Interviews

martedì 28 gennaio 2020

We Hunt Buffalo - Living Ghosts

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Stoner Rock
Scompare, o quasi-scompare la linea drone-fuzz di basso così prominente nell'esordio omonimo, ma i riff dei We Hunt Buffalo in questo 'Living Ghosts' diventano più granitici tipo nella blandamente (black)sabbath/iana e scarsamente ispirata "Back to the River', la ancor più scarsamente ispirata "Prairie Oyster", con un catarroso growl da metallaro asmatico inseguito da una mandria di bufali, e qui decisamente fuori contesto. Se da un lato la band appare intenzionata a rilanciare certe beneamate istanze stoner, divampate e subito accantonate nell'album d'esordio e poi rilanciate nell'EP successivo 'Blood From a Stone' (ma che titolo del CXX, nevvero?), dall'altro lato gli orizzonti paiono ampliarsi e gli skyline a farsi, paradossalmente, più cittadini. È il caso di "Hold On", vagamente collocabile tra le brughiere sonore dei primi U2, oppure di "Ragnarok", la strumentale in apertura, il cui cipiglio epico e subliminalmente morriconiano tende una corda sottile tra le due opposte escrescenze stoner di questa monument (sonic) valley: "Walk Again" e la summenzionata "Prairie Oyster". Percorrendo la quale si ammira un panorama temporale di quelli da mozzare il fiato. Sarà interessante verificare sul campo. (Alberto Calorosi)

(Dine Alone Records - 2015)
Voto: 69

https://wehuntbuffalo.bandcamp.com/album/living-ghosts

lunedì 27 gennaio 2020

Ornamentos del Miedo - Este No Es Tu Hogar

#PER CHI AMA: Funeral Doom, My Dying Bride
Sinergia sempre più serrata quella tra l'armena Funere e la russa Solitude Productions che vanno a pescare la new sensation funeral doom questa volta in Spagna. Ornamentos del Miedo è infatti una one-man-band originaria di Burgos, dove evidentemente, sospesa tra le montagne, non deve arrivare sufficiente sole per aver generato nel suo frontman, Angel Chicote, gli incubi inclusi in questo 'Este No Es Tu Hogar', album di debutto del musicista castigliano. Il disco contiene sei funeree song che coprono oltre un'ora di musica. Si inizia con l'angosciante incedere della title track, una song che non ci fa proprio sprofondare nel più tipico clima funeral, data una certa ariosità (e vi prego di passarmi il termine) delle chitarre che costruiscono melodie sicuramente plumbee e sofferenti ma non cosi catacombali da creare il classico nodo asfissiante alla gola. E per questo, la proposta del buon Angel, peraltro membro di una miriade di band coinvolte in un po' tutti i generi estremi, risulta veramente gradevole da digerire ma soprattutto da ascoltare. Pur le song durando tra gli otto e i dodici minuti, risultano dinamiche (e passatemi vi prego anche quest'altro termine) dato il lavoro eccelso del factotum nel costruire eteree atmosfere che potrebbero per certi versi richiamare i Saturnus o il mood nostalgico dei Paradise Lost di 'Shades of God'. Tale sensazione l'avverto anche nella seconda traccia, "Ornamentos del Miedo", in cui è forse una vena più orientata ai My Dying Bride ad avere la meglio, sebbene quella chitarra ritmica mi ricordi non poco la band di Nick Holmes e soci. Grande spazio è lasciato alla musicalità malinconica del mastermind spagnolo che qua e là ci piazza il suo vociare tormentato. Si continua con "Carne" e qui il riffing sembra apparentemente più ossessivo con la voce di Angel tendente allo screaming, ma il lavoro delle keys rende ancora una volta tutto più abbordabile. E questo è proprio il plus di questo disco che pur muovendosi in territori non proprio pianeggianti, riesce comunque nell'intento di far passare un genere cosi poco affabile come il funeral doom, in una simpatica passeggiata domenicale. Ci pensano infatti "Caminos Perdidos" e "Raíces Podridas" a rallegrarci con le loro autunnali melodie, cosi come pure la conclusiva "Frágil". Quello che penalizza in un certo qual modo il disco è forse un'eccessiva coerenza musicale che da un lato è apprezzabile, dall'altro rende un po' troppo monolitico un lavoro. Certo, quando si parla di funeral doom, la monoliticità dovrebbe essere la caratteristica primaria delle band, ma più volte ho sentito band in questo ambito variare dal funeral al death e viceversa; gli Ornamentos del Miedo invece dall'inizio alla fine propongono un sound piacevolissimo ma senza picchi e senza valli, ma questa rimane la mia opinione e il mio gusto personale. Comunque per essere un debut album, di un artista comunque assai scafato, il voto non può che essere super positivo. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Funere - 2019)
Voto: 74

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/este-no-es-tu-hogar

Intervista con A New Tomorrow

Segui il link per sapere molto di più sulla band italo-inglese A New Tomorrow:

 

Trail of Tears - Free Fall Into Fear

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Symph Black, Dimmu Borgir, Tristania
"Che fine ha fatto Catherine Paulsen, ma soprattutto che ci fa Kjetil Nordhus, cantante dei Green Carnation, nei Trail of Tears", questo è ciò che pensai al tempo dell'uscita di questo 'Free Fall Into Fear', quarto album per i norvegesi. Queste anche le novità sostanziali della band che, scaricata la bella e brava cantante per le solite divergenze stilistiche, pensò bene di assoldare, per le clean vocals, il vocalist della band di Tchort e soci. La musica dei nostri ha quindi subito una notevole sterzata stilistica, prendendo le distanze da quel filone death/gothic che vedeva in Tristania e Within Temptation i maggiori esecutori, e proiettando i nsotri verso lidi leggermente più black metal. Rispetto al precedente e ottimo 'A New Dimension of Might' si può infatti notare una leggera diminuzione della melodia, causata anche dall’assenza della bellissima voce di Catherine, e un incremento della cattiveria, sorretta da un feeling maligno spesso presente ma ben bilanciato da break tastieristici ed inserti melodici. Da sempre sono un fan della band, li ho seguiti dai tempi del primo 'Disclosure in Red', quindi devo essere sincero su una cosa: al primo ascolto di questo lavoro sono rimasto spiazzato e un po’ deluso. Tuttavia ai successivi passaggi, ho potuto apprezzare il nuovo taglio dei sette norvegesi, coadiuvati peraltro dalle ottime vocals di Kjetil che entrò in pianta stabile nelle file della band. 'Free Fall Into Fear' alla fine è un album che si avvicina, se mi passate il paragone, al tanto contestato 'Spiritual Black Dimension' dei Dimmu Borgir, anche se qui la voce di Ronny Thorsen è più gutturale rispetto a quella del suo collega Shagrath, la base ritmica è potente, veloce e melodica. Ascoltandolo e riascoltandolo mi è venuto in mente anche il bellissimo e sottovalutato 'The Shepherd and the Hounds of Hell' degli ottimi Obtained Enslavement, e anche qualcosina degli Arcturus. Sì insomma, a me quest’album è piaciuto perché riesce a coniugare violenza sonora e melodia. Il voto non è più alto solo per un paio di pezzi non all’altezza. (Francesco Scarci)

(Napalm Records - 2005)
Voto: 74

https://www.facebook.com/trailoftearsofficial/

domenica 26 gennaio 2020

Omnianthropy - Therion

#PER CHI AMA: Symph Death, Fleshgod Apocalypse
Una manciata di minuti a disposizione dei messicani Omnianthropy per farsi conoscere oltre i confini nazionali. 'Therion' è infatti un EP di tre pezzi che a distanza di un anno dal loro debut su lunga distanza, fa approdare nuovamente il trio della capitale sui virtuali scaffali del web. Non conoscevo assolutamente la band prima di oggi, però questo lavoro ha captato in un qualche modo la mia attenzione col suo potente death sinfonico. La title track esplode alla grande nel mio stereo con i suoi ritmi tirati, ma anche con le sue orchestrazioni bombastiche che per un attimo mi riportano al death sinfonico della band di cui oggi l'EP ha preso il titolo, ossia i Therion di Christofer Johnsson. Pomposi, melodici, orchestrali e cattivi al punto giusto, la proposta degli Omnianthropy potrebbe essere un mix tra 'Lepaca Kliffoth' e 'Theli' dei gods svedesi, miscelato con le ultime cose dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Lo testimonia anche la seconda galoppata, "Claroscuro", tra ritmiche tese, growling vocals, montagne di tastiere, sublimi orchestrazioni, ma anche clean vocals evocative che mi convincono abbondantemente della bontà della proposta dei nostri. L'ultima traccia, "Designis", conferma le qualità dei nostri, in una traccia ancora più nevrotica, in cui sono le keys ad avere il ruolo da leone e in cui sottolinerei uno spettacolare assolo conclusivo nella migliore tradizione heavy classico. Bella scoperta questa, spero ora di ascoltare un Lp più lungo e strutturato. (Francesco Scarci)

Bob Seger - I Knew You When

#PER CHI AMA: Rock, ZZ Top
Aperto da "Gracile", un robusitissimo southern da catene ai polsi, programmaticamente intento a dipanare eventuali (e legittimi) dubbi sulla odierna rocchettosità di questo barbuto ultrasettantenne versione anni duemila-quasi-20, l'album gigioneggia tra ballatonze reggisen-springsteeniane ("I'll Remember You", la title track e "Blue Ridge") ipodermicamente sintonizzate con certe suggestioni eigties. Date un ascolto all'electro-boogie di evidente ZZ-derivazione ottantiana ("Runaway Train" potrebbe provenire ciuffciuffetttando direttamente da "Like a Rock" o "The Fire Inside"), certi lancinanti soli di sassofono che "Careless Whispers" a confronto vi sembrerà una roba dei Jane's Addiction (uno solo, in realtà: quello di "Something More"), confortevoli tastiere Alan-Parsons-iane (la altrettanto robustissima "The Highway"). "The Sea Inside" è una bitorzoluta crasi tra "Black Moon" di Emerson Lake & Palmer e "Kashmir" nella versione con Puff Daddy, mentre la cover di "Democracy" (Leonard Cohen, 1992) vi sembrerà una roba tipo degli U2 in mutande collocati nella hall di una sala massaggi tailandesi. Nonostante gli intenti ammirevoli, l'attenzione si affievolisce mano a mano che l'album digrada lentamente, giù, fino alla scialba "Glenn Song", dedicata al compiato Glenn Frey. (Alberto Calorosi)

(Capitol Records - 2017)
Voto: 63

http://www.bobseger.com/

Dan Auerbach - Waiting on a Song

#PER CHI AMA: Blues/Folk Rock
Più che lo sbandierato omaggio alla adottiva Nashville, dove D-A vivachia da quasi 10 anni al pari dell'intero nu-establishment musicale americano e di conseguenza mondiale, l'album sembra più una specie di caricatura lomografica di quel sunglass-folk californiano anni sessanta visto attraverso quegli occhialetti a raggi X per vedere le donne nude che avete sempre sognato di acquistare da bambini. Stiamo parlando praticamente dell'intero album, da "Waiting on a Song a "Show Me", insolitamente monotono e in questo senso, ammettiamolo, scarsamente auerbach/iano. Costituiscono (blanda) eccezione un paio di auerbaccanali disco-funky in Key musicale assolutamente Black ("Undertow" e "Malibu Man" che sarebbe una mocking song dedicata all'amico Rick Rubin - esiste forse qualcuno al mondo che non è amico di Richettone Dollarone?) e "Shine on Me", un misurato e astuto omaggio a certo roots disimpegnato anni '80 (cfr. il Tom Petty dei Travelling Wilburys) con tanto di ospitata celebre (un praticamente impercettibile Mark Knopfler), non a caso scelto come singolo trainante del dischetto. In un'intervista D-A racconta che la sua giornata tipo consiste nel preparare la colazione per la figlioletta e poi chiudersi in studio fino a sera. Non sorprende che il disco parlotti con discutibile ispirazione di quanto sia bello starsene lì ad aspettare che arrivi l'ispirazione ('Waiting on a Song') e di quanto scarsamente accessibile appaia il mondo esterno ("King of a One Horse Town", ma anche "Never in My Wildest Dreams"), specialmente guardandolo dalla finestra dello studio di registrazione. Ma il rock ahimé è dove è sempre stato, vale a dire là fuori, caro D-A. In bocca al lupo. (Alberto Calorosi)

(Easy Eye Sound - 2017)
Voto: 55

http://danauerbachmusic.com/

The Pit Tips - Best of 2019

Francesco Scarci

Borknagar - True North
Phlebotomized - Deformation of Humanity
Soldat Hans - Es Taut
Cult Of Luna - A Dawn To Fear
Ultar - Pantheon MMXIX

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Shadowsofthesun

Torche - Admission
Cave In - Final Transmission
Devin Townsend - Empath
Rammstein - Rammstein
Cattle Decapitation - Death Atlas
Tool - Fear Inoculum

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Alain González Artola

Firmament - Nightside Valkyres
Ringarë - Under Pale Moon
Grima - Will of Primordial
Midnight Odyssey - Biolume Part.1: In Tartarean Chains
Alcest - Spiritual Instinct

Life of Agony - Broken Valley

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Crossover/Alternative
I newyorkesi Life of Agony si sono lasciati e ripresi mille volte. Dopo lo scioglimento del 1999, sono tornati prima con un live album, registrato all’Irving Plaza di New York nel gennaio 2003 e poi con questo 'Broken Valley' nel 2005. Il disco, anticipato dal singolo "Love To Let You Down", contiene 12 tracce che ripartono là dove, nel 1997 con 'Soul Searching Sun', la band aveva mollato. E il tempo sembra essersi fermato a otto anni prima e che nulla abbia alla fine turbato il feeling instauratosi all’interno del quartetto guidato da Keith Caputo. Tra le mani ci si ritrova infatti un disco di sano hard rock contaminato dall’hardcore, egregiamente prodotto da Greg Fidelman (Jet, Slipknot), che ha segnato a mio avviso la consacrazione definitiva di una delle band più influenti nella storia di questo genere. Il loro ritorno fu contraddistinto anche dalla presenza della line up originale che rese celebre la band, nella scena di New York, negli anni ‘90. 'Broken Valley' non è però l'album violento che ci saremo aspettati, sembra molto più intimista, meditativo e intenso, con brani permeati di una sottile malinconia. I Life of Agony sono quindi in grado di farci emozionare con un sound talvolta ruvido ma sempre appassionante, intriso ancora di quel grunge che li contaminò durante gli anni ‘90: “Junk Sick” è infatti un omaggio agli Alice in Chains, “The Day He Died” è un pezzo in cui Keith parla della morte del padre, e insieme all’energica “The Calm that Disturbs You”, rappresentano forse i migliori pezzi di questo cd, un album in grado di offrire musica di alto spessore artistico. La splendida voce di Keith ci mostra poi il motivo per cui il singer abbandonò la band per intraprendere la carriera solista. La musica dei Life of Agony è in grado di dipingere un quadro decadente della società americana attraverso linee ed ombre trasportate in note dal quartetto di Brooklyn. (Francesco Scarci)

(Epic Records - 2005)
Voto: 76

https://www.facebook.com/lifeofagonyfamiglia/

Ritual Carnage - I, Infidel

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Death, Exodus, Slayer
Dalla terra del “Sol Levante” (ma con qualche contaminazione americana) ecco i Ritual Carnage, riesumati con il loro quarto e ultimo album (non si sa poi che fine abbiano fatto) partorito per la Osmose Prod. nel 2005. 'I, Infidel' è un 35 minuti di assalti frontali thrash/death di chiara matrice americana, stile Bay Area. C’è da dire subito che se questo lavoro fosse uscito sul finire degli anni ’80, avrebbe ricevuto larghi consensi, mentre vent'anni dopo, il sound proposto dai nostri, sembra abbastanza anacronistico. Dodici brani, per una durata media di tre minuti ciascuno, caratterizzati da una struttura quanto mai scontata: cavalcata thrash, coro, bridge, il classico tagliente assolo dei due chitarristi in pieno stile Exodus/Slayer e infine la chiusura con la ripresa della strofa iniziale. Cosa volete che vi dica di più, gli elementi tipici del genere ci sono tutti e costanti in ogni traccia. Posso solo aggiungere che i nostri sono abili nel maneggiare i loro strumenti, la produzione è buona, però ciò che più conta è che non siamo più nel 1987 quando usciva 'The Legacy' dei Testament. Da rivedere poi la voce, fastidiosa e castrata nelle sue tonalità più basse. I testi si occupano di problematiche sociali: guerra, religione e le altre piaghe che colpiscono il nostro pianeta; in “Room 101” ritroviamo anche riferimenti letterari a “1984” di George Orwell e altri richiami ad Edgar Allan Poe. Insomma, se ci fossero state, oltre alla perizia tecnica, anche le idee, forse non appiopperei a questi quattro ragazzi giapponesi (e all’americano di turno) questa stroncatura. (Francesco Scarci)

giovedì 23 gennaio 2020

Order of the Ebon Hand - VII: The Chariot

#PER CHI AMA: Hellenic Black
L'Attica, la culla della civiltà occidentale con la sua splendida Atene, luogo da cui emerse l'hellenic sound. Il quintetto degli Order of the Ebon Hand arriva proprio da là, forgiando il proprio sound laddove nacque quello di altre divinità greche quali Rotting Christ, Kawir, Thou Art Lord, Zemial, Necromantia, giusto per citarvene alcuni. La band di oggi si riaffaccia col terzo album, 'VII: The Chariot', fuori per la russa Satanath Records, dopo ben 14 anni dal secondo disco, 'XV: The Devil', sebbene nel mezzo siano usciti un paio di split. I pezzi per convincerci della bontà del lavoro di quest'oggi sono otto. L'album si apre con "Dreadnaught", un black mid-tempo che mi colpisce soprattutto in chiave solistica, visto un lungo assolo dai connotati heavy rock da stropicciarsi gli occhi. La song è poi ammantata da una sinistra aura occulta che rende più appetibile il dischetto. La seconda "Μόρες" è decisamente più tirata con un forte orientamento ad un black minimalista; quello che colpisce in questa traccia, oltre alla ferale architettura ritmica, sono delle limitatissime ma orchestrali tastiere di sottofondo che sembrano smorzare la furia incontrollata dei cinque ateniesi. Con "Wings" si prosegue sulla stessa lunghezza d'onda, con i classici suoni neri come la pece, fatti di taglienti melodie di chitarra (in stile Swedish black) e gracchianti vocalizzi. Peccato solo siano scomparse quelle chitarre classiche che mi avevano ben impressionato nell'opener. Si continua infatti a picchiare come forsennati anche nella successiva "Sabnock", song che vede la partecipazione alla voce, in veste di guest star, proprio del buon Sakis dei Rotting Christ, quasi a dare il proprio benestare al lavoro degli Order of the Ebon Hand; e la prova del frontman è come sempre indiscutibile. "Knight of Swords" parte più tranquilla con un arpeggio di un minutino a prepararci alla furia distruttiva di un brano di elevata intensità che mi porta a pensare "che mazzo deve farsi il batterista dei nostri". La grandinata prosegue anche in "Αίαντας" ma sarà cosi fino alla fine: in questa song compaiono delle sofferenti ed epiche voci parlate, mentre in "Bael" il ritmo si fa addirittura più furioso. "The Slow Death Walk" è l'ultimo episodio del disco caratterizzato da un riffing più trattenuto che si muove a braccetto con stralunati e quasi barocchi tocchi di tastiera che mi hanno evocato un'altra band greca, gli Hail Spirit Noir. Quello degli Order of the Ebon Hand è un gradito ritorno anche se un po' troppo derivativo. Speriamo solo che la band si levi un po' di ruggine di dosso e non ci faccia attendere altri tre lustri per un nuovo full length. (Francesco Scarci)

Laethora - March Of The Parasite

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death, Napalm Death, Hate Eternal
Se pensate che il solo fatto di avere tra le proprie fila Niklas Sundin dei Dark Tranquillity e alcuni membri dei The Provenance (band avantgarde svedese), significhi che il sound di questi Laethora possa stare a metà strada tra le due band sopra citate, beh vi sbagliate di grosso. Infatti, per chi non conoscesse la band di Gotheborg, i nostri suonano un death abbastanza feroce ed ispirato più al brutal americano che allo swedish death. Le dieci tracce di 'March of the Parasite', debut album del 2007, partono subito forte con chitarre al fulmicotone, ritmiche violentissime, iper blast-beat e growling vocals, di chiara matrice americana, con fonte d’ispirazione inequivocabile il sound di Morbid Angel e Hate Eternal. La prima sorpresa giunge però alla quinta traccia, “Black Void Remembrance”, dove in mezzo allo scatenarsi del putiferio, spuntano all’improvviso clean vocals (stile Katatonia) a spezzare, per un attimo, il ritmo infernale imposto dal quintetto svedese. Con la successiva “Repulsive”, si rendono chiare altre influenze che lì per lì, mi erano sfuggite nei primi brani, ossia un chiaro riferimento al sound dei Napalm Death (periodo 'Utopia Banished'). In “The Scum of Us All” il ritmo indiavolato dei nostri rallenta di brutto, a livelli quasi doom claustrofobici, per poi ripartire a pestare con la successiva “Y.M.B.”. Chiaramente, non siamo di fronte a nessun tipo di innovazione in campo estremo, tuttavia 'March of the Parasite' rappresentò una bella boccata d’aria fresca in un periodo abbastanza stantio per la scena estrema di metà anni 2000. (Francesco Scarci)

(Osmose Productions - 2007)
Voto: 73

https://www.reverbnation.com/laethora

Mithras - Behind The Shadows Lie Madness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Atmospheric Brutal Death, Akercoke, Morbid Angel
Nel 2007, dopo quattro anni di silenzio in cui avevo temuto il peggio pensando che la band si fosse sciolta, sono tornati sulle scene gli inglesi Mithras e il loro brutal death chiaramente influenzato da Morbid Angel e Nile, ma personalizzato da inusuali clean vocals e stralunate soluzioni chitarristiche. La base di partenza dell'allora duo di Rugby è sempre il brutal death “made in USA” ma arricchito, come di consueto - e questo rappresenta la loro forza - da eclettici e complessi arrangiamenti ed evocative parti atmosferico-spaziali, che da sempre mi fanno apprezzare la band. Le dodici tracce di 'Behind the Shadows Lie Madness' vi fanno sussultare dalla sedia, per la violenza e l’intensità profusa dagli strumenti di questi due impavidi musicisti. Mastodontici suoni di chitarra massacreranno di certo i vostri timpani, mentre velocità disumane, dettate dalle furiose ritmiche e dai veloci blast-beat, segneranno il tempo per un frenetico headbanging. Growling vocals, magnifici e tecnici assoli, ammalianti inserti tastieristici, completeranno un lavoro maturo e complesso, per cui valse la pena attendere così tanto tempo. La divinità solare è ha colpito ancora col proprio atmosferico brutal extreme metal. (Francesco Scarci)

lunedì 20 gennaio 2020

Vofa - S/t

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Evoken
Tre sole tracce (di dodici minuti ciascuna) sono sufficienti per gli islandesi Vofa per farci sprofondare nel loro sound cupo e deprimente. "I", "II" e "III" sono i titoli delle suddette song che faranno la gioia sicuramente di tutti coloro che amano il funeral doom nella sua accezione più viscerale ed atmosferica. Gli ingredienti del genere ci sono ovviamente tutti e non possiamo certo parlare di quale miracolo musicale o quant'altro però in una serata in cui la nebbia scivola sinistra attraverso le vie della mia città, una proposta cosi spettrale ci calza giusto a pennello. Le melodie sono dissonanti e stritolanti quasi ci si trovi tra le spire di un serpente a sonagli. La voce cavernosa del frontman è bella arcigna e ben ci sta su quel tappeto ritmico altrettanto aspro e al contempo indolente. Questo per dire che l'ascolto del debut album di questi misteriosi Vofa, band formatasi in Islanda in un non meglio specificato luogo, non è proprio la più facile delle release a cui accostarsi. Le tre tracce sono tutte accumunate dalle medesime caratteristiche strutturali, con una musicalità asfissiante che colpisce ai fianchi fino a farci barcollare, in una vena che può ricordare gli Evoken o gli altrettanto misteriosi EA. Nella seconda traccia sottolineerei la presenza di un cantato pulito spettrale che si affianca al growling ed un lavoro alla batteria quasi tribale che caratterizza il sound dei nostri. La terza track, a parte presentare un intro ambientale, poi si muove sulle medesime coordinate stilistiche, ossia a rallentatore, anche se a metà brano, la proposta sembra movimentarsi un po' di più e con delle voci demoniache a supporto. Insomma, avrete capito che quello dei Vofa non è proprio un album per tutti, quindi la raccomandazione è quella di avvicinarsi con cautela a questo caustico maelstrom sonoro. (Francesco Scarci)

domenica 19 gennaio 2020

En Declin - A Possible Human Drift Scenario

#FOR FANS OF: Dark Rock, Anathema, Klimt 1918
The Italian project En Declin is not a new band being founded in 1996 under the moniker My End. Later on, the project evolved and changed its name to En Declin, releasing two different albums between 2005 and 2009. As it usually happens, the line-up stability was the main problem for these guys to continue improving and evolving its sound, as some members came and left the band during a long period of time. In 2016, the three remaining members, Andrea, Marco and Mauricio decided to continuing as a trio in order to forge a renewed sound and release a new work, which would mark a new beginning for En Declin. The result of this effort is ‘A Possible Human Drift Scenario’.

En Declin’s style on this album is a more sophisticated and mature form of its previous sound. ‘A Possible Human Drift Scenario’ navigates between the realms of dark rock, melancholic pop and some noticeable progressive influences. The band´s music is a vivid soundtrack of a dreamy journey, forged by deep emotions as melancholy or the evocation of a long forgotten past. Musically speaking ‘A Possible Human Drift Scenario’ recalls the softest creations of bands like Katatonia or Anathema. Maurizio’s vocals are delicate yet mournful with a very fragile and beautiful tone; his vocals appear quite in the front of the mix, mainly alone, but also many times doubling them and giving the effect of having several singers singing at the same time, some nice examples would be the excellent ‘Caronte’ or the also fine tune ‘Mr. Lamb’. As mentioned, this is not a particularly heavy album, but a release more focused on being evocating. For this reason, the guitars play an accompanying role of the vocals with tastefully done melodies and chords with a strong prog nature, but being closer to the pop style more than an actual rock band. The guitars compositions like the necessary rhythmic base create structures with a simple, but a interestingly evolving progression in the most inspired compositions. A representative example of this is given by the longest track of the album ‘Das Eismeer’, which is probably the most interesting composition. These highlights improve the overall result because sometimes these kinds of albums tend to be slightly monotonous, as one may find some tracks particularly similar in its structure. Marco, who is the guy behind the drums, tries to enrich the sound of this album adding some atmospheric arrangements, like little electronics effects which serve as a intro for some songs or as a background ambience. I particularly like these adds as they reinforce the evocating nature of this album.

Overall, ‘A Possible Human Drift Scenario’ is a pleasant listen if you like these calm and slightly gloomy albums, where the atmosphere is more important than the strength of the compositions. It will obviously please those who enjoyed the softest side of the aforementioned bands like Katatonia or of particularly emotional projects like Klimt 1918. (Alain González Artola)
 
(My Kingdom Music - 2019)
Score: 70

https://endeclin.bandcamp.com/

Prime Creation - Tears of Rage

#PER CHI AMA: Heavy/Power, Hammerfall, Stratovarius
Dopo le iniziali scorribande nelle lande del power metal, i membri orfani del gruppo svedese Morifade, si riuniscono nel 2015 in un nuovo progetto che sancisce una svolta sostanziale negli intenti dei musicisti di Linkoping: i Prime Creation. Esauritasi infatti la spinta del filone power scandinavo, probabilmente indispensabile per sostenere i quattro album all’attivo, non molto convincenti a dire il vero, e terminati gli argomenti da spendere in materia, i tre amici e compagni Henrik Weimedal al basso, il batterista Kim Arnelled ed il chitarrista Robin Arnell hanno optato per una brusca sterzata al loro sound originale. Già dal 2016, con l’omonimo (ottimo) disco d’esordio, i Prime Creation mettono in chiaro i propri intenti per un deciso passaggio verso territori meno aulici e più diretti. Un solido heavy metal di scuola svedese con qualche riffone di chitarra e cavalcate in doppia cassa da headbanging puro, talvolta a sconfinare nel thrash. Un po’ il percorso che seguirono a suo tempo i connazionali Hammerfall, ma senza il loro classico biker-appeal. Durante la stesura del primo album, l’ensemble si completa con il reclutamento di Esa Englund ($ilverdollar, Hellshaker), vocalist dalle tonalità baritone, decisamente più adeguate allo scopo. Tuttavia, sembra quasi che il cambio di direzione fosse più convinto e convincente, nell'album d’esordio, rispetto a quest’ultima uscita intitolata 'Tears of Rage', risalente a pochi mesi fa. Nonostante l’impronta sia quella più heavy tradizionale che avevamo sentito in 'Prime Creation', questo secondo disco lascia permeare tra i solidi riff, qualche respiro rievocante il passato dei Morifade. Qualche refrain a ritmi abbassati, i cori e le tastiere che ritornano a farsi sentire pressoché in tutti i brani (seppur con peso differente) e sporadici rimandi a certe icone della vecchia guardia. Penso per esempio ad “All for my Crown” che sa un po’ di Stratovarius, anche se quelli meno ispirati del periodo tardivo. Oppure i Symphony X più orecchiabili (di 'Paradise Lost', per dire), con un alone percepibile in “Before the Rain”. Appunto, pare che solo qualche anno fa, i nostri fossero stati più radicali nelle scelte stilistiche. Oltre al sound meno deciso rispetto al precedente esordio, le sezioni “di respiro” si fanno più frequenti. Le tastiere ritornano ad assumere maggiore importanza, in tracce come l’opener “Finger Crossed”. Oltre a questa, buoni anche i brani “Pretend till the End” con la suo intro elettronica e la title-track “Tears Of Rage”, coi suoi carichi ed abbondanti riff ed un’ottima sezione solista di chitarra. Mancano però quei meccanismi che inneschino la giusta scintilla. Questa seconda fatica dell’ensemble svedese non è decisamente al livello del precedente. Un po’ troppo diluita forse. Oppure banalmente povera di ispirazione nel songwriting, magari troppo affrettata a causa del contratto discografico, anziché beneficiato dai giusti tempi per composizione e organizzazione delle idee. Anche la conclusione appare un po’ fuori luogo, con un tappeto di tastiere e la cadenzata voce di Englund su ritmi blandissimi in "Endless Lanes". Un passetto all’indietro quindi per i Prime Creation: peccato perché ci avevano davvero stupiti all’esordio, piazzando un bel colpo alla prima uscita. Ma appunto per questo, restiamo fiduciosi in attesa. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

giovedì 16 gennaio 2020

Monarque - Jusqu'à la Mort

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
When we speak about strong local scenes in the black metal sub-genre, there are a few ones which always stand out among the best, and if I should choose one with a particularly strong profile, I would personally mention the Quebec scene. It has always amazed its almost infallible quality, its devotion to the French language and this area´s cultural heritage, regardless of the specific lyrics of each project. Another fact I find particularly interesting, is the tasteful balance between a straightforward aggression and the atmospheric essence of the genre, which all these projects seem to master. You will find some of them which tend to lean to one side or another, but without leaving apart completely the aforementioned balance.

Monarque is one of the most interesting projects of this scene and unsurprisingly they master this delicate balance between strength and ambiance. This is not a new project as it was founded in 2003 by musicians who actively take part in other bands located in the same region, as the excellent Forteresse, Cjethe or Dèlétère, just to mention some of them. Prior to the current work, the band released three very interesting albums, the last one, ‘Lys Noir’, was released in 2013. It seems that the band is taking an increasing time to release a new full length, although fortunately they have returned with a new EP entitled ‘Jusqu'à la Mort’. The new work contains only three songs though its length, clocking around 22 minutes, and its quality make the listen worth of your time. The homonymous opening track is the finest example of a black metal song equally rich in ferocity, speed and melody. The vocals are aggressive, raw and wild, always accompanied by generally fast drums, though with a healthy variety in their tempo. The guitars are obviously the highlight with those riffs full of atmosphere and strength. Their melodies are truly addictive and excellently executed. In the background we find here and there some arrangements which enhance the ambience, making the music even more hypnotizing. As the EP progresses, those characteristics become stronger, especially for those touches which make each composition unique. Those acoustic guitars, the background keys or the organ, just to mention a few examples, provide the perfect contrast to the ferocious vocals and the top-notch guitars. All the songs may present a similar structure, but all the tweaks make each song in this EP distinctive and interesting.

At the end, Monarque has returned with an excellent EP which makes the wait for the next full length even more exciting. Personally, I only hope that the next record will have new compositions in the vein of this EP. Moreover, I would not be unhappy if they include some of these tracks as I have really enjoyed them. (Alain González Artola)


(Sepulchral Productions - 2019)
Score: 80

https://monarqueqc.bandcamp.com/album/jusqu-la-mort

mercoledì 15 gennaio 2020

The Lu Silver String Band - Rock' n' Roll is Here to Stay

#PER CHI AMA: Rock'n'Roll, Status Quo
Il nuovo album della The Lu Silver String Band mantiene le promesse consegnando al mondo una manciata di brani incandescenti, suonati con passione ed esperienza, per una lunga carrellata nel mondo del rock, condito di soul e blues al fulmicotone. Niente fronzoli ma puro rock'n'roll d'altri tempi che attinge a piene mani dai classici suoni di Rolling Stones, Flamin' Groovies, Faces, Tom Petty e Status Quo, per regalarci un gioiellino super divertente da ascoltare, che fila liscio e punta adrenalinico al nostro lato più selvaggio e ribelle. Dieci brani suonati perfettamente e prodotti in maniera esemplare, ridanno vita ad un'epoca speciale, tra polvere di strada, pub, saloon, auto americane, moto e vita spericolata. Con due cover ad effetto di Small Jacket ("No More Time") e Stevie Wright ("Hard Road"), 'Rock' n' Roll is Here to Stay' ha poi da offrire un piano e chitarre bollenti, una batteria dal suono fantastico e coretti sparsi qua e là alla maniera del southern rock, ballate e bruciante rock'n'roll. Lu Silver & Co. ritorna cosi a svegliare le anime assopite con il suo tocco di classic rock dalle forme perfette, piacevole all'ascolto, elettrizzante, mai pesante nè stantio, energico, come lo era 'The Southern Harmony and Musical Companion' dei micidiali The Black Crows all'epoca. Un album dai marcati riscontri temporali, che attinge alle memorie eterne del rock, tanto vintage e per nulla innovativo ma che fa esplodere una bomba sonora che funziona da decenni. Niente di nuovo ma tanto di buono, meraviglioso rock'n'roll, una miscela musicale che ci fa saltare dalla sedia, un intruglio sonico che con una sequenza di brani omogenea e coinvolgente, riesce a tenerci legati all'ascolto per l'intero disco. Splendida la ballata, "In a Broken Dream", con la voce di Lu a ritagliarsi un posto d'onore assoluto, per bellezza, calore e profondità profuse. Ascolto obbligato per gli amanti del rock con R maiuscola e la V maiuscola di vintage nel cuore. (Bob Stoner)

(GoDown Records - 2019)
Voto: 75

https://www.facebook.com/lusilverandstringband

martedì 14 gennaio 2020

Dimholt - Epistēmē

#PER CHI AMA: Black, Kriegsmaschine, Immortal
Formatisi a Burgas nel lontano 2003, i bulgari Dimholt tornano con la loro seconda release in 17 anni. Il sound del quintetto ripercorre i dettami del black death scandinavo, ove una linea melodica alquanto tagliente ma assai melodica, arma la matrice ritmica dei nostri. "Death Comes First" è la perfetta song d'apertura di questo 'Epistēmē', tre minuti di funamboliche ritmiche intessute in perfetto stile Immortal con voci demoniache che calzano qui a pennello. In "Into Darker Serenity", la proposta della band perde in violenza ma acquisisce galloni di malvagità con divagazioni esoteriche che rendono più interessante e personale la musica dei cinque, anche laddove si torna a colpire con una certa veemenza. Le atmosfere sono oscure, nere come la pece direi, ricordano forse un che dei Mgła e dei Kriegsmaschine, il che è bene, bilanciando alla perfezione brutalità e melodia. In fatto di brutalità, credo che "Sacrilege" si batta alla grande per rappresentare uno dei momenti più feroci del cd, con un'aggressione tiratissima e malefica tra ritmiche serrate e screaming belluine. Quello che all'inizio pensavo un cd di scarso interesse, mi sta facendo non troppo lentamente ricredere sulle eccelse qualità degli strumentisti di quest'oggi. Ancora suggestioni più lente e decadenti con "The Martyr's Congregation", quasi a voler alternare pezzi incandescenti stracolmi di blast beat con altri mid-tempo più ragionati, malinconici e dal tocco quasi progressivo, con quella vena ritualistica sempre presente in sottofondo a sottolineare che i Dimholt non sono certo dei pivelli, soprattutto quando la band prova ad abbracciare sonorità più sghembe e disarmoniche che evocano un che di Satyricon, Enslaved e pure Ved Buens Ende. Si torna alla carica con "Nether", una polveriera in fatto di malignità, che ha il merito di sottolineare l'abilità dei Dimholt nel gestire con una certa disinvoltura i cambi di tempo, con rallentamenti repentini tra stoccate ritmiche e tirate di freno a mano. Un delicato arpeggio di chitarra apre "The Fall", ma ne rappresenta la classica quiete prima della tempesta sonora scatenata dall'entropica sezione ritmica che prosegue senza soluzione di continuità anche nella spregiudicata "The Hollow Men", dove lo screaming ferale del frontman diviene ancor più convincente. Nella speranza di non dover attendere un altro lustro per ascoltare qualcosa di nuovo dei Dimholt, vi invito a proseguire nell'ascolto delle rimanenti tracce. A rapporto mancano infatti "Scars of Seclusion", dai forti ammiccamenti alla Deathspell Omega, la corrosiva “Reliquae” (la song più lunga dell'album) e “Aletheia", tre marcescenti song che contribuiscono ad inferire il definitivo colpo di grazia all'ascoltatore con quel loro giusto mix tra black insano, spruzzatine prog e atmosfere infernali. Cercate un difetto a 'Epistēmē'? Io direi la mancanza di veri e propri assoli, ma il rischio sarebbe stato di avere tra le mani un disco bomba, ossia quello che auspico di ascoltare nella prossima release targata Dimholt. (Francesco Scarci)

Action & Tension & Space - Explosive Meditations

#PER CHI AMA: Psych Rock
Tre pezzi per quaranta minuti di musica strumentale, quella dei norvegesi Action & Tension & Space. Moniker particolare, ma anche la musica di questo 'Explosive Meditations' non scherza affatto in peculiarità. Lo dimostra subito l'opener "Peruvian Dream", libera ad abbandonarsi nella più pura improvvisazione tra un drumming tribale, tocchi di mellotron e organo, con una fumosa atmosfera da lounge bar, e a sguazzarci in mezzo troviamo delle sorprendenti chitarre rock che fluttuano nell'etere fantasioso di questi quattro musicisti che inglobano tra le proprie fila membri di Soft Ride, The Low Frequency In Stereo, Ape Club, Electric Eye e Lumen Drones. La loro militanza in queste realtà particolari si materializza in questo trittico di song altamente fulminate che ricordano i Pink Floyd più deliranti e sperimentali, ma anche le divagazioni frastornate e lisergiche dei The Doors. La band ci tiene a far sapere che il disco è stato registrato sull'isola di Karmöy durante una due giorni di pioggia pesante e burrasca che in un qualche modo deve aver influenzato gli umori del disco, conferendogli una maggiore dinamicità. E io non posso far altro che apprezzare e godermi i meditabondi impulsi sonici della band che si gioca la carta dell'onirino nella successiva e un po' strampalata "Mørke Skyer Over Sildabyen", fino ad arrivare alla conclusiva "Destroyer of All Worlds", gli ultimi venti minuti scarsi di una release senza alcun dubbio coraggiosa, che ha ancora modo di soggiogarci attraverso il sound cosmico, dronico, ambient, a tratti anche fumantino, di una band che vi invito caldamente ad assaporare in tutte le sue peculiari venature sonore che potrebbero evocare addirittura i Motorpsycho di un ventennio fa. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

domenica 12 gennaio 2020

The DogHunters – Splitter Phaser Naked

#PER CHI AMA: Indie/Psych Rock
Arriva da Colonia questo secondo album dei The DogHunters, ricco di spunti retrò e voglia di buona musica che sicuramente dai più verrà accolto con una certa diffidenza. Dico retrò perché mi piace pensare alla band tedesca come una riedizione del talento che fu di Lloyd Cole and the Commotions ai tempi di 'Rattlesnake' quando alla fine degli anni ‘80, la neo psichedelia si intrecciava al rock, al garage, al folk e alla new wave, costruendo favole sonore uniche, cadute ahimè nel dimenticatoio troppo in fretta. Questo paragone lo faccio per sottolineare che i The DogHunters sono un’entità anomala nel calderone psichedelico attuale, pescando a piene mani dal pop psichedelico, con una cantabilità fuori dal comune ed una costruzione musicale tanto classica quanto intuitiva ed efficace, figlia più delle correnti neo psych di fine anni ‘80-inizio ‘90, piuttosto che dagli originali anni ‘60 o ‘70. I nostri si portano appresso tracce dei primi The Charlatans e degli Happy Mondays, un che dei Kasabian in "Make it Happen (Love Ain’t in Vain)", quando la band calca un po' troppo la mano alla ricerca del brano radiofonico a tutti i costi, ma il suono migliora (sicuramente più concreto e più personale ora che nel loro primo full length) e prende spessore quando si rende più underground e garage, con spinte acide di un tempo che fu. Il lato più melodico e pop dei The (T4) si muove leggiadro tra un brano e l’altro fungendo da ottimo collante, ampliando e colorando il raggio d’azione del quintetto teutonico. Anche certi umori spettrali degli Shadows (e penso a "How do you Know?") si celano dietro il loro sound, conferendo una vena rock di tutto rispetto, pur non calcando mai il piede sull’acceleratore e sulle distorsioni, alla fine sempre ben controllate e lisergiche al punto giusto. La produzione non è esplosiva e pur essendo buona, ricorda assai i lavori ipnotici e allucinogeni della scuola garage rock, cosi sotterranei ed esoterici (tipo 'Easter Everywhere' dei The 13th Floor Elevators), rivisitati però con una vena più soft, moderata e per certi aspetti anche moderna. Sono 12 le canzoni contenute in 'Splitter Phaser Naked', mai troppo lunghe, sempre orecchiabili e ben suonate, e che guardano all’indie quanto al rock psichedelico. Non possiamo parlare di un disco originale ma certamente di un album ispirato, e di un suono in esso contenuto che non mostra segni d'innovazione ma che presenta una buona cura ed una ricerca di suoni ad effetto. La band comunque suona bene ed il matrimonio tra rock ed eleganza sonora è alla fine perfettamente riuscito anche grazie ad un vocalist dalla timbrica calda e liquefatta ed un sound avvolgente in tutte le scorrevoli song. Forse non tutti li apprezzeranno ma come i loro compatrioti Love Machine,  anche i The DogHunters sapranno soddisfare chi avrà il coraggio di avvicinarsi alla loro musica così intrisa di umori rock acidi, per un album tutto da scoprire! (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2019)
Voto: 73

https://www.facebook.com/thedoghunters/

Excelsior – O Horizon

#PER CHI AMA: Electro Pop
Non è facile identificare questo primo album degli Excelsior, progetto capitanato dalla musicista danese Anja Tietze Lahrmann (ex Ice Cream Cathedral), che in solitudine si affaccia al mondo musicale con un disco ricco di spunti intelligenti e rimandi al creato del pop più raffinato e ricercato. Non so, se come ho letto in rete, l'accostamento all'avanguardia pop elettronica sia proprio la più giusta definizione per la sua opera, di fatto, quello che si nota  nelle tracce di questo 'O Horizon' sono numerose rievocazioni dal passato, dai primi Eurytmics, ai Soft Cell, passando per le derive elettroniche dei Visage e la Danielle Dax di 'Pop-eyes'. Diversi i suoni sintetici qui contenuti con la musica che non emana mai particolare calore, suonando decisamente gelida. Al contrario, la voce dell'artista di Copenaghen, che per le liriche ha trovato ispirazione nella geotassonomia e nei bestiari medievali, si mostra sognante, malinconica ed intensa, sempre all'altezza della situazione. Dando uno sguardo ai brani, "In Silico" sembra uscita da una registrazione perduta della dimenticata Sade, mentre "White Arrow" si erge nella sua candida ed eterea introspezione, su di un tappeto sonoro fatto di note di un piano che potrebbe essere stato un tempo degli Alan Parsons Project (epoca 'A Dream Within a Dream"), in una scarna veste digitale, modernissima e senza ritmo. Tecnicamente si nota una continuità musicale verso lidi sempre più elettro-pop dalla metà del disco in poi: in "Wandering Womb" ad esempio si sfoderano ritmi cari al geniale David Byrne, con un tocco di glacialità tipica della musica elettronica del nord Europa. Nel finale ci si immerge poi in un'inaspettata, romantica e acustica ballata dai rintocchi pizzicati, dal sapore a metà strada tra folk e tramonti dell'America latina più intima. È comunque la bellissima voce di Anja a fare la differenza, penetrando l'ascoltatore e accompagnandolo alla scoperta della sua musica, facendo aumentare il peso di un disco che, nella mera valutazione musicale, sarebbe un po' povero per sostenersi da solo senza parte vocale. Nel complesso 'O Horizon' è un buon lavoro con una produzione più che ricercata e ben fatta, alcuni pregiati cenni di sperimentazione digitale conferiscono uno status di moderno pop astrale che si lascia ascoltare facilmente ma senza dare l'idea del banale. L'orecchiabilità sofisticata delle melodie poi e il richiamo a quei suoni cari alle synth wave band degli anni '80, conferiscono una raffinata qualità e omogeneità al disco, che non definirei del tutto originale ma sicuramente una singolare re-interpretazione in chiave moderna di certo pop sperimentale e di classe di quegli anni. (Bob Stoner)

(The Big Oil Recording Company - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/excelsiordk/

giovedì 9 gennaio 2020

Scratches - Rundown

#PER CHI AMA: Alternative/Post-rock
Questo disco e questi Scratches devono essere innalzati a furor di popolo e fatti scoprire ad un pubblico internazionale come una certezza di qualità e stile. Certo, non che le loro armi siano innovative, ma la commistione di elettronica e rock sulfureo mostrato su questo loro terzo lavoro intitolato 'Rundown', è impressionante, cosi come la voce di Sarah Maria è divina, ad un passo dai Portishead ed un altro dalla Nico più introspettiva, ad un soffio dalla sensualità malata di Milla Jovovich nella cover di "Satellite of Love" nella soundtrack di 'The Million Dollar Hotel', insomma un'interpretazione vocale di tutto rispetto. I brani sono avvolgenti, struggenti, storie di vita vissuta e ombre nella notte. L'opening track "Between" trafigge ogni cosa che le passi di fronte, "Sorry" travolge con il suo strano rock di mezzanotte con la voce di Sarah che guarda a Skin nelle note più basse. Elegante, acustica ed intima si muove "Virgin Tree", la veste nera e l'infinito soffio di "Ghost in the House" spaventano per drammatica bellezza, la ballata romantica di "Rundown", accompagnata in rete da un bel video con lo stesso inquietante protagonista del brano Between, rappresenta l'incubo ideale. E ancora come non sottolineare la cupa dreamwave di "Lie", la marcia funebre del blues rallentato di "Charon", che ci accompagna direttamente all'inferno delle emozioni con la sua cadenza quasi doom, senza tralasciare la lunga "Song to the Unborn", cosi orchestrale, compatta, definitiva, che coinvolge tutte le sfaccettature sonore della band, dal rock alla new wave, all'elettronica, con sentori di Ulan Bator, post-rock dei Bark Psychosis ed il trip hop come sfondo magico. Accompagnato da un'immagine di copertina assai bella e ricercata, perfetta come immagine per la band svizzera, 'Rundown' è il giusto epilogo di una trilogia di lavori di tutto rispetto, iniziata con il primo album nel 2015 e sfociata in questa piccola gemma di rock emotivo e notturno. Un obbligo d'ascolto per coloro che sono alla ricerca di musica alternativa di qualità, ecco a voi un piccolo gioiello introspettivo. (Bob Stoner)

(Czar Of Crickets - 2019)
Voto: 80

https://scratches1.bandcamp.com/releases

mercoledì 8 gennaio 2020

Arallu - En Olam

#PER CHI AMA: Black Mesopotamico, Melechesh
Non più di un anno fa abbiamo recensito su queste pagine 'Six', sesto album degli israeliani Arallu. Autunno 2019 e i nostri tornano con un nuovo lavoro, 'En Olam' ed il loro inconfondibile sound black thrash mesopotamico. Non si scherza davvero con la rabbia distruttiva di "The Center of the Unknown", incendiaria opening track che solo dopo una martoriante parte thrash metal, dà sfoggio a quel marchio di fabbrica che da sempre rende gli Arallu e poche altre band (Melechesh su tutte) come alfieri del Mesopotamic sound, ossia di quelle melodie mediorientali abbinate al black, che rendono la proposta dei nostri cosi originale ed esotica. La title track si palesa in questa veste già dalle prime note con un sound decisamente più ritmato quasi tribale, con quelle splendide melodie che immagino accompagnare il sinuoso movimento di deliziose danzatrici del ventre. E mentre la mia fantasia mi guida verso bellissime donne, ecco che a scuotermi dal mio stato onirico, ci pensano le aguzze chitarre del quintetto israeliano. La musicalità di quel mondo antico si manifesta anche nella successiva "Devil's Child", brano dalle ritmiche serrate e dalle voci acuminate che mostra un bel break centrale a rallentare una song sin qui assai infuocata. La chiusura è affidata poi all'incisivo coro che inneggia proprio al titolo del brano. Non c'è tempo di prendersi pause, visto che "Guard of She'ol" irrompe a gamba tesa nello scorrere impetuoso di questo 'En Olam', che vede peraltro qui l'utilizzo da parte del vocalist, di un cantato pulito, per un esperimento davvero azzeccato. Parte decisamente in sordina invece "Vortex of Emotions", con un titolo del genere mi sarei aspettato ben altro: ci vogliono ben quattro minuti infatti ai nostri per provare ad aumentare il numero di giri al motore, con scarso successo a dire il vero, per un capitolo non troppo ben riuscito. "Achrit Ha'Yamim" è il classico intermezzo strumentale che ci introduce a "Prophet's Path" che mi sa tanto diventerà la mia song preferita dell'album, di certo quella più varia per la sua natura multietnica, peccato solo duri poco più di tre minuti. Le cose sembrano tuttavia progredire con le canzoni finali: davvero buona "Unholy Stone", che non so per quale motivo, riesce a trasmettermi quella sensazione di tensione e disagio che avvertii la prima volta che mi trovai in piena città vecchia a Gerusalemme. Lo stesso dicasi per la successiva e suggestiva "Trial by Slaves" che completa un trittico di song davvero interessante. A chiudere, la magia di "Spells", un gran bel pezzo all'insegna di un sound orientaleggiante che chiude degnamente il settimo sigillo targato Arallu. (Francesco Scarci)


(Satanath Records/Exhumed Records - 2019)
Voto: 74

https://satanath.bandcamp.com/album/sat266-arallu-en-olam-2019