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sabato 2 novembre 2019

Evalir - The Awakening

#PER CHI AMA: Instrumental Epic Black, Summoning
È la prima volta che mi trovo a recensire una band proveniente dalla Repubblica Dominicana. Oltre a farmi specie l'origine esotica di questa solo project guidato da Enrique Ortiz, trovo ancor più peculiare la proposta musicale del nostro eroe di quest'oggi che in 'The Awakening' esprime tutto il proprio amore per il black metal epico. Dopo una lunga intro, "The Awakening I - Cold", all'insegna di un dungeon sound, il mastermind di Santo Domingo si lancia alla conquista del mondo col black ispirato di "The Awakening II - Aborning", una traccia che pesca a piene mani dalla tradizione fantasy di J.R.R Tolkien e la unisce sapientemente al proprio amore per le epiche avventure di Dungeons and Dragons. Tutto questo si traduce nel sound strumentale di "The Awakening II - Aborning" e della successiva "The Awakening III - Journey", due pezzi che offrono senza ombra di dubbio ottime melodie ma che al contempo palesano anche le debolezze legate alla forma embrionale di questo progetto. Questa musica non può essere lasciata infatti senza un cantato, le gesta epiche vanno narrate e non abbandonate alla, per quanto brillante possa essere, pura forma strumentale. Ottimo strumentista, Enrique mette in mostra già una certa maturità a livello compositivo, ora manca la stesura delle liriche, provando a divenire anche il menestrello di se stesso alla voce. Forza e coraggio Enrique, siamo con te. (Francesco Scarci)

venerdì 1 novembre 2019

Anifernyen - Augur

#PER CHI AMA: Death/Black, Dæmonarch
In Portogallo c'è ancora chi prova a percorrere i passi dei primissimi Moonspell, ahimè non con gli stessi eccellenti risultati. È il caso degli Anifernyen (il cui significato starebbe per "un freddo inferno"), band formatasi nel 2003, che dopo aver rilasciato un EP nel 2008, si è presa una lunga pausa, prima di uscire con il debut sulla lunga distanza. A dare fiducia al quintetto di Porto, che in formazione vede anche membri dei Buried Alive, Painted Black e Antivoid, è la Ethereal Sound Works che, un po' come i colleghi francesi de la Les Acteurs de l'Ombre Productions, tende a dare maggior spazio alle band della propria nazione. E allora bando alle ciance e via all'ascolto di questo 'Augur', un disco di undici tracce di oscuro black metal che dopo la classica intro strumentale si apre con "Tyrant", un pezzo che per certi versi mi ha evocato il progetto Dæmonarch del buon Fernando Ribeiro, leader appunto dei Moonspell. Black/death quindi per i nostri che con questa song offrono poco o nulla di fuori dal comune, a parte l'usurato utilizzo di chitarre taglienti e un duplice uso (growl/scream) della voce. “Eldritch Moon” parte più convinta, pulita e lineare nel suo comparto melodico ma ancora avulsa da una ricerca di originalità che possa elevare il lavoro degli Anifernyen: non posso negare che l'abbinamento violenza e melodia non passino inosservati, ma è ancora troppo poco. Ci prova "Emissary", un mid-tempo più ispirato che fa respirare la proposta del combo lusitano, ma sia chiaro, siamo ben lungi dal gridare al miracolo, e chissà mai se ce la faremo. La band prosegue infatti sulla scia del mid-tempo anche con "Graveborn", song più fluttuante nel suo incedere, ma un po' troppo monocorde. "Voleur D'Âmes" apre con un riffone quasi in Pantera style per poi dispiegarsi in una traccia un po' piattina, che evidenzia una maturazione a livello di songwriting ancora non del tutto completata. “Christendoom” (cosi come la conclusiva "Deadite") ammicca alla scena di Gotheborg per quanto riguarda la linea melodica, ma trovo che ci sia ancora parecchio da lavorare per scrollarsi di dosso quella ruggine accumulata da parecchi anni di assenza dalle scene. Peccato solo che una splendida cover cd non abbia goduto di un altrettanto valido supporto musicale, lo avrebbe meritato. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 60

https://anifernyen.bandcamp.com/album/augur

The Dues - Ghosts Of The Past

#PER CHI AMA: Psych/Blues Rock, Led Zeppelin, Radio Moscow
Per gli amanti di sonorità vintage/retrò che ci conducano indietro nel tempo di almeno 40 anni, eccovi serviti i The Dues, terzetto proveniente da Winterthur, in Svizzera. 'Ghosts of the Past' - mai titolo fu cosi azzeccato - è il terzo lavoro dei nostri, che include nove song che inglobano nel loro magico fluire, rock'n'roll, funk, psichedelia e blues rock, citando indistintamente nelle loro note, Cream, Led Zeppelin, Black Sabbath, Jimmy Hendrix e molti altri, insomma quei fantasmi del passato menzionati proprio nel titolo di questa terza fatica. E allora vai che si parte con la title track e quel giro di chitarra su cui si va a piazzare la voce di Pablo Jucker, in una song dai risvolti quasi doomish che cita sin da subito, Ozzy Osbourne e soci. "Something for my Mind" è una breve e nervosa scheggia rock che vi farà oscillare il capo e non poco. "Sails of Misery", con quel suo rullare imponente di batteria in apertura, si lancia in un impetuoso rock'n'roll, in cui a farla da padrone sono i giri di chitarra di Pablo (favoloso peraltro nella sezione solista), accompagnato puntualmente dall'ottimo basso di Stefan Huber e dal preciso drumming di Dominik Jucker. L'intro di "Under the Sea" è più pacato e oscuro, il che ci rivela anche una versione più riflessiva dei The Dues, in una song che appare però svuotata e pertanto meno efficace delle precedenti. Con "Love" mi sembra di entrare in uno di quei club dove musicisti con ampi pantaloni a zampa di elefante, si dilettano improvvisando pezzi blues rock, che mancano però di una magica spinta propulsiva. Questo per dire che l'energia emersa nelle prime tre song, sembra via via scemare: anche in "Elements of Doubt" assisto alla stessa cosa, ossia un pezzo blues rock che suona un po' troppo forzato per i miei gusti. Preferisco quell'attitudine genuina e spontanea che avevo apprezzato nel filotto iniziale e che fortunatamente sembra riapparire almeno in "La Realidad", in cui Pablo, oltre a cantare in spagnolo, adotta uno stile vocale differente. Rimane poi la conclusiva "Ley Lines", il brano più lungo e articolato (vista la forte vena psych rock che la pervade e quel suo fantastico assolo conclusivo che chiama in causa molteplici interpreti di quel periodo d'oro) di questo 'Ghosts Of The Past', e che vede i The Dues essere assai più convincenti in quei brani più ricercati e dinamici, che di certo avrebbero spopolato nei meravigliosi anni '70. (Francesco Scarci)

(Sixteentimes Music/Czar of Crickets Prod. - 2019)
Voto: 69

https://thedues.bandcamp.com/album/ghosts-of-the-past 

Eigenstate Zero - Sensory Deception

#PER CHI AMA: Death sperimentale, Edge of Sanity, The Project Hate
Stoccolma, da sempre centro strategico da cui brulicano band di ogni tipo, dal death metal degli Entombed al pop degli ABBA. Gli Eigenstate Zero sono gli ultimi arrivati e rappresentano il solo-project di Christian Ludvigsson, uno che deve essere cresciuto a pane, Entombed ed Edge of Sanity, il che vi dà immediatamente la dimensione in cui andremo ad immergerci oggi con questo fantastico 'Sensory Deception', debut della band. E qui tutti i nostalgici delle band che ho citato poco sopra (a parte gli ABBA) andranno sicuramente a nozze, visto che già dall'opener "Fringe", verremo investiti da un treno impazzito recante un bel carico di death metal svedese di vecchia scuola stoccolmese. Non pensiate però che il buon Christian abbia preso il copione degli act storici e ce l'abbia riproposto tale e quale; fortunatamente, il mastermind di oggi ha buon gusto, buone idee e per questo, già dalla successiva "1984.2" va ad abbinare il death old school con una forma interessante di cyber metal, cosi come una forte componente sci-fi emerge dalla lunghissima "The Nihilist", una traccia di oltre 11 minuti che se non sviluppata decentemente, rischierebbe di annichilire anche il più preparato dei fan death metal. Pertanto, ecco che un sound in stile At the Gates viene "sporcato" da deliranti influenze elettroniche che rendono la proposta estremamente varia ed interessante, nonchè vincente. Rimane sicuramente il marchio di fabbrica svedese, ma poi si va ben oltre (e per fortuna), sciorinando vertiginosi riff e assoli in un contesto oscuro e malato che sembra evocare anche, in ordine sparso, Between the Buried and Me, Devin Townsend, gli australiani Alchemist, Dillinger Escape Plan, Fear Factory, Dream Theater, Dismember, Nile, Carnival Coal, Gorguts, Lost Ubikyst In Apeiron, Opeth, in un tumultuoso tourbillon sonoro davvero notevole, come quello che accade nella più breve ma altrettanto efficace "Eigenstates". Comunque quando c'e da fare male, il polistrumentista scandinavo prosegue nella sua opera distruttiva: è il turno della deflagrante "Zentropic", devastante ma ricca di molteplici sfumature e pregna di groove. Christian alla fine mette in fila una serie di saette affilate che da "Communion" arrivano alla conclusiva "Fringe", passando da episodi più o meno rilevanti e parecchio lunghi e complicati: "Godeater" sembra un tributo ai Morbid Angel, la lunga (oltre 10 minuti) "Strangelets" nei suoi sperimentalismi mostra accanto al death metal molteplici e stralunati risvolti di carattere jazz, space e prog rock. È decisamente nei pezzi più lunghi che Christian dà il meglio di sè visto che manca ancora "Transhuman", altri dieci minuti in cui l'artista svedese ne combina ancora di tutti i colori, scatenando l'incredibile dose di melodia a servizio di una brutalità di fondo quasi perennemente presente, il che avvicina maggiormente il nostro eroe di quest'oggi ai connazionali The Project Hate. Insomma, che altro devo dirvi per invogliarvi all'ascolto di questo "inganno sensoriale"? Fatelo vostro e basta! (Francesco Scarci)

Numen - Iluntasuna Besarkatu Nuen Betiko

#PER CHI AMA: Black/Folk
Scavallati i confini nazionali, la Les Acteurs de l'Ombre Productions ha iniziato a prenderci gusto, e cosi dopo l'uscita dei cileni Decem Maleficium, ecco tornare la label transalpina con i baschi Numen. Un nome che porterà alcuni di voi a pensare ad un paio di gioiellini usciti a inizio anni 2000, e cito 'Galdutako Itxaropenaren Eresia' e 'Basoaren Semeak', i primi due positivissimi e originali lavori dell'act di Mondragón. Dopo un terzo album omonimo nel 2007, il silenzio, perdurato fino ad oggi, spezzato dall'uscita di questo 'Iluntasuna Besarkatu Nuen Betiko'. Si tratta di una forma di pagan metal dalle tinte folkloriche ma comunque assai estreme nella loro componente black, l'essenza principale del sestetto basco. E cosi appare evidente già dall'opener "Iluntasuna Soilik" e dalla successiva "Lautada Izoztuetan", come i nostri miscelino raw black con un folkish sound. La melodia comunque trasuda dalle linee di chitarra in tremolo picking di questi due pezzi e ovviamente anche dai seguenti. La voce è il classico grugnito black che si dipana tra tiratissime accelerazioni e qualche momento più rallentato, come quello che chiude la seconda traccia. Tutto apparentemente interessante, ma un po' scontato e già sentito, che in taluni momenti rimane addirittura invischiato nell'anonimato di serratissime parti (la batteria proprio l'ho mal digerita qui) che forse funzionavano negli anni '90. E cosi, se "Pairamena" sembra esordire in modo oscuro, quando la ritmica si fa più infuocata, sembra emergano i limiti dei nostri di oggi, ossia meri propositori di un suono secco e tagliente, che sembra rievocare i fantasmi passati di Mayhem o anche Dissection, ma che francamente, dopo oltre vent'anni, percepisco ormai come obsoleto. Sono forse invecchiato io che ho vissuto la nascita, maturazione e declino di un sound che oggi necessita di soluzioni innovative per poter assistere ad una nuova rinascita. Alla fine 'Iluntasuna Besarkatu Nuen Betiko' è un lavoro che si farà notare per qualche raro intermezzo acustico, forse per la particolarità di essere cantato in lingua basca ed essere ispirato dalle antiche credenze di quel popolo; è un lavoro suonato da buoni mestieranti, ma di cui riesco a trovare poco altro tra le note di questo lavoro, che nella sua crudezza e glacialità, ha fallito l'obiettivo di scaldarmi l'anima. Se posso citare una song che più ho apprezzato, direi "Nire Arnasean Biziko da Gaua", un mid-tempo decisamente più ispirato delle altre, che dovrebbe far riflettere la band per la ricerca di migliori soluzioni future. (Francesco Scarci)

martedì 29 ottobre 2019

Resuscitator - A Warrior's Death

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death, Immortal
Un periodo piuttosto oscuro il 2005 per la Displeased Records, che dopo il flop con gli Utuk Xul, ci ha riprovato con questi Resuscitator, band di “occult” black death metal. E 'A Warrior's Death' è il terzo ed ultimo lavoro per il combo proveniente dalla California (qui al canto del cigno), dopo i due album usciti nel lontano 1994 e nel 2001. Siamo di fronte ad un primitivo black thrash metal (black per le vocals, thrash per le ritmiche), che fa un uso, un po’ bizzarro della batteria, con l’intento di dare un suono quasi sperimentale, alla proposta musicale. Un plauso merita quindi il batterista, sicuramente l’elemento più interessante di questi Resuscitator, con il suo ritmo fantasioso e allo stesso tempo marziale, in grado di conferire un sound apocalittico all’intero lavoro. La proposta del trio statunitense è influenzata dagli Immortal (periodo 'Blizzard Beasts') e dagli Enthroned. La voce però, nel suo fastidioso gracchiare, ambisce a somigliare a quella di Attila Csihar, con risultati ahimé scadenti. Rispetto alle produzioni passate, le tastiere sono state messe da parte per intensificare la potenza del sound. Le chitarre ritmiche presentano il classico riff death “made in USA”, con quell’effetto “scricchiolio” quanto mai insopportabile. La struttura dei pezzi si presenta inalterata e alla fine un po’ tutti i brani tendono ad assomigliarsi: identica la sezione ritmica e piatto il lamentoso modo di cantare di Summoner cosicché il risultato finale rischia di suonare piuttosto imbarazzante. Questo lavoro targato Resuscitator, alla fine non mi convince per nulla, nonostante la produzione sia abbastanza buona e pulita: otto pezzi per un totale di 32 minuti non valgono l’acquisto dell’ennesimo cd fiasco, prodotto dalla casa olandese; un cd anonimo e noioso senza guizzi capaci di risvegliarci dal torpore residuo del caldo estivo. (Francesco Scarci)

(Displeased Records - 2005)
Voto: 50

https://myspace.com/resuscitator

Deranged - The Redlight Murder Case

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death Old School
Li avevo già recensiti in occasione di 'Obscenities in B-flat', pensate che sia cambiato qualcosa da allora? C'è poco da fare con questi svedesoni, che fanno della coerenza la loro bandiera la loro arma micidiale e così, anche con questo disco (ma sarà cosi anche con tutti i successivi), vi dico chiaramente che nulla è cambiato rispetto al passato. L'act scandinavo continua a sbatterci in faccia le proprie devastanti songs, contraddistinte dagli ingredienti di sempre: riff selvaggi sparati alla velocità della luce, drumming assassino condito da iper blast beat, vocals che emergono direttamente dalle tenebre, qualche break capace di darci respiro per una frazione di secondo e il gioco è fatto. I Deranged sono maestri nel confezionare da sempre dischi di ferale death metal old-school, che fanno la gioia dei fan più intransigenti, non la mia. (Francesco Scarci)

(Regain Records - 2008)
Voto: 60

https://www.facebook.com/derangedband

Michael Feuerstack - Natural Weather

#PER CHI AMA: Folk/Indie
Il nuovo album di Michael Feuerstack è pervaso da una quieta atmosfera, vagamente malinconica, dal tono sfuggente ed intimo. Il giovane cantautore canadese evita la tristezza profonda per regalarci sofisticati quadri di vita quotidiana, racconti pieni di riflessioni e sentimenti nascosti, piccoli rumori messi da un lato e ricomparsi da un altro angolo del brano senza far rumore, in punta di piedi. Un lavoro musicale assai certosino, una perizia meticolosa sui suoni usati, degna del miglior Nick Drake, che arricchisce le canzoni di mille sfaccettature, un po' come gli ultimi album degli Arcade Fire, dove tutto deve essere ascoltato più volte per essere realmente percepito. In comune con la famosa band canadese, il nostro cantautore ha anche una collaborazione in questo disco con Sarah Neufeld, violinista proprio del collettivo di Montrèal oltre che della Bell Orchestra. L'incedere lento e sognante diventa progressivamente una costante dell'album, i suoni di questo 'Natural Weather' fanno la differenza in questo disco e sembra che scarnificare la musica, aiuti il giovane artista ad entrare nel vero personaggio del cantastorie, solitario e fluttuante, sul filo di una leggera psichedelia evanescente. Ecco che al quinto brano ci attraversa le orecchie il sound di "Heavenly Bells", un'infinita ballata dal cuore tenero ed etereo, sospesa in aria come alcune creazioni del fuoriclasse David J ("Bauhaus", "Love and Rockets"). Il folk, l'alt country ed il pop si fondono cosi in un sofisticato tributo ai colori più variegati, dalle tonalità di grigio ad un arcobaleno appena pronunciato e la coda di "Birds of Prey" la dice lunga in merito. L'artwork di copertina è centrato, con le sue nuvole grigie e le scritte glam di un luna park surreale. "Don't Make Me Say It" richiama il menestrello Dylan e lo mette a fare i conti con i moderni suoni vintage di "Everything Now" di Win Butler & C., mentre lo slide delle chitarre della lunare "Outskirts" (il rimando al capolavoro di Neil Young, "Harvest Moon" è evidente) suona polveroso e solitario, come se a dirigerla ci fosse il miglior David Lynch. Così, alternando momenti di soffice psichedelia, rallentando il passo del paisley underground ed esaltando la composizione folk, ci si avvia verso il finale di un disco maturo e ricercato, leggermente derivativo ma dotato di buona personalità, tanto buon gusto nella produzione e nella costruzione. Un album piacevole, ben fatto e di alto profilo che porta avanti un giovane musicista con le idee già chiare sulla direzione artistica da intraprendere per le sue opere future. Un disco tutto da scoprire. (Bob Stoner)

lunedì 28 ottobre 2019

Lock The Basement - Die While You Stand In Line

#PER CHI AMA: Industrial/Elettronica, Rammstein, Nine Inch Nails
“Be safe
life has a better taste
when you don't take any risk”


C’è un libro che adoro, ma che fatico a rileggere: è 'Brave New World' di Aldous Huxley. Non racconta di creature insettiformi che sbucano dalle fottute pareti o dal petto dei malcapitati visitatori di planetoidi sconosciuti, né di devastanti cataclismi pronti a sterminare l’umanità: è la fredda rappresentazione di una società rigidamente controllata, i cui membri vengono condizionati fin dalla nascita ad accettare un posto predeterminato nella comunità e a non provare alcun desiderio di miglioramento personale o di attaccamento affettivo. Gli istinti, le passioni, i sentimenti sono stati estirpati in nome del conformismo e del quieto vivere, di conseguenza tutti conducono un’esistenza priva di rischi, ma al tempo stesso insignificante e nevrotica. Persino un maniaco del controllo refrattario ai cambiamenti come me riconosce che sarebbe l’inferno: la vita è crescita individuale, errori da commettere, cambiamenti da affrontare e perdite da superare, che ci piaccia oppure no.

'Die While You Stand In Line', terza release di Lock The Basement, progetto solista di Andrea “Boma” Boccarusso, non ci presenta fantascientifici futuri distopici, ma ci sbatte in faccia ciò che stiamo diventando nella realtà: piccoli individui chiusi a riccio nel nostro universo personale fatto di effimere certezze ed illusioni, dove ogni deviazione dal tracciato di una presunta normalità è censurabile e i rapporti umani si riducono a mere interazioni superficiali dominate dall’ipocrisia. L’isolamento e lo squallore della vita quotidiana sono il fulcro dell’album, rappresentate anche nell’artwork che vede il musicista solitario di spalle in un corridoio fiocamente illuminato.

Parliamo di un EP composto da tre tracce inedite a cavallo tra pura elettronica ed echi industrial rock alla Nine Inch Nails a cui si aggiunge una cover dei Rammstein, ma limitarsi a considerare la lunghezza dell’opera sarebbe riduttivo: questo perché per Andrea, musicista poliedrico noto per il fortunato canale Youtube, dove armato di chitarra esegue i migliori riff del metal e non solo, Lock The Basement sembra essere qualcosa di più di un semplice progetto musicale, vale a dire l’espressione di tormenti e sensazioni interiori. Non deve dunque stupire se in questo capitolo estremamente intimo, i ruggiti della chitarra metal abbiano lasciato spazio a crepuscolari composizioni elettroniche, senza per questo perdere il calore di un sound più convenzionale.

La prima traccia “Risk”, singolo da cui è stato tratto un videoclip e che si scaglia senza mezzi termini contro il perseguimento del benessere materiale a scapito della serenità interiore, si sviluppa su un ossessivo giro di synth accompagnato esclusivamente dalla marziale drum machine e dal cantato pulito di Boma, per poi crescere di dinamica ed esplodere in un caleidoscopio rumoristico che sembra simboleggiare l’insostenibilità degli stili di vita odierni. Segue “Slaves”, dove maestosi tappeti di tastiera si levano come un’alba che illumini le nostre tristi esistenze prigioniere di paure nascoste, un brano profondo in cui la voce calda del musicista biasima coloro che per orgoglio rifiutano di aprirsi e lasciarsi aiutare. “That Little Piece of Space” è caratterizzata da atmosfere inizialmente fredde e notturne, per poi accendersi all’aumentare di intensità del malinconico cantato: è un pezzo diverso dai precedenti, in quanto la critica pungente lascia spazio ad una sorta di amara melodia funebre per tutti coloro che scelgono di morire stando in fila, ossiadi piegarsi completamente ad un’esistenza grigia e priva di stimoli. Chiude la cover di "Sonne", parzialmente rielaborata per dare maggior peso agli strumenti elettronici e dove a sorpresa, ritroviamo un turbinoso assolo di chitarra.

Se stilisticamente l’influenza del guru Trent Reznor e le sue creature è evidente, 'Die While You Stand In Line' si contraddistingue per la resa in musica di concetti estremamente personali e la forza delle immagini che riesce a trasmettere andando a toccare chirurgicamente alcuni nervi scoperti comuni a tutti noi. E così, come Bruce Wayne indossa il costume per poter compiere ciò che sente essere il suo dovere, Boma assume i panni di Lock The Basement per metterci in guardia dai pericoli di una vita schiava delle nevrosi, del materialismo e dell’incomunicabilità. (Shadowsofthesun)

“The abyss doesn't give a fuck if you can eat on your toilet seat.” 

(Self - 2019)
Voto: 78