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giovedì 13 febbraio 2014

A Million Dead Birds Laughing - Bloom

#PER CHI AMA: Grind Death sperimentale, Anaal Nathrakh
La mia vena sperimentalistica mi sta portando giorno dopo giorno a provare cose fuori dall'ordinario. Non che gli A Million Dead Birds Laughing non li conoscessi, ma stavo bramando il ritorno della band australiana, da quando recensii il precedente 'Xen'. Eccomi quindi accontentato. Arriva 'Bloom' ad annichilire il mio lettore cd e la mia testa, con la consueta abbondante offerta di song dalla breve durata ma dai densi contenuti. La proposta dei quattro folgorati ragazzi di Melbourne non sposta più di tanto il tiro rispetto al passato, continuando a triturarci le membra con scheggie di delirante grind death: “Rashômon” e “Defaced” mi mettono ko con spaventosa facilità e velocità, avendo i nostri di fatto abbandonato quelle influenze avantgarde che in passato ne mitigavano l'eccessiva irruenza. Niente paura però, chi è avezzo a questi suoni non farà certo fatica ad affrontare 'Bloom' e i suoi continui uno/due assassini. La lunga “Maboroshi” (3 minuti) prova ad offrire tutta una serie di variazioni ubriacanti al tema: cambi di tempo, stop'n go, momenti acustici e belle linee melodiche alla fine la designano come la mia preferita. La band ci lavora ai fianchi con la consapevolezza che prima o poi cederemo; guai quindi abbassare la guardia, perchè è già pronta la seconda sfornata di song tritura ossa che da “Warlord” a “Bushidou” martella che è un piacere ogni singolo neurone contenuto nel mio residuato bellico di cervello e chissà se ne avrò poi ancora al termine dell'ascolto di questo disco. Rabbiosi, ultra tecnici, possenti, digrignanti e imprevedibili: gli AMDBL ci concedono una sosta all'autogrill con “Praxis”, giusto il tempo di rifiatare un attimo e ributtarsi a capofitto nella bolgia finale delle lunghissime tracce “Bloom” ed “Equilibrium”, rispettivamente di 5 e 6 minuti, un minutaggio che credevo impossibile per il four-piece oceanico. Apparentemente la band tira il freno a mano con la title track, un pezzo che va decisamente fuori dagli schemi poichè sembra essere la preghiera di un induista. La roboante chiusura è probabilmente la song più lineare creata dai nostri, almeno in apparenza, prima del finale in cui il growling isterico e caustico di DL si alterna a quello di due ospiti: Aaron Grice (dei deathsters Hadal Maw) e James Turfrey (ex-The Mung). Bel ritorno per i fenomenali AMDBL, anche se mi spiace un po' si sia persa quella vena avanguardistica che contraddistingueva 'Xen'. Un peccato veniale che si può tranquillamente perdonare. (Francesco Scarci)

(Self – 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/amdbl

martedì 11 febbraio 2014

Breathe Your Last – Fifth

#PER CHI AMA: HC italiano, RFT, At the Drive in, Congegno, Contrasto
La giovane band vicentina alla prima uscita autoprodotta sforna un EP carico di energia, pregno di vigore HC e di rasoiate punk melodiche e moderne, molto vicine alla scena hardcore alternativa e anarcopunk, della penisola tricolore. Niente di nuovo sotto il profilo stilistico ma i brani sono tutti validi, magari poco differenti tra loro ma belli, tirati, intensi e potenti. In risalto soprattutto la voce del vocalist Matteo Giacomuzzo che assieme ai testi assai ricercati (e questo gli fa un grande onore in un epoca dove il punk italiano si lascia andare sempre più verso il demenziale o il testo idiota), cantati tutti in italiano tranne che "On These Days", l'unico brano in lingua inglese. A dir la verità i brani in italiano risultano più incisivi e rendono molto l'idea dell'urgenza creativa dei nostri, del rimorso e della reattività, della volontà di non soccombere in mezzo a tutto quello che di grigio ci circonda. Forse vi sembreranno meno pesanti dei milanesi RFT, più orecchiabili dei Contrasto o dei Congegno e dal suono modernista come lo stile de Gli Altri, con un pizzico di At the Drive In nelle liriche e nei cori, ma i Breathe Your Last svolgono il loro compito egregiamente nonostante questo EP sia troppo corto per soddisfare la nostra voglia di ascoltare il grido della loro rabbia. La speranza che band come questa diventino un esempio per il genere post core/punk/HC italiano dei prossimi anni è tanta, per poter ricordare ai teenagers che si può coniugare il verbo punk con intelligenti testi di costruttiva rabbia esistenziale, e che punk e HC non sono solo e sempre sinonimo di autodistruzione e nichilismo fine a se stesso (chi di voi ricorda i KINA?). Gran bel debutto! (Bob Stoner)

Elitaria - Widescreen Satanas

#PER CHI AMA: Black Industriale, Aborym
C'è sempre più fermento nella scena italica: mentre le vecchie gloriose band del passato si confermano ad altissimi livelli anche con etichette internazionali (Aborym e Forgotten Tomb), e altre hanno la fortuna di firmare per “major” del metal (Fleshgod Apocalypse), nuove realtà emergono quotidianamente, che sperano di forgiarsi una propria strada verso il più che meritato successo. Oggi è il turno dei piacentini Elitaria e del loro minaccioso concentrato di black industriale che proprio dalla band di Fabban e soci trae parte della sua ispirazione. 'Widescreen Satanas' è infatti una perla fusa di metallo nero, cinque pezzi (più intro e outro) fatti di un sound bellicoso, un vortice di velenosa e insana malvagità che combina gli stilemi del black d'avanguardia di Samael e Alastis con la furia iconoclasta degli Aborym più intransigenti. “Widescreen Satanas” parte I e II coniugano alla grande la proposta del combo emiliano: un assalto sonoro, una centrifuga di chitarre, divagazioni cibernetiche e un drumming artificiale, su cui si inerpicano le belluine vocals di D666 che narrano di come le macchine abbiano messo in ginocchio l'uomo. Nei suoi intermezzi più riflessivi, emergono forti anche le influenze black/death di 'Abyss Calls Life' dei Necromass, che ne elevano ulteriormente lo spessore artistico. “Ragnaroek Propaganda” è un altro attacco efferato che non lascia scampo nemmeno per un secondo. Se dovessi identificare l'elemento di maggiore spessore nel sound dei nostri, citerei l'egregio utilizzo di samples e tastiere, che arricchiscono e fortificano non poco, il risultato finale, come accade anche nella parossistica e celestiale “Dawn of Mecha”. Con “Mithocondrion”, gli Elitaria confermano i risultati positivi espressi nelle precedenti song e evidenziano una bella progressione sonora rispetto a 'Ngc 666 (New Galaxies Catalogue 666)' del 2010: si tratta di un mid-tempo in stile Samael, con qualche suono disturbante ma pregno di melodie e risvolti catchy che mettono in luce anche un lato più umano del duo italico. Ora auspico che qualcuna delle etichette nostrane diano una possibilità agli Elitaria, anziché dar corda alle solite e noiose band scandinave. Bravi! (Francesco Scarci)

lunedì 10 febbraio 2014

Zorndyke - On Mayor Altar's Edge

#PER CHI AMA: Death Metal, Crust Punk, Autopsy, Doom
Rimango piacevolmente sorpreso dall'ascolto di questo 'On Mayor Altar's Edge', confesserò che ancora adesso non ne sono attratto e non è in assoluto il mio disco preferito da ascoltare ma riconosco che i Zorndyke sono una di quelle rare band che riescono a trasmettere l'essenza di un genere. Già dall'artwork a matita in bianco e nero, quest'opera emana quella malefica aura che si avverte nei concerti organizzati in venti metri quadrati, di birra stantia e di menefreghismo verso la società; il gruppo padovano riesce a concialiare il death metal di Autopsy e Obituary insieme al crust punk classico di Anticimex e Doom, in un'alchimia sonora che solitamente va a braccetto più con il black. Le prime tracce "Meine Schwarze Flügeln" e "Sledgehammer Murderer" sono un'apertura al fulmicotone per introdurre la proposta del gruppo, che con una produzione lo-fi e pochi tecnicismi, riesce a scatenare l'inferno. In medio stat virtus, e così nel mezzo giacciono le due tracce migliori: "Horde Of Primal Chaos" e "Chamber Of Bones", la prima lenta e potente, presenta i primi accenni di un basso che si muove bene nelle quattro corde, con delle chitarre che accennano ad una velata melodia in fase di chorus; mentre la seconda è in assoluto la traccia più violenta del disco con un'apertura in blast beats che si alterna a momenti decadenti, sfociando poi nel crust delirante con cavalcate d-beat. La chiusura con "Decomposing Alive" vede una sterzata maggiormente primordiale e punk oriented con riff minimali, urlato grindcore e tanta velocità. In definitiva si tratta di un disco più che buono, con un riffing poco accattivante e a tratti opinabile a causa di sonorità maggiori (d'altro canto anche i Morbid Angel hanno scritto "Kingdom Come"), ma decisamente in grado di offrire un'ottima atmosfera per tutti i veterani di sonorità old school non solo del metal ma anche del punk. (Kent)

(Baphomet in Steel - 2012)
Voto: 70

http://www.facebook.com/pages/ZORNDYKE

domenica 9 febbraio 2014

The Infarto – Scheisse

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Hardcore Punk, Post-Hardcore, Screamo
I bergamaschi The Infarto (ora solo Infarto), mi hanno passato ad un live (grandioso per altro) questo loro vecchio lavoro (non datato). L'opera comprendente tutti gli stilemi dell'hardcore made in Italy, ma che va oltre compositivamente, grazie a una forte componente avanguardistica che come struttura trovo vicina a gruppi orientati al versante math metal e maggiormente post-hc. Il cantato in italiano (tranne l'ultima "Nessun Nome #1"), urlato fortissimamente si alterna a parlati sterili e freddi, i testi trattano di tematiche personali, più specificatamente sulla visione asettica dell'esistenza, come si può intuire dai primi secondi di "Nearte Neparte", dalla narrazione di "Oggi Metto Pioggia" e su "Lilla Pallido" la traccia più forte del disco a mio parere, con le sue varie sfumature strumentali e con un testo magnificamente colmo di simbolismo, cosi come gran parte delle liriche. Ad ogni modo la cosa più interessante di questo prodotto sono le varie parti strumentali che si intrecciano perfettamente nella loro particolarità; si possono poi trovare riferimenti al metal in certi bridge o al post-hc in altri frangenti, riuscendo decisamente nell'intento di scuotere l'ascoltatore. Nulla di eclatante nè sorprendente, ma un'alchimia sonora molto personale che incuriosisce ed attrae, tanto per le interessanti liriche quanto per la musica densa di significati. (Kent)

Centinex - Subconscious Lobotomy

BACK IN TIME:

#FOR FANS OF: Swedish Death Metal, Grave, Entombed
One of the earlier purveyors of the classic Swedish-style of Death Metal, not the brand familiar today as a style that evolved into Metalcore but a dirty, raw breed of true Death Metal that has lasted a lot longer and been more impacting on the scene as a whole. Often characterized for the ever-present sound of the guitars that generate more of a buzzsaw-like grind than anything out in the genre, yet overloaded with melodic flurries despite being incredibly fast-paced and vicious in tone, this is quite striking and really gets quite fun at times with the majority of the tracks here just roaring through their paces at breakneck tempos propelled by pounding drumming and blaring bass-lines, all topped off with distinctive vocals that match the fury and vitriol of the music appropriately enough. That said, there’s a decidedly noticeable lack of variation within the album, which is a problem for the majority of bands in this style and really shouldn’t be held too much against them, and even moreso since it’s a debut effort, but the fact remains that this one tends to run into a rather interchangeable pattern throughout where it’s almost impossible to really pick songs apart once you get to the half-way point as it’s all minute variations on the same riff played at differing tempos which causes the songs to run into each other quite easily and effectively kills off the momentum this could’ve gathered. For the most part, all the tricks this one has to display are brought for in the two opening tracks, "Blood on My Skin" and "Shadows are Astray," which run through the ringer of buzzsaw riffing, pounding drumming and voracious growls atop thrashing-paced tracks, which mean numbers like "Bells of Misery," "Inhuman Dissection" and "The Aspiration" to feel like it’s all been done before despite ordinarily being solid, enjoyable tracks. There’s a few nice bonuses here with something like "Dreams of Death" which incorporates a brief acoustic intro before the pace kicks back into normal territory that almost works like a breather due to the overall brevity, and "Orgy in Flesh" is punctuated by both haunting female vocals and a few keyboard dashes to help break up the monotony of the songs. As well, outro "Until Death Tears Us Apart" is a mostly synth-laden instrumental with a few soft growls to set the mood, but it does seem to take a lot of the steam out of the album with another short instrumental track placed here after another one earlier on and really leaving this with only seven proper songs out of nine. Luckily, this reissue contains additional material in the form of the three-track 2000 EP 'Apocalyptic Armageddon' to continue the assault, being three relatively similar tracks in the same general manner and style as before just with better, more modernized production as would be expected on a newer recorded output. It’s not revolutionary like some of their contemporaries and suffers from an identity crises at times, but overall it’s a solid, serviceable slab of Swedeath, and tack on a few extra bonus points if the presence of bonus tracks appeals to you completists. (Don Anelli)

(Underground Records - 1992)
Score: 70

http://www.facebook.com/Centinexofficial

Pryapisme - Rococo Holocaust

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Crossover, Steve Vai, Mr Bungle, Mike Patton, John Zorn, Boredoms
Togliere la voce di Mike Patton da tutti i suoi progetti strampalati, paralleli ai Faith no More, mantenendone le idee musicali, aggiungere un tocco di Bubblegum music, un soffio di techno commerciale, una dose di schizoide noise metal, tanto spirito progressive, uno spesso strato di jazz e fusion, una gogliardia di memoria Zappiana, del buon funk, l'estro dei Naked City e la follia di Zorn. Tutto questo non basta per descrivere il progetto degenerato in follia di questa band transalpina al secondo album autoprodotto. Così ci troviamo di fronte raffiche di metal violentissime che si scaricano su tessuti rubati al Vangelis più spaziali, i Mr. Bungle che fanno il verso all'album 'Torture Garden' in versione acid jazz e Plastic Bertrand che simula i Sigh, i Supertramp che suona alla Die Apokalyptischen Reiter, gli Hatefield and the North che flirtano con gli Hawkind e Pigface, Chick Corea che sta con un piede sugli Alboth! e l'altro sui Boredoms con caroselli da oscuri luna park e follie alla Steve Vai corredati da allucinazioni di casa Soft Machine. Non riuscite a capirne il senso? Noi pensiamo invece che ci sia, ovvero, toccare i confini del crossover più impensabile, quello più imprevedibile ed improbabile! Un altissimo grado di preparazione, un'elevazione astronomica del virtuosismo rivolto all'eccesso, tirato all'inverosimile, drogato di maniacale esasperazione musicale e voglioso di spostare il confine delle proprie capacità sempre più avanti. Un combo di musicisti con l'anima persa nel totally free, assurdi per tecnica ed esecuzione che ci impone una benevola, tortuosa e contorta strada musicale che si snoda in dieci tracce per un'infinità di generi, come se una radio impazzita cambiasse canale e mixasse generi diversi ogni cinque secondi. L'album completamente strumentale non ha una linea coerente, è un viaggio nella mente e nei pensieri di un folle che drammaticamente non riesce più a riordinare le idee. Il disco è estremo sotto ogni punto di vista, non di facile presa, per un pubblico vaccinato e ricercatore di sfide. Buonissima l'attitudine progressiva della band. L'unica pecca del cd è che l'anima d'avanguardia e fusion prevale sulle parti più dure che non incalzano la necessaria violenza del metal più duro... ma non preoccupatevi con una performance così esagerata potrete permettervi di impazzire dimenticando per un momento il lato violento della faccenda! (Bob Stoner)

(Self - 2010)
Voto: 75

http://www.facebook.com/pryapisme

Allochiria - Omonoia

#PER CHI AMA: Post Sludge, Neurosis
Post metal dalla Grecia? Certo che si può, e a pensarlo sono gli Allochiria, band ateniese che giunge al debutto sulla lunga distanza con 'Omonoia', album uscito nei primi giorni di questo 2014 e segue a più di tre anni l'omonimo debut EP. Il lavoro ha colpito la mia attenzione per la sua intrigante cover, con la fotografia di un vecchio uomo dalla barba lunga con impressi sul volto disegni stilizzati di un qualche dispositivo meccanico. Passando ad un livello più profondo di valutazione, diciamo che la band esordisce con “Today Will Die Tomorrow”, una song lisergica, in cui una bombastica produzione ne amplifica esageratamente il risultato finale. La prima parte del brano è completamente strumentale e abbraccia prettamente l'ambito post rock, prima di abbandonarsi ai caustici vocalizzi della brava Irene, che declama nelle liriche 'The Garden of Proserpine' di Algernon Charles Swinburne. Si, avete letto bene, una dolce fanciulla che imprime il suo marcescente marchio vocale, una sorta di Steve Von Till al femminile. “Oppression” è invece un fulgido esempio di suoni post sludge, di quelli che generano tachicardia e lentamente fanno arrancare, fino a piegarsi sulle ginocchia. É breve per nostra fortuna, altrimenti il rischio di soccombere già alla seconda traccia si profilava assai elevato. “Archetypal Attraction to Circular Things” è una lunga traccia liquida, che mi dà l'idea di nuotare nelle viscere marine percependo i suoni dei cetacei che mi circondano. In sottofondo anche il canto delle sirene con un'atmosfera rilassatissima che in realtà solo presagio di una condizione mutevole. Non tarda ad arrivare infatti l'onda anomala ad agitare il mio mare, cosi come il canto angelico di quelle donne mezzo umano mezzo pesce, lascia il posto al growling incattivito della vocalist ellenica. La musica però, sebbene il ritmo si sia nel frattempo inasprito, si mantiene melodica e venata di striature malinconiche, prima di sopirsi nel finale. Notevole. “We Crave What We Lack” è una traccia ben più canonica che segue i classici dettami di Neurosis e compagnia, che vive il suo massimo spunto nella seconda metà, ben più calibrata e che non trascende livelli di ferocia inaudita. Un breve intermezzo ed è il turno di “K.”, song ritmata, quasi marziale con le vocals di Irene in primo piano; il pezzo vive il suo sussulto nella tribale parte centrale che evoca quegli assoli di tamburi che ogni tanto si vedono ai concerti dei gods di Oakland. Niente male. Brano dopo brano rimango sempre più affascinato dalla proposta del combo greco, che pensa di chiudere il platter con i dodici minuti abbondanti di “Humanity is False”. Un incipit notturno dischiude le porte al riffing possente e distorto del duo composto da John K. e Steve K.. Ma è sempre il drumming tribale di Ilias ad avere il ruolo da protagonista indiscusso di questo eccellente album, che lo candida inaspettatamente a porsi tra i miei album preferiti di questo 2014. Granitici. (Francesco Scarci)

(Self – 2014)
Voto: 75

http://allochiria.bandcamp.com/releases