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giovedì 3 settembre 2020

Novembre - Wish I Could Dream It Again...

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Black/Gothic
Ricordo ancora quando, dove e con chi comprai questo disco: era il 1994, ero a Padova in un mitico botteghino dell'epoca in compagnia del mio amico Orso. Che esordio col botto 'Wish I Could Dream It Again...', per quest’entusiasmante band romana, che nel giro di poco tempo diventerà una delle mie band preferite ma anche gruppo di riferimento nel panorama metal nazionale. Prodotti addirittura dal buon Dan Swano, i cinque giovani capitanati dai fratelli Orlando, ci deliziano con 13 perle di rara bellezza, che uniscono ad uno swedish death graffiante melodie, incursioni black e atmosfere goticheggianti inedite per quel periodo. È un susseguirsi di contrastanti suggestioni fin dal suo incipit, la malinconica “The Dream of the Old Boats”, a cui si accodano per comparabile bellezza, la struggente ma malvagia “Swim Seagull in the Sky” e la nostalgica “Behind my Window”; i continui richiami a Salvatore Quasimodo permettono poi un continuo flusso di emozioni, che ci conducono in un universo onirico a sé stante. “È come impazzire in un mare dorato...” (Francesco Scarci)

(Polyphemus Records - 1994)
Voto: 90

https://www.facebook.com/Novembre1941/

Submission - Failure to Perfection

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash
New sensations dalla Danimarca? No, direi di no visto che il quintetto di Esbjerg si è ormai sciolto nel 2010 ma al tempo di questo esordio nel 2006, la band scandinava si presentava al grande pubblico con aspettative molto alte, sebbene un genere troppo inflazionato, qual era e qual è ancora oggi il death/thrash, che qui parecchio s’ispirava a In Flames e ad altre entità scandinave. Voci growl e clean vocals si alternano infatti armoniosamente, galoppate death thrash si rincorrono e s’incrociano a brutali linee di chitarra e stop’n go alla Meshuggah. Per finire, ritmiche mozzafiato e chorus accattivanti, completano il quadro di questo 'Failure to Perfection', primo di due lavori per i nostri. Un album niente male, combustibile ideale per incendiare le nostre orecchie, che purtroppo ha ben poco da dire di originale. Ed è un vero peccato, perchè la band, sebbene la giovane età, non sarebbe stata malaccio, però non me la sento assolutamente di pompare un album dal mosh frenetico che potrebbe essere facilmente accostabile ad altri mille nomi della scena metal. Un minimo di originalità è pur sempre richiesto, altrimenti alla fine dell’anno mi ritrovo ad aver recensito centinaia di dischi tutti uguali. (Francesco Scarci)

(Listenable Records - 2006)
Voto: 64

https://www.metal-archives.com/bands/Submission/22390

lunedì 31 agosto 2020

Less Win - Given Light

#PER CHI AMA: Post Punk/No Wave
Se questo album fosse uscito nella prima metà degli anni ottanta, non mi sarei stupito di vederlo ai vertici delle classifiche di musica alternativa e potremmo anche immaginare i Less Win in tour con i maestri The Birthday Party, da cui il trio danese ha ereditato la dissacrante arte di rendere tutto della loro musica, estremamente nervoso e nevrotico, emotivamente estremo, un mal de vivre disturbante ed affascinante, al contempo spietato e tagliente. I suoni di 'Given Light' sono stupendi, rimandano la mente all'epoca d'oro del dark/gothic rock degli eighties ma al tempo stesso suonano freschi ed attuali. Il talento della band non si ferma al banale rifacimento dei clichè di genere, poiché, leggendo tra le righe di questi brani, s'intrecciano chitarre lisergiche e sbilenche di velvettiana memoria, richiami, soprattutto nell'uso dei fiati (vi è una lunga lista di musicisti ospiti in questo disco), alla no wave di derivazione jazz dei sottovalutati Laughing Clowns, e per finire un'urticante tensione continua che ricorda i lavori maledetti dei Grinderman. Ricordo anche che tra le fila dei Less Win milita il chitarrista Casper Morilla e quindi il rimando agli splendidi lavori degli Iceage è d'obbligo, anche se qui l'anima compositiva è molto più buia, meno inquietante ma molto più ostica ed oscura. Il ritornello di "Passion's Puppet" è brillantemente straziante, la musica lo esalta a dovere e con "Sure I've Been Convinced", che sembra un brano uscito da 'Porcupine' degli Echo and the Bunnymen suonato con una contorta vena alla Naked City, formano un binomio perfetto che con l'intro in stile "Heroes" di "Truths, Like Roses" completano un triangolo infernale dove si può tranquillamente perire musicalmente soddisfatti. Ascoltato tutto d'un fiato e ad alto volume il disco è decisamente sorprendente, per il tiro serrato delle ritmiche che ricordano i primi lavori dei the Wedding Present e la fantasia compositiva che mette in mostra una band in grado di far saltare sulla sedia l'ascoltatore ed allo stesso tempo, proiettarlo in un diluvio di emozioni contorte, avvolgendolo in un vortice di suoni vertiginosi e ossessivamente creativi (il parallelo con' Phantasmagoria' dei The Damned è quasi un obbligo, almeno per quanto concerne la sua attitudine gotica). Il nero è il colore di questi brani e devo ammettere che da tempo non sentivo un album accostabile al filone post punk così convincente. "Man of My Time" sembra un vecchio brano dei The New Christs suonato alla maniera dei giovani Pardans, che neanche farlo apposta sono compatrioti dei Less Win. A questo punto credo sia naturale chiedersi se, effettivamente, la Danimarca sia la nuova patria d'adozione del post punk, quello più originale e di qualità. Comunque la cosa certa è che non si vive di soli Idles, c'è dell'altro in giro, basta semplicemente guardarsi attorno. 'Given Light' è un lavoro imperdibile per gli amanti del post punk di ieri e di oggi. (Bob Stoner)

Bal-Sagoth - The Chthonic Chronicles

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Symph Black Metal
"Once upon a time..." Inizia così la sesta fatica targata Bal-Sagoth, act di cui seguo le gesta dal lontano 1994, quando i nostri muovevano i loro primi passi nel sotteraneo mondo di 'A Black Moon Broods Over Lemuria', solleticando notevolmente il mio interesse per quel loro nome epico e fantastico. Da allora acquistai tutti i lavori della compagine guidata da Lord Byron, anche se alcuni episodi mi lasciarono con l’amaro in bocca e con grossi dubbi sulla validità effettiva della loro proposta musicale. Dal precedente 'Atlantis Ascendant', l’offerta artistica della band non si è scostata poi di molto, proponendo quel tipico black metal sorretto dalle sempre barocche tastiere di Jonny Maudling. Dodici brani, per un totale di oltre un’ora di musica, in cui la formula della band inglese rimane costante ormai dagli esordi: trattasi infatti, di un black metal infarcito di elementi sinfonici ed epici, che portano l’ascoltatore in terre e tempi lontani fatti di battaglie fra prodi guerrieri, il fragore delle armi ed antichi miti. Atmosfere pagane, oscure litanie, maestose e strabordanti melodie, rendono l'album del quintetto britannico la colonna sonora ideale per film come “Braveheart” o “Il Signore degli Anelli”. Nonostante le pompose ma ottime orchestrazioni della band, in questo cd la band sembra voler fare il verso a se stessa e alla fine, il tutto risulta un po’ scontato e prevedibile. Tuttavia, la bravura e la coerenza di idee portata avanti da Byron e soci (nonché l’affetto che mi lega a loro), mi induce a premiarli con mezzo punto in più. Con 'The Chthonian Chronicles' si chiude, dopo 12 anni, l’epica esologia della band inglese e il destino stesso dei nostri che dopo qualche anno si sono sciolti, dando vita ai Kull che privati di Mr Byron alla voce, alla fine propongono fondamentalmente la stessa cosa. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2006)
Voto: 69

https://www.facebook.com/Official.Bal.Sagoth

domenica 30 agosto 2020

Almach - Battle of Tours

#PER CHI AMA: Epic Black/Dungeon Synth
Quando c'è da vagare con la fantasia sono sempre il primo a farlo e cosi quando ho scoperto questo gruppo afgano (o presunto tale, le fregature qui sono sempre dietro l'angolo), mi sono lanciano al suo ascolto ed abbandonato la mia mente ai suoni contenuti in questo epico 'Battle of Tours', che dovrebbe evocare la Battaglia di Poitiers tra gli arabi-berberi e i franchi di Carlo Magno. Gli Almach sembrerebbero originari di Kabul, ma non si sa nulla di questa compagine, complice una nazione chiusa ad ogni forma di arte per cosi dire pagana, come può essere la musica. E allora, il mio consiglio è quello di immergervi nelle sognanti atmosfere dell'opening track "Abdul Rahman Al Ghafiqi", un pezzo che combina un black strumentale con il dungeon synth. Potrebbe essere una sorta di intro ma la sua lunga durata mi ha fatto pensare ad un brano vero e proprio. Le cose si fanno ancor più interessanti nella successiva traccia, quella che dà il titolo al disco, dove accanto alle caratteristiche descritte in apertura, compaiono anche pesanti influenze arabeggianti (a dir poco spettacolari) e fa capolino in sottofondo uno screaming leggero. Ampio spazio qui viene lasciato alle parti atmosferiche quasi si trattasse di un campo di battaglia dove a fronteggiarsi ci sono due invincibili eserciti. La musica si configura come un epic symph metal dove la presenza black è limitata esclusivamente ai rari vocalizzi estremi. "Blood Brother" è un pezzo interamente affidato alle tastiere, quasi una malinconica colonna sonora di un film durante una scena d'addio tra la bella fanciulla e il suo prode guerriero. Con "Temple of Old Gods" si riprende la strada del black atmosferico, sulla scia di Bal Sagoth e Summoning, ma in questo caso, la song non mi ha impressionato come le precedenti. Fortunatamente con "Sons Of Umayya" torno a respirare l'atmosfera delle popolazioni berbere con una chitarra orientaleggiante e la presenza della voce di una gentil donzella. È proprio in questi momenti che apprezzo notevolmente la proposta degli Almach per la loro capacità di catapultarci in un'altra epoca, in un altro luogo, sfoderando semplicemente la seducente arma della tradizione musicale araba o lo splendido intermezzo atmosferico che ancora una volta sembrerebbe essere quello di una cinematografica soundtrack. In chiusura l'ultima gemma, "Yamrā", uno splendido esempio di fantasy ambient che riflette i valori di questo sorprendente 'Battle of Tours'. (Francesco Scarci)

Amiensus - Abreaction

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Gli Amiensus li conosciamo molto bene, avendoli peraltro da poco recensiti nello split album con gli Adora Vivos, ma quello era un apripista per questo nuovo lavoro, che sarà presto fuori per la Transcending Records. 'Abreaction' ci consegna una band in ottimo stato di forma, ma questo era già stato appurato nell'ultimo dischetto. La proposta del quintetto del Minnesota prosegue alla grande in quella sua ricercatezza musicale che ha reso grandi gli Agalloch ad esempio, ma credo che la band sia già un passo avanti rispetto all'ensemble originario dell'Oregon. Lo si capisce immediatamente da "Beneath the Waves", splendida traccia d'apertura che mostra le eccelse qualità dei nostri che si muovono a cavallo tra black, suoni atmosferici, blackgaze, dark e progressive con una disinvoltura da veri fuoriclasse. E in parallelo con quest'alternanza musicale, anche i vocalizzi di James Benson fanno altrettanto, tra growl e clean vocals. Splendido l'incipit corredato con tanto di archi, della seconda "Divinity", una song malinconica e coinvolgente nel suo tiepido avanzare che ben presto, nonostante la delicatezza delle vocals, ci sommergerà con una ritmica dirompente ed un placido finale nuovamente affidato al violoncello. Ma la compagine statunitense è davvero ispirata e il black compassato della terza "To the Edge of Life" ci offre uno spaccato differente, più aggressivo degli Amiensus, pur senza rinunciare a break atmosferici e ad un acustico finale. Ancora black mid-tempo con "A Convocation of Spirits" (tra l'altro riproposta in chiusura interamente acustica), una song sinistra permeata da una diabolica vena doomish, in grado comunque di palesare tutta la classe del combo soprattutto nell'ampio utilizzo degli archi e dalla presenza di un interessante dualismo vocale. Il disco è un susseguirsi di piccoli gioiellini che mostrano gli enormi passi in avanti compiuti da questo collettivo in pochissimi anni. Quindi se dovessi suggerire un altro paio di pezzi, direi senza dubbio "Cold Viscera", canzone devastante che forse si distacca dalle altre, complice un feeling che mi ha evocato qualcosa dei Dissection. Infine "All That is Unknown", scelta invece per la sua vena sinfonica che rappresenta un altro unicum di un album che si candida ad essere una delle sorprese di questo strano 2020. (Francesco Scarci)

(Transcending Records - 2020)
Voto: 82

https://amiensus.bandcamp.com/album/abreactio

Das Scheit - Superbitch

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Electro Gothic, Sundown
Esploriamo un po' tutti i generi e gli anni qui dal Pozzo dei Dannati e oggi ci andiamo a concentrare sul terzo lavoro dei tedeschi Das Scheit, quartetto votato ad un electro-gothic metal. Dopo quattro anni dal loro precedente '...And Ice is Forming”, ritornano sulle scene con un album che li avrebbe potuti proiettare nell’Olimpo delle migliori band di questo genere. Lo stile musicale proposto dai nostri in questo 'Superbitch' si evince già dalla mia introduzione, ma non vorrei risultare limitativo nelle mie considerazioni. Le influenze principali della band si rifanno certamente all’electro-gothic, ma poi spaziano, cogliendo qualcosa dall’industrial, da act quali Ramstein, ma anche da Marilyn Manson (soprattutto per quanto riguarda il look della band), ma anche dagli svedesi Sundown di Mathias Lodmalm, autori a fine anni ’90 di due ottimi album. I brani contenuti in 'Superbitch' sono quindi parecchio orecchiabili, emanano vibrazioni elettrizzanti, cercando di creare atmosfere oscure, sforzandosi poi di coniugare le contaminazioni elencate sopra, a qualche spunto interessante e vincente del Nu metal dei Korn o del gothic dei Paradise Lost. Ottimamente prodotti da Markus Teske (Vanden Plas), i Das Scheit ci offrono la loro visione di questo genere musicale: una solida base ritmica creata da chitarroni distorti e ritmi martellanti, sostenuta da un largo uso di campionamenti. Interessante è poi l’uso di molteplici varianti di voce e modi di cantare in alcuni brani. Le lead vocals ricordano non poco l’ex vocalist dei Cemetary, ma poi si alternano voci effettate, cantati rap, dark, crunchy e industrial. L’episodio migliore dell’album è a mio avviso “Earth Stand Still” dove un po’ tutte le caratteristiche della band si fondono nel corso dei suoi quattro minuti, risultando assai ruffiana ma vincente. Nonostante lo scetticismo iniziale, devo ammettere che i Das Scheit siano riusciti nell’intento di conquistarmi, quindi magari potreste dargli una chance anche voi e andarveli a ripescare. (Francesco Scarci)

(Black Lotus - 2005)
Voto: 69

https://www.facebook.com/dasscheit

Orfvs - Ceremony of Darkness

#PER CHI AMA: Symph Black, Gehenna
Formatisi in quel di Jyväskylä nel 2010, gli Orfvs giungono al debut nell'anno seguente con il 7" 'The Greatest Sacrifice', contenente però due soli brani. Poi solo silenzio fino a quest'anno quando i nostri sono riapparsi con il rilascio di un secondo lavoro, 'Ceremony of Darkness'. Quello di oggi è un 4-track che tuttavia ci dà modo di valutare la proposta del duo finlandese più approfonditamente. "Son of Morning Sky", l'opening track, ci catapulta immediatamente indietro nel tempo di oltre 25 anni quando in Scandinavia spuntavano come funghi le prime realtà dedite ad un black sinfonico. Penso agli anni dei primissimi Dimmu Borgir, ai Gehenna di 'First Spell' o agli Emperor degli esordi. Quello degli Orfvs è di fatto un sound che chiama in causa quei nomi con un black mid-tempo guidato dalle spettrali tastiere di Profundiis, responsabile anche dell'urticante voce di questo dischetto. "Cruor MCMXCVIII" ha un inizio ben più irruento ma poi assesta il proprio flusso sonoro su di una proposta decisamente ritmata sebbene le sfuriate non manchino anche lungo i suoi sei minuti che ancora una volta evocano fantasmi norvegesi (Emperor docet) che pensavo ormai scomparsi. Con "The Void Around Anima Mundi" si ritorna a velocità moderate, in cui lo screaming del vocalist poggia su una ritmica scarna ma sempre arricchita da una interessante componente atmosferica. Niente per cui gridare al miracolo, ma comunque qualcosa che si può tranquillamente ascoltare. In chiusura per i neri cultori del black, arriva "My Heart of Perdition" e il suo sound gelido pur sempre melodico, grazie alle tetre atmosfere costruite dai synth e ad un tremolo picking conclusivo che regala attimi di puro godimento e che rivaluta la performance di un disco che brilla davvero poco di luce propria. Meglio togliersi un po' di ruggine per arrivare in forma all'atteso full length. (Francesco Scarci)

(Spread Evil Productions - 2020)
Voto: 64

https://spreadevil.bandcamp.com/album/ceremony-of-darkness