più la fatica. Tutta colpa (o merito) di quello che usciva dalle casse dello stereo. Quell’assalto all’arma bianca di noise, rock martoriato e punk blues belluino, che sembra il risultato di una creazione di laboratorio, per ottenere la quale si sono mescolati un 60% di Jesus Lizard epoca "Liar", un 30% di Shellac di "At Action Park", e spruzzate di Unsane e Melvins. Sezione ritmica sugli scudi, con tanto di basso caterpillar a demolire qualsiasi cosa gli capiti a tiro ("Wrong Cock"), chitarra tagliente come un bisturi maneggiato da un boscaiolo ubriaco ("I Don't Love My Dog Anymore") e voce filtrata che gratta e ferisce come una spazzola dalle setole di ferro arrugginito. E ancora scosse telluriche sostenute da un interplay basso-batteria come vorremmo sempre sentirne, code strumentali rallentate e quasi stoner e in generale una coesione tale da far di questo lavoro una gran bella botta in piena faccia. Il suono è dunque per forza di cose derivativo, ma non per questo poco convincente, anzi riesce ben presto a vincere la diffidenza e il sospetto iniziali di trovarsi di fronte a un qualcosa di studiato a tavolino. E’ un disco denso e rovente, "Melt Cry Sleep", dove tutta l’urgenza e la paranoia riversata vent’anni fa da David Yaw e compagni, non viene qui scimmiottata e riproposta come un copione mandato a memoria, ma piuttosto appare metabolizzata dai tre che ne sono interpreti sinceri e appassionati. Secondo centro per la Double + Good records, che dopo il magnifico lavoro dei Self-Evident, ci regala questo concentrato di potenza primordiale molto poco rassicurante. (Mauro Catena)

(Doubleplusgood Records)
Voto: 80

http://buildingsband.bandcamp.com/

domenica 17 marzo 2013

Self-Evident – We Built a Fortress on Short Notice

#PER CHI AMA: Post Punk, Math Rock, Emocore
Dunque, avete presente come è cominciata la storia di Javier Zanetti all’Inter? Moratti voleva comprare Sebastian Rambert, promettente centravanti argentino dell’Independiente e tornò a casa con il giocatore voluto più un altro “a corredo”, un terzino sconosciuto che si pensava fosse stato inserito nel pacchetto dagli scaltri procuratori. Poi Rambert non lasciò pressoché nessuna traccia, mentre la carriera di Zanetti in nerazzurro sta assumendo sempre più i contorni del mito. Questo parallelismo serve per spiegare l’avventura nel mio stereo di questo dischetto dei Self-Evident, trovato nel pacchetto con cui mi è stato recapitato il lavoro di un altro gruppo, compagno di etichetta, che era il mio reale obiettivo. Non augurando ai Buildings (di cui parlerò diffusamente in separata sede) di fare la fine di Rambert, mi trovo a constatare come i Self-Evident, giunti con questo al loro sesto lavoro (!), abbiano preso possesso del mio lettore cd come Zanetti della fascia destra del prato di San Siro. Quello del trio di Minneapolis è un rock molto peculiare, che coniuga bene l’impronta di stampo math e post-hardcore con una spiccata sensibilità e capacità di scrivere grandi canzoni. Quello che appare subito molto evidente è la loro straordinaria perizia tecnica, sempre però tenuta dovutamente a bada, sempre funzionale alla canzone. Dopo un inizio vigoroso, in cui si mette in mostra la compattezza della sezione ritmica e il modo di cantare “urlato ma controllato”, che ricorda un po’ i Fugazi o i Cursive, la musica dei tre si dipana in maniera più elaborata e meno fisica, ricordando in più di un’occasione i mai troppo lodati Firehose dell’immenso Mike Watt, con il basso a fare spesso la parte del leone, delineando riff e linee melodiche, mentre la chitarra fa da contrappunto e sostegno armonico, come si usa nel Jazz, e la batteria sostiene, rallenta e improvvisamente accelera, come fare rafting in Colorado. I tre sono bravissimi nel trattenere la tensione emotiva, controllandone le oscillazioni e i crescendo in pezzi che raramente superano i quattro minuti. In questo senso, canzoni come "Our Condition", "Half Bycicle", "Bartertown" sono autentici gioielli di costruzione ed equilibrio tra quiete e nervosismo. Menzione d’obbligo per i testi, densi e profondi, e il modo sofferto in cui vengono vissuti e cantati nell’arco di questi dieci pezzi per soli 37 minuti, un concentrato di tali e tanti spunti musicali e non, una macchina perfetta perché non sembra una macchina, ma una cosa viva e pulsante, che trova la sua massima espressione in una canzone capolavoro come "Cloudless". Tanto di cappello, e adesso mi metto alla caccia dell’intera discografia. (Mauro Catena)