Interviews

sabato 28 febbraio 2015

Waking Aida - Eschaton

#PER CHI AMA: Math/Rock strumentale, Post-rock
Ovvero della deriva math di Mtv, David Foster Wallace e altri discorsi. Ok, dovrei avere un’età che quanto meno mi porti a considerare seriamente se guardare o meno i programmi di Mtv, ma ognuno ha le sue perversioni, per cui confesso che ci sono alcuni programmi che guardo. E li guardo proprio perchè mi piacciono. Beh, ho notato come, da un anno a questa parte, sempre più spesso si faccia uso di commenti musicali math rock (cioè, rock strumentale non troppo rumoroso, con le chitarrine sottili, i crescendo, i controtempi e tutte quelle cose lí) per nulla disprezzabili. E questa è la prima cosa a cui ho pensato dopo aver ascoltato quest’ultimo lavoro degli inglesi Waking Aida. La seconda, in verità, dopo aver notato che tanto il titolo dell’album quanto quello del primo brano ("Incandenza") fossero legati a doppio filo a 'Infinite Jest', il romanzo-monstre di David Foster Wallace che contende all’'Ulisse' di Joyce la palma di libro col più basso rapporto tra coloro che lo citano come libro della vita e quanti di costoro l’abbiano effettivamente letto. Se il disco sia realmente dedicato al libro non ci è dato di sapere, anche perchè i quattro londinesi ci hanno inviato uno spartano CD-r privo di qualsivoglia informazione aggiuntiva, ma a me piace pensare che lo sia, un po’ perchè ció mi conferirebbe un’aria piú intelligente, e un po’ perchè contribuirebbe a rendermi piú simpatici i Waking Aida. I quattro sono senza dubbio dei musicisti eccellenti e propongono il loro rock strumentale che si pone a metà strada tra gli ipertecnicismi math e i saliscendi emozionali del post rock, scegliendo di fatto di non schierarsi. Quello che mi piace della loro proposta è la capacità di restare sospesi su più generi, richiamando suoni e atmosfere che citano tanto gli Explosion in the Sky quanto i Talking Heads (le chitarre di "Glow Coin" e "Time Travel with Firends" ne sono un esempio). A farla da padrone sono sicuramente le chitarre, per lo più pulite e suonate sempre in modo originale anche se un tantino cerebrale. A volte rischiano di richiamare alla mente la terribile parola “fusion”, ma riescono poi sempre abilmente a mantenersi al di sopra della linea di galleggiamento, sporcandosi con divagazioni semiserie che hanno il merito di tenere desta l’attenzione (cosa sempre difficile nei dischi strumentali) e rendere il tutto un po’ più divertente. Brani migliori? Per una volta è difficile dirlo per merito di una qualità media piuttosto alta. Oltre alla già citata "Incandenza", piacciono "How to Build a Space Station", con i suoi crescendo, la sognante "Glow Coin" e "This isn’t Even my Final Form", a cui è affidato il compito di chiudere il disco con un andamento emotivamente ondivago, da perfetta colonna sonora per una scena di tramonto invernale sulla spiaggia di Brighton. Molto interessanti. (Mauro Catena)

(Robot Needs Home Recordings - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/wakingaida

Warnungstraum - Mirror Waters

#PER CHI AMA: Black Ambient, primi Katatonia, Cultus Sanguine, primi Ensoph
Dei Warnungstraum non so granchè se non che si tratti di una band lucana, costituita da Bartlett Green, Cabal Dark Moon e Vox Mortuorum, terzetto dedito inizialmente a un black metal ferale, che dal 2009 a oggi, ci ha regalato tre lavori, di cui l'ultimo è il qui presente 'Mirror Waters'. Fatte le dovute presentazioni, ci addentriamo alla scoperta delle quattro song che costituiscono l'album, quattro lunghi sospiri di morte, aperti dalle melodie orrorifiche di "Antarabhava" dai decadenti contenuti lirici. La song mostra fin da subito il cambio di rotta intrapreso dall'act di Potenza che, abbandonati gli estremismi sonori darkthroniani dei precedenti album, si lancia in un sound mid-tempo che ha rievocato nella mia mente i gloriosi e sottovalutati Cultus Sanguine. Auspico che anche voi ricordiate questo nome (se cosi non fosse siete pregati di andarveli a cercare) e possiate quindi capire l'effluvio emotivo che potrete respirare nella opening track, song che gode di una certa maestosità di fondo, sebbene contraddistinta da ritmi di chitarra lenti e delicati, in cui i synth di B.G. rappresentano il vero driver della musicalità dei nostri e l'acido screaming di Cabal Dark Moon ne completa il quadro. Dieci lunghi minuti di sonorità oniriche spezzate da un break ambient, costituiscono il più che discreto biglietto da visita dei Warnungstraum (in tedesco "sogno premonitore"). "The Gardens of Yima" è la seconda traccia dall'inequivocabile impronta ambient, per cui ho chiuso gli occhi e ho immaginato di trovarmi in un tempio buddista, lasciandomi sopraffare dall'affabile spiritualità delle poche note che risuonano in questo lungo brano strumentale in cui non vi è alcun segno di estremismo sonoro. Con "Narkissos" ritorniamo a percorrere il sentiero battuto nella opening track: atmosfere malinconiche, la chitarra acustica che si sublima con quella elettrica, le harsh vocals stemperate dal lavoro delle tastiere in un altro lungo brano dai contenuti accativanti, forse alla lunga un po' ripetitivi, ma comunque di sicuro impatto emozionale, che a metà brano sembrano anche evocare lo spettro dei Katatonia più primordiali, per un risultato alla lunga coinvolgente. Il suono di un'arpa e di un flauto introducono la conclusiva "The Sad Singing Woods", altro pezzo strumentale di suadente misticismo che non sfigurerebbe in un qualche lavoro new age di Kitaro. 'Mirror Waters' alla fine è un buon lavoro che rilegge il black metal sotto una nuova prospettiva, che sia l'inizio di una nuova era? Difficile dirlo ora con soli quattro brani, mi limiterò pertanto a parafrasare il Manzoni con "Ai posteri l'ardua sentenza..." (Francesco Scarci)

(Nykta Records - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Warnungstraum

venerdì 27 febbraio 2015

Amederia - Unheard Prayers

#PER CHI AMA: Gothic/Dark/Doom 
Vi chiedete chi siano gli Amederia? Eccomi a voi per parlarvi di questa band tartara, i cui componenti sono originari del Tatarstan, una repubblica autonoma della federazione Russa locata ad 800 km da Mosca. Con questo 'Unheard Prayers', i nostri sono al loro secondo full-lenght, dopo il primo uscito nell'anno della loro formazione, il 2006. L’apertura dell’album è strumentale e affidata alle note di “Eden” delicata e remissiva aria composta da note d’un pianoforte garbato. Cambiamo registro. Are you ready to go? Questa la carica di “Who We Are”, che perfora i timpani con un growl prolungato emesso da Galeev Damir, che si mescola alla sottile, sensibile voce di Gulnaz Bagirova. Nel brano si alternano growl, sussurri parlati, riff maestosi. “Si aprì il carillon, una ballerina girò e tutto d’un tratto la stanza si rabbuiò…”. Sono proprio le note di un carillon ad introdurre “Loneliness in Heaven”. Questa melodia pesa sul cuore. La musica ed il testo sono impeccabili. Le doti canore dei due protagonisti del pezzo trasudano soggezione e brividi. La chitarra scorsa da Danila Pereladov non scherza, contribuendo all’oblio ansioso, che trasmette questo brano. L’intro di “Dance of Two Swans” è percorso dalle mani di Konstantine Dolgin che scrivono note armoniose sulle sue tastiere. Questo pezzo accantona il growl, in favore delle due voci che s’intersecano in un unisono sognante. Veniamo a “Forbiden Love”. Ora possiamo abbandonarci alle capacità del batterista, Ilnur Gafarov, che non ci dà tregua con un battere e poi levare, ora ritmato, ora lento, sempre agganciato al sottofondo di un leit motive proposto dal bassista Andrey Dolgih. È la volta di “Angel Fall”, che sembra un prolungamento della terza traccia, la ripetitività è in agguato. Ciò che da identità propria ai due pezzi, è l’alternanza dei diversi stili. Prima un dark/doom, poi la parte lirico/sinfonica, che lascia nuovamente spazio al dark/doom. Dopo questo tripudio di suoni e sensazioni voliamo verso la chiusura dell’album. Prima con “Togheter”, che alleggerisce la mente dandole in pasto linfa. Questa love ballad si compone di una suonata di pianoforte struggente, in stile Kivimetsän Druidi. Ne consiglio l’ascolto, dopo aver creato intorno a voi un silenzio assoluto. La fine di questo lavoro, coincide con “Sunset”. E sembra la chiusura di un cerchio, identico a come è iniziato. L’aria che ne traspira è mesta, ma con un barlume in un cuor logoro. L’album nella sua pienezza tecnica ed emozionale risulta un viaggio, che non appesantisce e non annoia mai l’anima. (Samantha Pigozzo)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 75

mercoledì 25 febbraio 2015

Massacre - Back From Beyond

#FOR FAN OF: Death Metal, Morbid Angel, Obituary
I'm not sure I agree with referring to Florida's Massacre as 'legends'. They had one great album in the early 90s, one god-awful pile of shit in the mid 90s, and...pretty much nothing else. While Death, Morbid Angel, Autopsy, Obituary etc. were busy cooking up album after album of superb death metal goodness - Massacre couldn't manage any more than one worth talking about. Legends? Hardly. Yes, 'From Beyond' was a damn fine death metal release. You know why? Because Massacre understood the need for depth within the longer song structures, and for brevity within the entire affair. Their brand new effort, 'Back From Beyond' (yes, they actually called it that), completely misses this point and falls flat on its face. Let's start with the positive: firstly, the absence of Kam Lee might have worried many. Though I never viewed him as much more than a reject from Death's 'Spiritual Healing' era - he did have some nice grunts which enlivened Massacre's debut. However, fear not! Ed Webb is more than capable of filling Lee's murky shoes. In fact, the vocals are the best thing about this record, period. Webb's visceral growls sound so natural and controlled, even when he completely lets loose and treats the listener to a merciless high-pitched scream (see the beginning of "Succumb To Rapture"). He also gains merits in my eyes for being decipherable, helping 'Back From Beyond' to at least succeed in accessibility where it fails in creativity. The production also warrants a round of applause. Tim Vazquez deserves much praise for making 'Back From Beyond' sound up-to-date and glossy, whilst maintaining that classic Flori-Death feeling. Webb's masterful growls still dominate, but the guitars/bass/drums all fuse together as one well-oiled metal machine. Unfortunately - that's really where the positivity ends. The songs themselves are similar to my writing: dull, and appear far longer than they are. I find it almost insulting that they have an ambient intro in the shape of "The Ancient Ones". This implies that they are preparing the listener to delve into a realm full of atmosphere and well-structured schematics. Unfortunately, it only emphasizes the disappointment when you find out that every song is uninspired, devoid of any excitement, and contains as much variety as a Tesco Value biscuit party-pack. Seriously. Every song sounds the fucking same. Not in the hyper-fun Dragonforce way - in a monotonous, bore-you-to-suicide way. This is where the band should have taken a lesson from their superior debut. 'From Beyond' consisted of 9 tracks, mainly between 4 and 6 minutes. This forced each song to have enough substance to be memorable and interesting, encouraging repeated listens. 'Back From Beyond' consists of 14 tracks (!), mainly between 2-3 minutes. This forces each song to end before it ever has a chance to develop any intriguing musical ideas. Even now, after 5 painstaking listens, I cannot distinguish one song from the other. Superb vocals, production, and artwork contrast awkwardly with bland riffs, forgettable 'hooks', and badly-executed solos. I'm not sure I hold out much hope for this band returning with another full-length release, and neither do I care. I'll stick to Cannibal Corpse, Obituary or Gorguts for quality old-school death metal. 'Back From Beyond' is not excruciatingly bad - it just seems irrelevant in today's climate. It would probably make excellent background music though... (Larry Best)

(Century Media - 2014)
Score: 50

T.K. Bollinger & That Sinking Feeling - A Catalogue of Woe

#PER CHI AMA: Blues Rock, Nick Cave, Father John Misty
T. K. Bollinger, da Melbourne, è un losco figuro che nelle foto mostra quell’eleganza old style allo stesso tempo fascinosa e inquietante di un Captain Beefheart, con tanto di cappello piumato e barba da mormone. Il nostro uomo si porta dietro il suo blues come un fardello doloroso quanto necessario e calca i palcoscenici ormai da una decina d’anni, prevalentemente in formato acustico, in solitaria. I That Sinking Feeling sono l’incarnazione del suo nuovo progetto, una vera e propria band (oltre al leader, voce e chitarra, ci sono R.S. Amor al basso e Vis Ortis dei Megikah alla batteria), che pubblicano ora il loro primo full lenght dopo l’EP 'The Roots of Despair' del 2011 con 9 brani frutto di tre anni di lavoro. Fin dal titolo, 'A Catalogue of Woe' scopre le carte e si propone di mettere in fila canzoni che sono brandelli di emozioni forti, squarci nell'anima torturata e inquieta del suo autore. Il blues è senz'altro la parola d’ordine. Blues per come lo potevano intendere una ventina d’anni fa i Bad Seeds di Nick Cave, la cui presenza in termini di influenze è decisamente tangibile. Una delle caratteristiche prominenti del suono dell’album è la voce di Bollinger, il cui timbro particolare – sorta di via di mezzo tra Nick Cave, Father John Misty e un Anthony meno teatrale - caratterizza fortemente i brani, grazie anche al supporto di una strumentazione asciutta ed essenziale. Chitarra, basso e batteria hanno un suono secco ed elettrico, capace di assecondare il leader tanto nel dipanarsi dei suoi blues sepolcrali, dove sanno mettere a nudo le inflessioni quasi soul che ogni tanto la sua voce rivela, quanto di sostenerlo laddove il suono si fa più rock, cupo e rumoroso. Presi singolarmente, i brani sono tutti di ottimo livello, a cominciare dall’opener “Betting on Your Dying Day”, quasi scarnificata nella sua dolente essenzialità, o la solenne “Nothing is Always Certain”, dove vengono evocati i Bad Seeds più innodici. La scaletta viene poi squassata dal (gradito) frastuono di brani come “Tortured by a Racialised Folk Devil” o “That Which Does Not Kill Me, Gives Me Cancer”, fieramente e oscuramente rock, per poi trovare forse il suo apice nel quasi-gospel da brividi “Where You There When They Crucified My Love?”. Da menzionare anche l’elegante “Rich Man’s Heaven”, e la sinuosamente soul “Wearing Down My Devotion”. Impossibile poi non soffermarsi sui testi, un viaggio doloroso e personale dritto al cuore di storie dure, che tuttavia lasciano intravedere la possibilità di una redenzione, che non viene però dall'alto, quanto da dentro. Perché, per dirla con l’autore, c’è sempre la possibilità che “ the shit in life can become the compost for new growth”. Disco davvero bello, toccante e fragoroso allo stesso tempo. (Mauro Catena)

(Yippie Bean - 2014)
Voto: 80

Country Corpses - Protozoan in Love

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore/Sludge
Fantastico, apri la pagina Facebook dei COUNTRY CORPSES e ti ritrovi la foto di loro tre con Cristina D'avena, un must! Dopo questo biglietto da visita goliardico, andiamo a parlare seriamente di questo trio nato nel 2008 a La Spezia. Da quello che ho potuto recuperare dal Web, i nostri sono un side project (vi hanno partecipato tutti e tre gli elementi) degli ALLIGATOR GAR, i quali un paio di anni fa lanciarono un disco dal profetico titolo 'Country Corpses'! Dopo questo principio di emicrania dovuto all'intersecarsi di nomi, passiamo all'album prodotto dalla Skatti Vorticosi Records, contenuto in un semplice jewel case dalla grafica a mano libera che richiama scene di vita agreste di un mondo onirico. Infatti, le figure rappresentate sono incroci di diversi animali o insetti, come la sensuale formica-sirena, anche se il pezzo forte è il disegno all'interno del booklet: il ritratto di famiglia fatto dal piccolo Cthulhu che rappresenta un papà umano e una mamma medusa felicemente ritratti in spiaggia. I Country Corpses sono di sicuro dei buontemponi che raramente si prendono sul serio, ma quando si parla di musica, la questione cambia. I brani sono relativamente brevi, e gli otto pezzi contenuti scorrono veloci in poco più di venti minuti, sposando la filosofia del noise/hardcore/punk. "Healthcare" è il primo brano ed è bello forte, un treno pieno zeppo di grunge/stoner che arriva veloce e che puoi scansare solo se hai i riflessi pronti. Il chitarrista/cantante Dani ci mette l'anima, dando alla luce ottimi riff e assoli, cantandoci pure sopra in maniera abbastanza convincente. Lo stile è sofferente, spesso urlato e graffiante, che regala maggior enfasi alle melodie dei vari brani, ma che talvolta risulta troppo forzato e poco naturale. Eli (basso) e Nico (batteria) fanno del loro meglio per fondersi un'unica entità fatta di puro ritmo con risultati piuttosto piacevoli. "The Cities Kingdom" è il brano che convince di più, arrangiato meglio ed equilibrato, dove anche il cantato si trova più a proprio agio. La canzone graffia e morde come un animale in gabbia, le chitarre sono potenti e oggettivamente belle da ascoltare. C'è pure spazio per un breve break a metà traccia, una giusta motivazione per riprendere dallo stesso punto, senza tante remore. Più interessante lo special che arriva qualche secondo più tardi, dove i Country Corpses si trasformano in satanassi dello sludge. Probabilmente troppo brevi le parti interessanti e troppo lunghe quelle scontate, ma il brano scorre che è una meraviglia. "Worthless" strizza l'occhio ai Verdena e agli Smashing Pumpkins dei tempi passati, una bella cavalcata ruvida e polverosa. Tanta energia incanalata nel modo giusto, un brano che sicuramente renderà parecchio nei vari live che la band sta affrontando in questi ultimi mesi. Un ottimo lavoro questo 'Protozoan in Love', ben arrangiato e registrato anche discretamente. Le uniche pecche sono da relegare alla sezione creatività che dovrebbe spingere la band a cercare una propria strada, da qui il futuro dei Country Corpses si potrebbe rivelare ancor più promettente. (Michele Montanari)

(Skatti Vorticosi Records - 2014)
Voto: 75

sabato 21 febbraio 2015

Diversion End - Building a Maze

#PER CHI AMA: Groove Metal, Scar Symmetry, Soilwork
Come più volte ho scritto, è un vero peccato che alcuni album passino inosservati alla massa semplicemente perchè non c'è un'adeguata promozione sui giornali o in giro per il web. Credo che ormai dovremo farci il callo e andare in cerca, surfando in internet nei giusti canali, di titoli underground che un qualcosa di interessante da dire ce l'hanno pure. La mia corsia preferenziale è ovviamente bandcamp che oggi mi porta alla scoperta dei Diversion End, band finlandese dedita a sonorità moderne, grondanti di groove. E il terzetto formato da Simi, Liffe e Tupe si diverte sin dall'opening track con song che citano Soilwork, Scar Symmetry e Raunchy (tanto per fare qualche nome), calibrando poi la propria proposta con un limitato pizzico di originalità. Chiaro, nulla di mai sentito, ma comunque di sicuro interesse. La title track mostra la robustezza dei nostri in sede ritmica, ma anche il dualismo canoro growl/clean di Simi e l'utilizzo copioso ed esuberante di synth e tastiere che hanno modo di garantire suoni tanto piacevoli quanto ruffiani. E "As the Light Drowns Again" non può che esser da meno con le sue meravigliose linee melodiche, che non faranno certo gridare al miracolo, ma che comunque avranno modo di tenervi compagnia mentre percorrete con la vostra auto strade deserte, fischiettando la melodia accattivante dei Diversion End. "For My Shadows" è la terza traccia di questo mini EP, che si configura come la song più malinconica delle cinque contenute in 'Building a Maze'. Il che ci sta anche, per spezzare quel ritmo forse un po' troppo "happy" delle prime due tracce, dall'impatto easy listening. Non è infatti difficile ascoltare questo terzetto della prolifica scena di Oulu, che torna a spaccare con "Reverie", brano che offre il riffing preciso dei due axemen che va a plasmarmi benissimo con le percussioni chirurgiche di Tuomi in un sound ammiccante e piacione. La conclusiva "King of Illusions" chiude il dischetto, sciorinando un'ultima seducente ritmica cyber death. I Diversion End alla fine, pur rimanendo ancorati ad un genere che ha già detto molto, si lasciano comunque facilmente ascoltare. Per il futuro tuttavia, consiglierei una maggiore ricerca di originalità, diamine siete finlandesi e avete la genialità insita nel vostro DNA. Bravi ragazzi, ma ora serve un po' più di coraggio. (Francesco Scarci)

Love Club – Pearls Dissolve in Vinegar

#PER CHI AMA: Shoegaze, The Stooges, Rolling Stones
Quinto album per il sestetto di Philadelphia, capitanato da Mitch Esparza, dedito ad un rock piuttosto selvaggio, debitore tanto del r’n’r sporco e cattivo degli Stones di 'Exile on Main Street', quanto degli Stooges, ma anche pesantemente influenzato da una psichedelia meno rassicurante. Molto poco confortante è anche l’immagine di copertina, dove un’aquila dalla testa bianca, simbolo degli States, perde di colpo tutta la sua fierezza e maestosità, mostrandosi fragile e agonizzante. Che sia una non troppo velata critica alla grande nazione americana? Inserito il cd nel lettore, dopo un’intro strumentale, "New Phace" ci colpisce in piena faccia con il suo piglio stridente in stile Detroit anni '70. "Lonely Star" potrebbe essere il frutto di una jam sudata tra Stones e Iggy Pop, mentre "God Hates You" sarebbe un perfetto pop soul daclassifica, se non fosse suonato come non ci fosse un domani e cantato da uno sguaiatissimo ed efferato Esparza. Quale sorpresa quindi, riconoscere nella sua stessa voce nel pezzo successivo, "Need Somebody", ne piú ne meno che quella di Dylan, alle prese con una sgangherata ballad acustica. E se "Don’t Shoot me Down" spinge ancora forte sul pedale di un garage-punk ultra-saturo, è nella seconda parte del disco che i Love Club riservano le sorpese piú grosse e i colpi migliori, a partire dal raga psych-noise "Awaken Satan", 6 minuti di innodici gorghi chitarristici e voci zuccherose, come dei My Bloody Valentine piú grezzi. Non si fa in tempo a riprendersi dallo stordimento, che è la volta di "Murder by Contract pts. II & III", uno strumentale che parte dai set polverosi degli western dei Calexico e arriva, senza soluzione di continuità, all’Etiopia supersonica raccontata dai dischi degli Ex con Getatchew Mekuria, nella stessa estasi di chitarre e sax selvaggio. È ancora un sax basso e grasso a scandire il ritmo di "Blue Eyed Big Dicked Baby Faced Killer", rock blues sguaiato che potrebbe essere uscito dalle sessions di 'Funhouse'. Ancora psichedelia per la strumentale "The Mod Trade", con quelle accelerazioni chitarristiche vorticose che mettono il serio pericolo il nostro senso dell’equilibrio. Si finisce con la title track, altro apocrifo Dylaniano suonato, come sempre, non proprio in punta di fioretto. Davvero un bel lavoro, dal suono grezzo al punto giusto, che riserva sorprese inaspettate e tanta passione per un rock fieramente al di là delle etichette e al di fuori da ogni pretesa mainstream. Consigliatissimi. (Mauro Catena)

giovedì 19 febbraio 2015

L'Alba di Morrigan - The Essence Remains

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative, Katatonia, Novembre
Pelle d'oca, esaltazione e nodo alla gola. Quanti di noi possono dire di aver mai provato tali sensazioni ascoltando musica? Personalmente, durante i concerti più belli della mia vita, oppure ascoltando il nuovo album delle band che preferisco. Ma provarlo così, inaspettatamente, aumenta a dismisura l'esperienza sensoriale ed emozionale. Quando il lettore cd va a leggere le prime note di questo 'The Essence Remains' ti rendi conto che hai tra le mani qualcosa di speciale e allora ti lasci avvolgere dai quarantasette minuti che seguono, in caduta libera. La band nasce a Torino nel 2008 e dopo qualche cambio/assestamento di formazione, si consolida con gli attuali cinque membri che hanno dato vita al primo demo 'The Circle' nel 2009 e infine l'album in questione. Il sound si posizione tra post rock e alternative metal, ma quello che colpisce subito è la qualità della proposta, la minuziosa ricerca fatta per suonare ed incidere quelle precise sensazioni che la band regala dal vivo. Un mix tra Katatonia (hanno collaborato con il loro tastierista e questo spiega molte cose), gli ahimè scomparsi Novembre e gli Anathema. "Snowstorm" è una ballata lieve e leggera come fiocchi di neve che si appoggiano a terra senza fare rumore, tra arpeggi profondi di chitarra e il cantato che sussurra una ninna nanna che ci faccia dormire per sempre tra braccia calde. La ritmica non è scontatamene lenta, anzi, batteria e basso si intrecciano e si rincorrono sempre leggeri, ma decisi. In "Lilith" inizia a prendere forma la parte più aggressiva della band: il brano infatti è introdotto da un riff di chitarra, leggermente acido nel suono o comunque che ricorda le distorsioni di qualche anno fa. Il testo è in italiano e gli arrangiamenti sono sempre all'altezza, ben strutturati e che scorrono fluidi come l'acqua di un ruscello. Il riff iniziale ritorna e spezza brevemente la struttura di arpeggi e assoli, permettendo al brano di riprendere il suo mood iniziale. "24 Megatons" racchiude l'anima dei L'Alba di Morrigan fatta di dolcezza e decisione, una duplicità che convive perfettamente in un brano dove fraseggi puliti e cristallini aprono la via a riff potenti che sembrano ancora più decisi proprio perché vengono circondati da tutto in poco più di quattro minuti, ma sono sufficienti per apprezzarne ogni singolo cambio di direzione, come i passaggi math rock, dove la ritmica si protrae in una sequenza chirurgica e cadenzata. Solo alla fine ci si rende conto che è un brano strumentale, ma il lavoro fatto è talmente complesso e ricco di sfumature che sarebbe stato praticamente impossibile infilarci una linea vocale. Un ottimo lavoro questo 'The Essence Remains', peccato solo averlo recensito con qualche anno di ritardo. Personalmente avrei sperato in un suono più potente, ma si percepisce ogni singola vena di speranza ed emozione che solo una band matura e valida può condividere e trasmettere così bene. (Michele Montanari)

(My Kingdom Music - 2012)
Voto: 85

People are Mechanisms - VII

#PER CHI AMA: Doom/Rock Depressive
Quest'album è un viaggio in cui la meta passa in secondo piano. Armatevi di torce, bussole e fuoco. Vi serviranno quando vi troverete sperduti in quelle terre dimenticate dalla coscienza, abitate solo dai fantasmi della vostra anima. “Envy”, questo il brano d’esordio in cui la materialità della terra diviene avulsa allo spirito, in favore della risacca del vento. Turbina la musica, sprigionando abbracci immaginati, in cui il tepore è solo un’illusione. Mentre ascolto questa strumentalità, apparentemente asettica, sento che in essa vi è il potere di alienare freddo e solitudine. Questa essenza in musica, ha l’arroganza e la forza di smemorizzare il cuore, rendendolo un guerriero che vincerà, dopo aver pagato l’obolo del contrappasso. La velocità del nostro viaggio cambia con “Gluttony”. La batteria marcia incalzando gli spazi tiepidi che aveva scavato “Envy”, per poi mescolarsi a corde metalliche di chitarre sprezzanti, quanto definite in un evolvere metal che fa togliere cappello e vestiti, tanto è il calore che si solleva dalla carne in un ballo ipnotizzante descritto da quest’altra song strumentale. Se vi sono sembrata predata romanticamente dal dark, con “Lust”, stravolgerò le vostre percezioni. Vi invito a stringere tra i denti il vostro pensiero più ossessivo. Trattenetelo, perché nel mettere a volume questa traccia potrebbe confortarvi. Ci addentriamo con “Lust”, in verbalizzazioni squisitamente metalliche in cui si avvicendano ottoni violentati, bassi sguaiati, rimembranze sensualmente spinte in accordi graffiati. Un orgasmo sonoro dall’anima nera. Ben fatto. Straziante. Coinvolgente. Riprendetevi in fretta. Perché “Sloth” non vi lascia respirare. Bissiamo “Lust” in un tutt'uno di batteria, gesti secchi sulle corde di chitarre elettriche dallo stomaco ben carburato. Questi due brani sono appendice, l’uno dell’altro. Ora prendete le vostre torce, le vostre bussole ed i vostri fuochi. Spegnete. Buttate. Soffiate. Questa “Proud” ce la assaporiamo avvolti dal buio pesto che non filtra né speranza, né salvezza, né possibilità. Chiudiamo con un catenaccio ferroso la porta dell’anima. Lasciamo che “Proud” ci guidi nei sentieri bui delle paure. Lasciamo all'udito il beneficio del dubbio che questa band russa, possa farci non solo perdere, ma trovare. Lascio il passo al vostro riascolto. Consiglio agli astanti questo viaggio, ma lasciando a casa l’armatura. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 75

Red Hills - Pleasure of Destruction

#PER CHI AMA: Melo Death
Uscito nel 2014 per la label Total Metal Records, il CD di questi cinque ragazzi ucraini arriva tra le mie grinfie con grandi aspettative, in quanto il booklet e l'artwork davvero ben curati, indicano che probabilmente ci troviamo di fonte ad un bel disco, fatto secondo i sacri crismi. La formazione è composta da voce, due chitarre più basso e batteria, e inizia subito forte, martellando a più non posso su ritmi cari al death metal scandinavo più classico (ascoltando i Red Hills, si capisce quanta scuola hanno fatto gruppi come In Flames e co.), con una voce però che cerca di fare il verso al Chuck Schuldiner anni '90 (Control Denied compresi ovviamente). L'abbinamento all'inizio potrebbe spiazzare, ma poi piace, anche se non finisce di convincermi appieno. Doppia cassa onnipresente, ottimo il lavoro di chitarre, i Red Hills continuano la loro marcia lungo i 26 minuti del disco andando a ricalcare, il che si palesa dopo qualche ascolto, terreni già toccati dai Children of Bodom anni or sono. Ecco il punto cruciale di 'Pleasure of Destruction', la poca personalità. Formalmente il disco va oltre la sufficienza, grazie a suoni meritevoli, precisi e degni di un disco metal moderno; tuttavia, le canzoni sembrano davvero tutte uguali e anche dopo svariati ascolti, si fatica a riconoscerle. Tra le song emergenti, per la qualità dei refrains, vi cito la canzone in apertura, “Hard to Be a Good Man”, e la notevole “Nocturne”, mentre tracce come “Whispering in My Mind” e “Bullet in My Head” rimangono piuttosto anonime nell'economia del disco, risultando monotone e poco originali. Un punto a favore dei nostri va invece nella durata delle composizioni, che si attestano su una media di 3 minuti a canzone, rendendo l'ascolto agile e per niente noioso. Tirando le somme quindi, 'Pleasure of Destruction' è un disco piuttosto innocuo, che non aggiunge e non toglie nulla al panorama attuale del genere, barcamenandosi dignitosamente intorno alla sufficienza. Sul filo del rasoio i Red Hills strappano una sufficienza; neanche mezzo voto in più, sarebbe davvero troppo. (Claudio Catena)

(Total Metal Records - 2014)
Voto: 60

domenica 15 febbraio 2015

Plateau Sigma - The True Shape of Eskatos

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, primi Anathema
È abbastanza impegnativo l'ascolto di 'The True Shape of Eskatos', full length di debutto dei liguri Plateaus Sigma. Il disco, composto da sette tracce, scorre infatti lungo 68 minuti di musica tormentata, straziante, che già si presenta di per sé angosciante, grazie a una spettrale cover. Una lunga intro ci introduce al cuore del disco, "Satyriasis and the Autumn Ends", nove minuti di suoni tenebrosi venati da forti pulsioni funeral doom, enfatizzati dal profondissimo growl del duo formato da Manuel Vicari e Francesco Genduso, abili peraltro nel tessere affannose linee di chitarra che contribuiscono a caratterizzare il sound dei nostri ma soprattutto a rimarcare la plumbea matrice sonora dei Plateau Sigma, che in alcuni spunti ho trovato simile ad un certo sound di origine ellenica, che non riesco ancora a definire. Forse gli esordi degli On Thorns I Lay o forse altro, lo capirò strada facendo. Certo gli agganci ad altri memorabili dischi death doom del passato non mancano. I sofferenti 14 minuti di "Stalingrad" mi conducono ad esempio a 'Turn Loose the Swans' dei My Dying Bride, soprattutto a livello di clean vocals, l'accostamento a Aaron Stainthorpe in "Sear Me MCMXCIII", lo trovo piuttosto scontato. Non sto muovendo una critica nei confronti della band di Ventimiglia, anzi un plauso per provare a richiamare un vecchio classico che pare ormai scivolato nell'oblio. Belli i giri di chitarra che si muovono ansimanti in questa song, che nel suo incedere trova anche modo di assumere connotati più death metal oriented, cosi come fatto recentemente dai già citati MDB; altrettanto suggestivo il finale che invece richiama ancor più palesemente gli Anathema di 'Eternity'. "Ordinis Supernova Sex Horarum" è una lunga e inusuale traccia strumentale, che si muove tra un riffing tipicamente death e onirici frangenti atmosferici (dove fa capolino un etereo chorus), prima di regalarci un finale ancor più singolare, con tanto di assolo jazz affidato ad un incredibile sax, in una cornice musicale che non avrebbe certamente stonato nell'ultimo 'The Endless River' dei Pink Floyd. In "The River 1917" fa la sua comparsa un ospite alquanto inatteso: Efthimis Karadimas dei redivivi Nightfall, presta la sua voce in una song per lunghi tratti monolitica e sfiancante, fatto salvo quando a prendere il sopravvento sono le porzioni al limite dell'ambient, che sottolineano la maniacale cura negli arrangiamenti da parte del four-piece italico. Un'altra montagna da scalare è quella dei 13 minuti abbondanti di "Angst": la voce pulita del vocalist ne semplifica l'approccio e la sua vena stile 'Alternative 4' degli Anathema, me ne fa apprezzare enormemente il flusso sonico. Certo poi che la direzione marcatamente death che la traccia intraprende, mi fa un po' storcere il naso: non era forse meglio continuare a regalare suoni più intimisti e malinconici piuttosto che quel death doom che forse nell'est Europa sanno fare meglio? Questa la critica che muovo alla band nostrana. Le carte in regola per offrire musica indimenticabile ci sono, tuttavia spesso non vengono valorizzate o utilizzate nel modo migliore e i nostri scadono in suoni già ampiamente sentiti e alquanto banali. Meglio cavalcare un'onda bene (e io opterei per la rilettura in chiave Anathema/MDB più eterei) piuttosto che diverse e differenti nella sostanza, pregiudicandosi in questo modo una fetta di fan non troppo avvezzi a sonorità estreme. Grandissime potenzialità quelle dei Plateau Sigma ma non sfruttate al meglio. 'The True Shape of Eskatos' è un buon album che poteva diventare un top, se non si fosse caduti in errori legati ad una certa disomogeneità musicale che alla fine rischia di dividere i fan. Scegliete una direzione ragazzi e percorretela al meglio delle vostre possibilità. Comunque vada, sarà un successo. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 75

Forest Whispers - Magiczny Las

#PER CHI AMA: Black Metal, Burzum, Nokturnal Mortum
La scena metal polacca può vantare nomi del calibro di Behemoth, Vader, Hate, Lux Occulta e Devilish Impressions, tanto per citarne solo alcuni. Ora si arricchisce di una nuova entità, i Forest Whispers, one man band formatasi nel 2013, e fuori sul finire del 2014, con un debut album intitolato 'Magiczny Las'. La creatura di Hern suona un black old school, che andava di moda negli anni '90 e che, con una certa nostalgia, riporta in auge gloriosi temi pagani e il proprio omaggio alla natura. Niente di nuovo quindi, per un cd che ha da offrire otto tracce che possono trovare un qualche punto di contatto con i Nokturnal Mortum più seminali o i Burzum più spietati. Dopo la classica intro, ecco scatenarsi la ritmica tagliente di "Nieskończona Potęga", guidata da una melodia di fondo folk black e dalle harsh vocals del mastermind polacco. Il martellare nevrotico della prima traccia prosegue anche in "Godzina Dusz", song mid-tempo che gioca su accelerazioni black che strizzano l'occhiolino all'humppa finlandese, per trovare poi in frangenti acustici, un attimo di ristoro. Il sound è secco e il drumming molto spesso assai serrato. Ci pensano le aperture arpeggiate ("Ziemia Praojców") o i numerosi ed efficaci break acustici a smorzare la furia insita nel DNA del nostro druido polacco. La quinta traccia mi fa sobbalzare dalla sedia: si tratta infatti di una breve cover degli Ulver estratta da 'Kveldssanger', "Høyfjeldsbilde" per l'esattezza. Con la title track, il musicista polacco torna a pestare con le solite linee di chitarra acuminate, mentre "Król Przeznaczenia i śmierci" è un lungo brano assestato su tempi medi che richiama nuovamente i vecchi classici del panorama scandinavo, con i tipici riff reiterati all'infinito, sulla scia del modus operandi di Burzum. La song tuttavia ha un finale abbastanza atipico, in cui una chitarra spagnoleggiante gioca ad intrecciarsi con quella elettrica. A chiudere il disco ci pensano i synth dell'ambient "Wyzwolenie", che conferma l'amore del bravo Hern per sonorità da un po' finite nell'oblio. Discreto esordio per i Forest Whispers che, se sviluppato con maggiore personalità e minore furia sonora, potrà regalare interessanti sviluppi futuri. (Francesco Scarci)

(Taste of Winter Production - 2014)
Voto: 65

Reciprocal - New Order of the Ages

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Beyond Creation, Brain Drill, Decrepit Birth
One of the more politically charged Tech-Death outfits in the genre, these Hollywood bruisers offer up one of the more ferocious and complex assaults in recent years with their second release that only suffers from minute flaws. Ripping through a ravenous swarm of challenging and complexly-arranged riffs played at mind-boggling speeds with enough variance to make for another couple albums’ worth of material, the most imposing part of the band’s attack is most certainly the riff-work that comes flying fast and hard throughout here and becomes all the more imposing when meshed alongside the bass-lines and drum-work. Content to once again utilize the spindly noodling common in most recent Tech Death outfits, here it comes off as far more prominent in their attempts at utilizing deep, heavy chugging scattered along the rhythms so the more ravenous riffs get pushed to the forefront even more. Likewise, the blazing drumming and pounding fills manage to provide the necessary spark to the hard-hitting rhythms that make for such a loud, ferocious beast of a release here that does work well enough to hold off the albums’ lone aggravating flaw. While the notion to have a series of samples and speeches along the album, the fact is the ones here are just maddeningly overdone. Each and every single track here comes complete with at minimum an extra 90 seconds with the extra time devoted to extended speeches tacked on afterward, some of the longer ones here exceeding two minutes of time and really driving up the time here doing this one each and every track. In truth, this should be a 45-50 minute album rather than the 70 it actually comes out to be which gives you some kind of idea about the overlong duration of some of the excess spoken words featured here. Intro ‘New American Century’ sets things in motion quite well with blazing riffing, dizzying rhythms and absolutely blasting full-throttle drumming that displays a vast proficiency at utilizing those complex riffs within a dynamic and devastating framework to become one of the album highlights. ‘Esoteric Agenda’ isn’t quite as breakneck in terms of speed but certainly matches that in terms of pure unbridled rage and ferocity of attack with some of the best drumming found on the entire release, while ‘Profit Before Protocol’ also manages to get plenty of dynamic and furious breakdowns that recall an attack more in common with the recent Deathcore scene than the Technical Death featured elsewhere on here. ‘Guilty Until Proven Innocent’ continues more in league with the first track here with more of those ravenous tempos, dizzying changes and a relentless charge generated through complex riffs and challenging arrangements to make for another stand-out effort. ‘Illuminati’ is even more dynamic and vicious in regards to unloading it’s whirlwind of riffing, blasting drumming and chugging bass-lines into a thunderous, crushing effort that’s one of the albums’ best, much like the title track which best fuses each of the bands’ styles here with dazzling technical whirlwinds sweeping and bombing through the rhythms while being offset nicely by the deep, heavy chugging rhythms featured throughout. The overwrought ‘Saintan’ uses more spindly bass-weaving and slow, droning patterns amid drawn-out chugging that tends to drag out the pacing quite a bit for what is best skipped over in terms of how enjoyable the others are against this one. Thankfully, ‘Mystery, Babylon the Great, Mother of All Harlots and Abominations of the Earth’ gets things back on track with dynamic riffing, a thunderous drumming charge that allows for plenty of firepower alongside the dexterous rhythm changes to allow for a pretty enjoyable effort. ‘Tyrannicide’ offers one of their most deliriously enjoyable riffs swirling through a rather furious series of rhythm changes and rhythm shifts with the odd drum-machine blast furiously charging through the intense rhythms, producing one of their most dynamic entries as ‘Oblivion’ continues blasting through the tight, swirling riffs blazing with plenty of thunderous riffs, charging drumming and wholesale series of scorching riff-work augmented by the first real melodic interjections in the album which definitely proves the band has more in their arsenal than they let on which is quite pleasing overall. Lastly, the instrumental ‘RIP (Memento Mori)’ uses a light piano intro before kicing into high gear by running through a vast majority of the riffs and variations found elsewhere within this, effectively being a fine sampler of what to expect here but definitely ending this on a whimper without the original material. Still, beyond the incessant need for the sampler speeches here this would’ve really been something special. (Don Anelli)

(Self - 2013)
Score: 80