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martedì 4 febbraio 2020

Clouds - Durere

#FOR FANS OF: Death Doom
Clouds shouldn’t need any introduction, as they’ve been one of the more productive Doom Metal bands, regularly unleashing albums every two years ever since their founding in 2013. I was thrilled to hear about their work on new material, and it has been a great ride to partake on.

A strumming guitar melody greets me in a folk like way. A fragile voice speaks of not being able to guide you, leaving you lost in the darkness. As the vocals kick in, it’s in a raw fashion. I almost feel like Daniel is standing right before me. This track is a perfect opening example for how great the diversity of this album is. A violin plays a slow, lamenting melody over the growly speech. There’s even a section of heavy guitar, which in a strange way doesn’t seem out of place at all

Following the same recipe, “Empty Hearts” starts out as a folk melody with only guitar and voice. The vocals seem fragile, sinister and naked. After a few minutes though, it takes a turn for a doomy side. the viollin takes more room, and we are once again drenched in the pitch black void that is... The heavy guitar drapes the piece in a melancholic veil, without sacrificing any of the brutality of the vocals.

A piano is starting off “Images And Memories”, slowly dragging its notes in a spray of misty echoes. The soft vocals whisper over a soft synth sound, along with a violin weeping. The vibrato in (vocalists) voice makes the song gain another level of emotions. A punching guitar riff is introduced after a few minutes, and the vocals are replaced by a brutal series of low pitched growls. It’s amazing how well the song progresses so harmonically, it’s almost like a living organism just breathing freely. Once again a short guitar solo finds its place, without ever seeming out of style.

“Above The Sea” has another piano intro. This one is a bit more uplifting than the other one. Slow paced, it consists of a voice, subtle piano notes and that violin. As the riffs start, the screams return in force. Vast, dragged out howls accompanies the lenthy guitar notes. There’s room for a short intermezzo here, serving as a gentle resting spot about half way through the album. The rest is filled with a barrage of distorted guitar, menacing growls, and that haunting piano melody to remind you of where you are: In the domain of Clouds.

A gentle guitar strums”A Sailor Waves Goodbye” into life. (Vocalists) soothing and calm voice tells a tale of suffering and pain. As the song progresses, a Death Metal like riff is giving it more energy, and really makes it stand out from the rest. After that, it becomes something more. A saturated mix of violin, brutal growls and prolonged riffs.

After an ominious and brief guitar intro, a fog horn like violin is playing. “A Fathers Death” lays, in a similar fashion as the previous track, subtle vocals over a piano backdrop. The quick fadeout of distorted guitar and violin surprises me, and leave me in awe as the mood is altered to represent a brittle and fragile aspect of this band. A true master in diversity. The heavier side of this track doesn’t hold anything back either. (Vocalist) drags his growls out to drape the slow riffs in another layer of depressive mood. there’s another section of spoken word accompaniedf by a piano, and all these little instances lets the listener breathe for a few moments during the span of the album. I welcome these small moments of calm before the storms, and feel they communicate another layer of emotions through the music.

“The End of Hope” starts out a bit brighter than the others, but at a bit slower pace. The clean singing is emotive, sincere and well mixed with the guitar and drums. As the growly vocals begins, a flute plays in the background, a welcome change of perspective. An electric guitar solo also finds its place, but somehow they manage to weave it in without compromising the nature of this album; a true and honest tribute to feelings of despair and loneliness.

There’s a lot of genial moments in the album. I was surprised about the mix of heavy guitar, growls and violin at first, but then I came to remember how great this rare occurrence has worked in the past. The clean parts are equally great in the way they let me get close and personal with a person who can utter such brutal and blood curdling screams of agony. The overall result of 'Durere' seems well thought out, diverse, polished and epic. Epic in the way an unusual element like heavy guitar works with this genre of music, epic in the sorrow envisioned in the lyrics. I’ve always enjoyed the few acts of doom metal which incorporates violin into their soundscape, and now I’ve found another album to thoroughly enjoy over the years. Thank you, Clouds. (Ole Grung)

Lauxnos - Crushed By Waves

#PER CHI AMA: Post Black/Dark
Russia, terra di lande desolate, crocevia di popoli provenienti da oriente e da occidente. Syktyvkar, città d'origine della compagine di quest'oggi, sembra collocarsi in mezzo, ai piedi degli Urali, dà i natali a questi Lauxnos, quartetto formatosi nel 2013 con all'attivo quattro EP, un live e tre album, di cui l'ultimo nato è questo 'Crushed By Waves', uscito lo scorso giugno per l'onnipresente Symbol of Domination Productions. Chi si aspettava una release all'insegna del funeral doom dovrà però ricredersi poichè quanto proposto dai nostri è un sound che, lungo le sue nove tracce, combina estremismi post-black con sonorità darkeggianti pregne di una discreta dose di malinconia. Tutto è immediatamente e maledettamente chiaro sin dai primi pezzi: "The Voice of Dead Ocean" è un buon esempio della proposta dei quattro musicisti russi che si muovono su ritmiche che fondono appunto sonorità estreme con altre più oscure, senza tralasciare ovviamente una bella porzione di melodia. La title track, collocata in seconda posizione, è già più caotica e meno apprezzabile, in quanto la linea ritmica sembra sia un po' abbandonata alla sua stessa forma di anarchia sonora. In questo impasto sonico si colloca poi il growling aspro del frontman Katharos, un nome un programma mi verrebbe da dire. Con la terza "In Total Darkness", aperta peraltro da un'abusata parte arpeggiata, la velocità sembra diminuire in bpm a favore di una cadenza ritmica più pronunciata e ad un maggiore utilizzo di cambi dei tempo. Certo le sfuriate black non mancano neppure qui ed è in questi frangenti che la band sembra perdere il controllo dei propri strumenti. Molto meglio invece nelle partiture ove le parti malinconiche vengono fuori con più decisione, tipo nella parte iniziale di "Whose Dream You Don't Dare Disturb", schiacciata poi da una centrifugazione di chitarre che ne inasprisce l'esito finale. Un peccato perchè mi sembra che i nostri rendano maggiormente nei mid-tempo o comunque nelle parti più atmosferiche o acustiche, anche se devo ammettere che queste ultime sono fin troppo abusate in questo cd. C'è allora da lavorare duramente nella costruzione di un sound più definito e curato nei dettagli per poter ambire ad uscire dalla massa. Non basta infatti eseguire il compitino per raggiungere la sufficienza quando le potenzialità sono ben maggiori. E lo si evince da "Bordering the Dawn", in cui la band prova ad utilizzare un cantato differente, quasi cibernetico, e si lascia poi andare in una più raffinata ricerca sonora, che vede srotolare splendide linee solistiche nella sua seconda parte, con un tremolo picking da brividi. In questo apprezzo maggiormente i quattro russi, quando vanno alla ricerca di trovate decisamente più ricercate (date un ascolto alla liturgica "Through the Gates" per intenderci o in quello che reputo il miglior brano del disco, "Lord of the Wild Waters"), molto meno invece quando i Lauxnos cercano di fare i duri del villaggio sciorinando una serie di killer riff che non portano a quagliare nulla di interessante. Insomma per concludere, 'Crushed By Waves' è un lavoro che mostra pro e contro (piuttosto grossolani) di una band che sta cercando di forgiare al meglio il proprio sound. Lasciamoli lavorare, diamogli credito e vediamo che salterà fuori in futuro. (Francesco Scarci)

lunedì 3 febbraio 2020

Deemtee - Flawed Synchronization with Reality

#PER CHI AMA: Experimental Black, Deathspell Omega, Ved Buens Ende
Stravagante proposta quella della one-man-band madrilena dei Deemtee. Capitanata dall'enigmatico NHT, membro tra gli altri di Alien Syndrome 777, As Light Dies, Autumnal e Garth Arum, tutte band caratterizzate comunque da una certa personalità, questa prima release intitolata 'Flawed Synchronization with Reality' presta il fianco ad una psicotica rivisitazione di un black contaminato, sperimentale e spesso fuori dagli schemi. E non poteva esserci complimento migliore per i Deemtee almeno da parte del sottoscritto da sempre alla ricerca di sonorità originali. E il buon NHT, rischiando il più pericoloso deragliamento, mi sa ipnotizzare con un sound davvero particolare. Parlandoci in tutta franchezza, ci sono delle cose che non ho amato particolarmente di questo cd, tipo quando il factotum percorre strade un po' grezze o piattine, di contro ci sono momenti di folgorante genialità. Penso alla prima delirante "Birds" che sfoggia una lunga parte centrale tra atmosfere da incubo, spoken words ed una ritmica in stile meshugghiano dotata poi di un'evoluzione sonora che finisce per abbracciare anche un che della stravaganza di Devin Townsend. Rimango già conquistato dai primi dieci minuti di questa release che in un qualche modo riesce a contaminare la propria proposta anche di quello scorbutico sound della scena transalpina. L'influenza dei Deathspell Omega diviene ancor più forte nella seconda "Badtrip Culmination", una song dalle ritmiche sghembe e malate, che chiama in causa anche gli Aevangelist ed una band in cui il nostro polistrumentista presta i suoi servigi, ossia gli Aversio Humanitatis. È un assalto all'arma bianca quello che ci investe nelle note persuasive e insane della seconda traccia che esalta le potenzialità di questo alterato ensemble ispanico che chiude con quello che parrebbe il verso ammaliatrice delle sirene. Siamo invece in territori più death oriented con "Glowing Serpents Everywhere", anche se a livello ritmico percepisco un che degli australiani Alchemist che erano finiti nel dimenticatoio ma che riemergono nelle note di questa song che si muove anche in territori più criptici, tipici del doom e che addirittura sfoggia un cantato pulito. È comunque una costante ricerca della soluzione ad effetto a caratterizzare il disco che per intenderci palesa ancora qualche spigolo da smussare. Le idee sono buone, in taluni casi ottime, ma poi emerge qualcosina che come dicevo non mi entusiasma poi troppo. Nella terza canzone emergono le influenze degli Alien Syndrome 777 e mi sta bene, non mi esaltano invece troppo le ritmiche, che suonano troppo obsolete, cosi come quei riffoni in testata a "Multiverse Recoil", cosi influenzati dal sound americano, non mi eccitano poi tanto. Il pezzo è un chiaro esempio di come si possa coniugare il techno death statunitense con il prog, esperimento a tratti riuscito, in altri momenti veramente complicato da digerire. Da apprezzare però enormemente il tentativo di sperimentazione da parte di NHT, che prosegue nell'ambient sci-fi con "Mirror of Confusion" (con tanto di spoken words in lingua madre) e nelle titubanze in chiaroscuro di "Tunnel of Melting Black Stars", un'altra chiara dimostrazione di ricerca di originalità da parte del musicista spagnolo con un pezzo di marca Ved Buens Ende, in grado di accompagnarci con le sue svergole asperità fino alla conclusiva " Nobody Out There", gli ultimi tre minuti di chitarra acustica e voci pulite che chiudono in modo totalmente inaspettato un disco dai molteplici risvolti, sorretto da idee grandiose che mostrano quanto ci sia ancora spazio per deviare completamente dai binari dell'ovvietà e dell'ordinarietà. (Francesco Scarci)

(GrimmDistribution - 2019)
Voto: 77

https://deemtee.bandcamp.com/releases

domenica 2 febbraio 2020

Yatra – Behind The Great Disguise

#PER CHI AMA: Prog/Alternative Rock/Grunge
Viaggiare, esplorare, affrontare l’ignoto: una delle più antiche pulsioni dell’uomo, che ne ha plasmato l’evoluzione e che lo ha spinto a cercare costantemente nuovi traguardi. Ci troviamo però in un’epoca dove anche questa esperienza può essere comodamente soddisfatta con pochi clic del nostro, semplici gesti che bastano ad aprirci le porte delle destinazioni più esotiche, al punto che una foto scattata a Singapore o a Vancouver potrebbe non suscitare più entusiasmo di una vecchia cartolina da Alassio o Milano Marittima.

La nostra società sempre più dedita all’edonismo si è appropriata anche di questa esperienza, trasformandola da occasione di crescita interiore (tramite il superamento di difficoltà e il confronto con ciò che è estraneo) a mera occasione per collezionare souvenir e selfie, e forse è stata proprio questa riflessione ad aver ispirato il nome degli Yatra, parola sanscrita che indica il viaggio nella sua accezione più spirituale, vale a dire di “pellegrinaggio”. È infatti un percorso mutevole e impegnativo quello intrapreso dalla band emiliana, attiva solamente dal 2017 ma in grado di ritagliarsi in poco tempo una buona visibilità, un cammino che li vede esplorare territori musicali variegati e al tempo stesso maturare giudizi critici sul materialismo che domina le nostre vite, aspetti che contraddistinguono il loro primo full-length 'Behind the Great Disguise'.

Si tratta di un album squisitamente rock, definizione che potrebbe risultare ambigua considerato l’universo che si cela dietro questa etichetta, ma che ben riassume il contenuto di questi otto pezzi, nei quali il quintetto saggia le diverse inclinazioni del genere: la durezza del grunge e la raffinatezza del progressive-rock, suggestioni shoegaze alternate a poderose deflagrazioni metal-oriented.

L’opera è caratterizzata dalla continua alternanza di brani ad alto dosaggio di gain come “Unworthy” e “Awakening”, dominate dai riff distorti delle chitarre e da percussioni martellanti, e i momenti più intimi riscontrabili in “Ego Illusion” e “Struggle”, dove prevalgono cascate di arpeggi e ritmiche più ragionate, quasi a voler rappresentare con questo roller coaster di intensità un cammino aspro, pieno di ostacoli e momenti di riflessione sul mondo che ci circonda (come nella title-track, in cui viene stigmatizzata l’importanza dell’apparenza nella nostra società). Filo di Arianna che ci guida attraverso questa giungla sonora è senza dubbio la voce di Denise Pellacani, la cui carismatica prova al microfono è da lodare per la capacità di esprimersi al massimo nei contesti più disparati.

La formula proposta dagli Yatra, bisogna ammetterlo, non è particolarmente innovativa, così come la varietà di soluzioni sviscerata nei poco meno di quaranta minuti di 'Behind the Great Disguise' può rappresentare sia un elemento di forza che di debolezza: se da un lato strizza l’occhio ad una platea più ampia (obiettivo che, in questi tempi di magra per i musicisti underground, non è criticabile), dall’altro dà l’impressione che la band per il momento sia più focalizzata sul “viaggio” che sulla destinazione, ossia un equilibrio tra le varie spinte stilistiche (che per altro fa capolino in “Reborn, Rebuilt”, non a caso il pezzo più convincente del disco) su cui sviluppare un sound più personale.

L’esordio ad ogni modo è positivo e mette in mostra tutte le doti del gruppo: gli Yatra hanno tecnica, grinta e soprattutto un cammino ancora lungo di fronte a loro, pertanto vedremo in futuro quali strade decideranno di intraprendere. (Shadowsofthesun)

((R)esisto Distribuzione - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/yatradoom/

martedì 28 gennaio 2020

We Hunt Buffalo - Living Ghosts

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Stoner Rock
Scompare, o quasi-scompare la linea drone-fuzz di basso così prominente nell'esordio omonimo, ma i riff dei We Hunt Buffalo in questo 'Living Ghosts' diventano più granitici tipo nella blandamente (black)sabbath/iana e scarsamente ispirata "Back to the River', la ancor più scarsamente ispirata "Prairie Oyster", con un catarroso growl da metallaro asmatico inseguito da una mandria di bufali, e qui decisamente fuori contesto. Se da un lato la band appare intenzionata a rilanciare certe beneamate istanze stoner, divampate e subito accantonate nell'album d'esordio e poi rilanciate nell'EP successivo 'Blood From a Stone' (ma che titolo del CXX, nevvero?), dall'altro lato gli orizzonti paiono ampliarsi e gli skyline a farsi, paradossalmente, più cittadini. È il caso di "Hold On", vagamente collocabile tra le brughiere sonore dei primi U2, oppure di "Ragnarok", la strumentale in apertura, il cui cipiglio epico e subliminalmente morriconiano tende una corda sottile tra le due opposte escrescenze stoner di questa monument (sonic) valley: "Walk Again" e la summenzionata "Prairie Oyster". Percorrendo la quale si ammira un panorama temporale di quelli da mozzare il fiato. Sarà interessante verificare sul campo. (Alberto Calorosi)

(Dine Alone Records - 2015)
Voto: 69

https://wehuntbuffalo.bandcamp.com/album/living-ghosts

lunedì 27 gennaio 2020

Ornamentos del Miedo - Este No Es Tu Hogar

#PER CHI AMA: Funeral Doom, My Dying Bride
Sinergia sempre più serrata quella tra l'armena Funere e la russa Solitude Productions che vanno a pescare la new sensation funeral doom questa volta in Spagna. Ornamentos del Miedo è infatti una one-man-band originaria di Burgos, dove evidentemente, sospesa tra le montagne, non deve arrivare sufficiente sole per aver generato nel suo frontman, Angel Chicote, gli incubi inclusi in questo 'Este No Es Tu Hogar', album di debutto del musicista castigliano. Il disco contiene sei funeree song che coprono oltre un'ora di musica. Si inizia con l'angosciante incedere della title track, una song che non ci fa proprio sprofondare nel più tipico clima funeral, data una certa ariosità (e vi prego di passarmi il termine) delle chitarre che costruiscono melodie sicuramente plumbee e sofferenti ma non cosi catacombali da creare il classico nodo asfissiante alla gola. E per questo, la proposta del buon Angel, peraltro membro di una miriade di band coinvolte in un po' tutti i generi estremi, risulta veramente gradevole da digerire ma soprattutto da ascoltare. Pur le song durando tra gli otto e i dodici minuti, risultano dinamiche (e passatemi vi prego anche quest'altro termine) dato il lavoro eccelso del factotum nel costruire eteree atmosfere che potrebbero per certi versi richiamare i Saturnus o il mood nostalgico dei Paradise Lost di 'Shades of God'. Tale sensazione l'avverto anche nella seconda traccia, "Ornamentos del Miedo", in cui è forse una vena più orientata ai My Dying Bride ad avere la meglio, sebbene quella chitarra ritmica mi ricordi non poco la band di Nick Holmes e soci. Grande spazio è lasciato alla musicalità malinconica del mastermind spagnolo che qua e là ci piazza il suo vociare tormentato. Si continua con "Carne" e qui il riffing sembra apparentemente più ossessivo con la voce di Angel tendente allo screaming, ma il lavoro delle keys rende ancora una volta tutto più abbordabile. E questo è proprio il plus di questo disco che pur muovendosi in territori non proprio pianeggianti, riesce comunque nell'intento di far passare un genere cosi poco affabile come il funeral doom, in una simpatica passeggiata domenicale. Ci pensano infatti "Caminos Perdidos" e "Raíces Podridas" a rallegrarci con le loro autunnali melodie, cosi come pure la conclusiva "Frágil". Quello che penalizza in un certo qual modo il disco è forse un'eccessiva coerenza musicale che da un lato è apprezzabile, dall'altro rende un po' troppo monolitico un lavoro. Certo, quando si parla di funeral doom, la monoliticità dovrebbe essere la caratteristica primaria delle band, ma più volte ho sentito band in questo ambito variare dal funeral al death e viceversa; gli Ornamentos del Miedo invece dall'inizio alla fine propongono un sound piacevolissimo ma senza picchi e senza valli, ma questa rimane la mia opinione e il mio gusto personale. Comunque per essere un debut album, di un artista comunque assai scafato, il voto non può che essere super positivo. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Funere - 2019)
Voto: 74

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/este-no-es-tu-hogar

Intervista con A New Tomorrow

Segui il link per sapere molto di più sulla band italo-inglese A New Tomorrow:

 

Trail of Tears - Free Fall Into Fear

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Symph Black, Dimmu Borgir, Tristania
"Che fine ha fatto Catherine Paulsen, ma soprattutto che ci fa Kjetil Nordhus, cantante dei Green Carnation, nei Trail of Tears", questo è ciò che pensai al tempo dell'uscita di questo 'Free Fall Into Fear', quarto album per i norvegesi. Queste anche le novità sostanziali della band che, scaricata la bella e brava cantante per le solite divergenze stilistiche, pensò bene di assoldare, per le clean vocals, il vocalist della band di Tchort e soci. La musica dei nostri ha quindi subito una notevole sterzata stilistica, prendendo le distanze da quel filone death/gothic che vedeva in Tristania e Within Temptation i maggiori esecutori, e proiettando i nsotri verso lidi leggermente più black metal. Rispetto al precedente e ottimo 'A New Dimension of Might' si può infatti notare una leggera diminuzione della melodia, causata anche dall’assenza della bellissima voce di Catherine, e un incremento della cattiveria, sorretta da un feeling maligno spesso presente ma ben bilanciato da break tastieristici ed inserti melodici. Da sempre sono un fan della band, li ho seguiti dai tempi del primo 'Disclosure in Red', quindi devo essere sincero su una cosa: al primo ascolto di questo lavoro sono rimasto spiazzato e un po’ deluso. Tuttavia ai successivi passaggi, ho potuto apprezzare il nuovo taglio dei sette norvegesi, coadiuvati peraltro dalle ottime vocals di Kjetil che entrò in pianta stabile nelle file della band. 'Free Fall Into Fear' alla fine è un album che si avvicina, se mi passate il paragone, al tanto contestato 'Spiritual Black Dimension' dei Dimmu Borgir, anche se qui la voce di Ronny Thorsen è più gutturale rispetto a quella del suo collega Shagrath, la base ritmica è potente, veloce e melodica. Ascoltandolo e riascoltandolo mi è venuto in mente anche il bellissimo e sottovalutato 'The Shepherd and the Hounds of Hell' degli ottimi Obtained Enslavement, e anche qualcosina degli Arcturus. Sì insomma, a me quest’album è piaciuto perché riesce a coniugare violenza sonora e melodia. Il voto non è più alto solo per un paio di pezzi non all’altezza. (Francesco Scarci)

(Napalm Records - 2005)
Voto: 74

https://www.facebook.com/trailoftearsofficial/

domenica 26 gennaio 2020

Omnianthropy - Therion

#PER CHI AMA: Symph Death, Fleshgod Apocalypse
Una manciata di minuti a disposizione dei messicani Omnianthropy per farsi conoscere oltre i confini nazionali. 'Therion' è infatti un EP di tre pezzi che a distanza di un anno dal loro debut su lunga distanza, fa approdare nuovamente il trio della capitale sui virtuali scaffali del web. Non conoscevo assolutamente la band prima di oggi, però questo lavoro ha captato in un qualche modo la mia attenzione col suo potente death sinfonico. La title track esplode alla grande nel mio stereo con i suoi ritmi tirati, ma anche con le sue orchestrazioni bombastiche che per un attimo mi riportano al death sinfonico della band di cui oggi l'EP ha preso il titolo, ossia i Therion di Christofer Johnsson. Pomposi, melodici, orchestrali e cattivi al punto giusto, la proposta degli Omnianthropy potrebbe essere un mix tra 'Lepaca Kliffoth' e 'Theli' dei gods svedesi, miscelato con le ultime cose dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Lo testimonia anche la seconda galoppata, "Claroscuro", tra ritmiche tese, growling vocals, montagne di tastiere, sublimi orchestrazioni, ma anche clean vocals evocative che mi convincono abbondantemente della bontà della proposta dei nostri. L'ultima traccia, "Designis", conferma le qualità dei nostri, in una traccia ancora più nevrotica, in cui sono le keys ad avere il ruolo da leone e in cui sottolinerei uno spettacolare assolo conclusivo nella migliore tradizione heavy classico. Bella scoperta questa, spero ora di ascoltare un Lp più lungo e strutturato. (Francesco Scarci)