Interviews

sabato 21 febbraio 2015

Love Club – Pearls Dissolve in Vinegar

#PER CHI AMA: Shoegaze, The Stooges, Rolling Stones
Quinto album per il sestetto di Philadelphia, capitanato da Mitch Esparza, dedito ad un rock piuttosto selvaggio, debitore tanto del r’n’r sporco e cattivo degli Stones di 'Exile on Main Street', quanto degli Stooges, ma anche pesantemente influenzato da una psichedelia meno rassicurante. Molto poco confortante è anche l’immagine di copertina, dove un’aquila dalla testa bianca, simbolo degli States, perde di colpo tutta la sua fierezza e maestosità, mostrandosi fragile e agonizzante. Che sia una non troppo velata critica alla grande nazione americana? Inserito il cd nel lettore, dopo un’intro strumentale, "New Phace" ci colpisce in piena faccia con il suo piglio stridente in stile Detroit anni '70. "Lonely Star" potrebbe essere il frutto di una jam sudata tra Stones e Iggy Pop, mentre "God Hates You" sarebbe un perfetto pop soul daclassifica, se non fosse suonato come non ci fosse un domani e cantato da uno sguaiatissimo ed efferato Esparza. Quale sorpresa quindi, riconoscere nella sua stessa voce nel pezzo successivo, "Need Somebody", ne piú ne meno che quella di Dylan, alle prese con una sgangherata ballad acustica. E se "Don’t Shoot me Down" spinge ancora forte sul pedale di un garage-punk ultra-saturo, è nella seconda parte del disco che i Love Club riservano le sorpese piú grosse e i colpi migliori, a partire dal raga psych-noise "Awaken Satan", 6 minuti di innodici gorghi chitarristici e voci zuccherose, come dei My Bloody Valentine piú grezzi. Non si fa in tempo a riprendersi dallo stordimento, che è la volta di "Murder by Contract pts. II & III", uno strumentale che parte dai set polverosi degli western dei Calexico e arriva, senza soluzione di continuità, all’Etiopia supersonica raccontata dai dischi degli Ex con Getatchew Mekuria, nella stessa estasi di chitarre e sax selvaggio. È ancora un sax basso e grasso a scandire il ritmo di "Blue Eyed Big Dicked Baby Faced Killer", rock blues sguaiato che potrebbe essere uscito dalle sessions di 'Funhouse'. Ancora psichedelia per la strumentale "The Mod Trade", con quelle accelerazioni chitarristiche vorticose che mettono il serio pericolo il nostro senso dell’equilibrio. Si finisce con la title track, altro apocrifo Dylaniano suonato, come sempre, non proprio in punta di fioretto. Davvero un bel lavoro, dal suono grezzo al punto giusto, che riserva sorprese inaspettate e tanta passione per un rock fieramente al di là delle etichette e al di fuori da ogni pretesa mainstream. Consigliatissimi. (Mauro Catena)